La Francia della Restaurazione è un ambiente edonistico dove l’opera lirica e le storie romantiche fanno da padrone: gli spettacoli nei teatri sono regolari ma qualitativamente ripetitivi, segno di una certa arretratezza a livello di gusto musicale; in molti lo notano ma pochi cercano di porvi rimedio, specie quando si prende ispirazione dalla sempre più odiata area tedesca, che stava vivendo un vero e proprio rinascimento grazie a musicisti come Beethoven e Schumann. È in questo clima che Jeanne-Louise Dumont nasce il 31 maggio del 1804.

È figlia d’arte: suo padre, Jacques-Edme, è discendente di una dinastia di scultori di successo, mestiere che passerà al figlio Augustine-Alexandre, meglio conosciuto col nome Auguste; da parte della madre Marie-Elisabeth-Louise Curton proviene dai Coypel, ritrattisti e ritrattiste di corte. La famiglia Dumont è ben nota negli ambienti culturali parigini e non passa molto tempo prima che Louise abbia il suo battesimo artistico: a sei anni inizia a prendere lezioni di pianoforte da Cecile Soria, allievo del maestro Muzio Clementi, mostrando ben presto un incredibile talento. Continua i suoi studi col virtuoso pianista Ignaz Moscheles, futuro direttore del Conservatorio di Lipsia, e col compositore Johann Nepomuk Hummel, compagno di Beethoven e allievo anch’egli di Clementi; con loro Dumont si mostra versata anche nella composizione, fatto che porta i genitori a cercare di iscriverla al Conservatorio di Parigi all’età di soli 15 anni. Qui la ragazzina affronta purtroppo la prima vera discriminazione causata dal proprio sesso: il Conservatorio ammette solo uomini e nonostante le sue innegabili abilità non fa eccezione per lei, costretta quindi a prendere lezioni private per poter proseguire il suo percorso. Il suo insegnante è Anton Reicha, uno dei professori di musica più quotati dell’epoca. Fa amicizia con un flautista, Aristide Farrenc, di lei dieci anni più grande e che si esibisce regolarmente alla Sorbona poco distante da casa sua; non passa molto prima che tra i due scocchi la scintilla. Louise ha 17 anni quando si sposano nel 1821, sigillando un’unione che sarà felice e all’insegna del mutuo rispetto; prende il cognome del marito, per il quale interrompe gli studi per poterlo accompagnare nei tour in giro per l’Europa dove si esibisce anche lei. Aristide, però, sentendo che quello stile di vita errabonda non fa per lui, torna con la moglie a Parigi e fonda la casa editrice Éditions Farrenc, diventando presto uno dei punti di riferimento per la pubblicazione di musica in Francia.

Louise Dumont, ora Farrenc, riprende e completa i suoi studi con Reicha; nel 1826 dà alla luce Victorine, l’unica figlia, anche lei un precoce prodigio del pianoforte, che di frequente si esibirà con la madre pure durante cerimonie importanti. Ricomincia ad andare in tournée in giro per l’Europa, suonando e componendo e ottenendo fama di abile musicista in poco tempo. Aristide è completamente coinvolto nella sua carriera, convinto sostenitore del suo talento: non solo la finanzia ma organizza gli eventi in cui si esibisce, pubblica e diffonde per tutto il continente le sue produzioni. Un’unione, la loro, felice e feconda, una rarità per numerose musiciste contemporanee di Farrenc. Ella compone solo per pianoforte fino agli anni Trenta dell’Ottocento, guadagnandosi le lodi di importanti figure del panorama musicale di allora come Robert Schumann. Inizia poi a scrivere brani di musica per orchestra — due overture che non verranno mai pubblicate — e da camera; quest’ultima tipologia è quella che le fa guadagnare più successo e la critica non esita a compararla — pur con molte reticenze e spesso in modo paternalistico —ad altri celebri compositori dell’epoca.

