Tra le tante lingue esistenti ce n’è una, denominata esperanto, che è stata costruita a tavolino nel tentativo di fornire all’umanità un idioma universale che consentisse di superare le barriere linguistiche-comunicative, con tutti i benefici politico-sociali che ne derivano, e che fosse in grado di unire tutti i popoli nel nome della comprensione reciproca.
Come riporta l’enciclopedia Treccani, «la grammatica dell’esperanto è caratterizzata da una notevole semplicità, e il principio fondamentale posto a base della forma e del significato delle radici è quello della massima internazionalità. Una serie determinata di prefissi e suffissi permette, secondo le caratteristiche delle lingue agglutinanti, di formare un gran numero di vocaboli che conferiscono alla lingua ricchezza e varietà e la rendono accessibile a persone di tutti i gruppi linguistici, anche ideografici».
Se avete già avuto a che fare con questa lingua, conoscerete sicuramente Ludwik Łazarz Zamenhof, il suo