Diventa talmente conosciuta da venire chiamata a insegnare pianoforte al Conservatorio di Parigi nel 1842, incarico che accetta volentieri. Non solo è l’unica donna nel corpo docente —e lo sarà per tutto il XIX secolo — ma è anche la più famosa e una delle più capaci, descritta dai suoi studenti come una docente brillante che ha portato molti di loro a vincere premi prestigiosi e ad avviare la relativa carriera. Nonostante questo, è la meno pagata in virtù del suo sesso. Farrenc terrà la cattedra per trent’anni, fino al 1873. Solo dopo i primi dieci anni prenderà lo stesso stipendio dei suoi colleghi, dopo lo straordinario successo di Nonetto in mi bemolle maggiore, op. 38: alla premiere dell’opera, a cui partecipa anche il famoso violinista Joseph Joachim, Farrenc pretende che la sua paga sia alzata, una richiesta che il direttore del Conservatorio Daniel Auber accontenta. Nel 1859 l’amata Victorine viene a mancare dopo una lunga malattia e con lei muore anche la vena creativa di Farrenc, che non comporrà più; si getta anima e corpo nell’insegnamento e nell’attività di ricerca, aiutando il marito e la sua casa editrice.

Grazie alla sua musica da camera viene premiata ben due volte dall’Accademia delle Belle Arti con il prestigioso “Prix Chartier”, nel 1861 e nel 1869. Oltre all’insegnamento e alle tournée Farrenc e il marito si dedicano alla musica antica, ritrovando vecchi spartiti per clavicembalo e ripubblicandoli; curano e pubblicano Le Trésor del Pianistes, una raccolta di oltre due secoli di spartiti per clavicembalo e piano di ben 23 volumi. Quando Aristide muore nel 1865 Louise continua a pubblicare da sola i restanti 11 volumi, reggendo l’attività fino alla morte avvenuta nel 1875. Nonostante l’enorme successo in vita, la Francia la dimentica molto presto: il suo Nonetto le sopravvisse per qualche anno, permettendole di apparire in libri di musica come Pianistes célebrès di Antoine Françoise Marmontel. Tuttavia, il suo stile assai vicino a quello di Beethoven e al romanticismo tedesco, in un’epoca in cui la sconfitta per mano prussiana nel 1870 brucerà per decenni, contribuirà a farla cadere nell’oblio. Questo fino al XX secolo, quando un rinnovato interesse per le compositrici riporta alla luce il suo lavoro e la sua influenza sulla musica francese.

Come già detto per molto tempo Farrenc ha composto solo per pianoforte e solo dagli anni Trenta inizia a sperimentare con la musica da camera e da orchestra, mostrando sempre un alto livello di indipendenza e versatilità. Discostandosi dai suoi contemporanei preferisce comporre sonate e sinfonie, generi non più coltivati in Francia dalla Rivoluzione; il suo stile è fortemente influenzato dalla musica di Vienna, dove hanno studiato i suoi maestri: ciò l’ha allontanata dal gusto musicale francese dell’epoca, portandola a un genere più astratto, privo di un peso narrativo. Si rifà spesso a lavori del XVII e XVIII secolo, non mera imitazione ma invito a chi ascolta a ricordare la musica del passato, di norma snobbata dai contemporanei. Scrive per strumenti a fiato, archi e ovviamente per pianoforte; tra i suoi pezzi più famosi Quintetto per pianoforte op. 30 e 31, Sestetto per pianoforte e fiati op. 40, Trio per pianoforte op. 33 e 34, Nonetto per fiati e archi op.38, Trio per clarinetto, violoncello e pianoforte op. 44. Il Concerto per pianoforte in B minore è forse la sua opera più audace e lontana sia dal suo stile che da quello francese, di cui tuttavia rimane solo un manoscritto incompleto. La sua Terza sinfonia op. 36 è stata eseguita alla Société des concerts du Conservatoire nel 1849 riscuotendo enorme successo. In tutto la musicista ha scritto 49 composizioni. Stranamente non ci sono opere liriche nonostante il genere fosse molto in voga in Francia. Dalle fonti sappiamo che non è stato per volontà di Farrenc, che anzi ha provato a sperimentare anche in questo campo: tuttavia, essendo donna, non le è stato mai concesso un libretto su cui lavorare.

L’insegnamento è stato la sua più grande passione, il suo metodo sobrio e diretto è stato tramandato a lungo. Il suo Trenta studi in tutte le chiavi maggiori e minori, una raccolta per pianoforte sia musicale che pedagogica, continuerà ad essere stampata decenni dopo la morte dell’autrice. Oltre al perfezionamento della tecnica, Farrenc fornisce una lezione di storia introducendo lo/la studente a una pletora di diversi stili di scrittura musicale, da Bach fino all’epoca a lei contemporanea. Un’opera preziosa che mostra sia l’abilità di docente sia la sua indipendenza, il suo rifiuto di ancorarsi alle mode e la sua passione di ricercatrice.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
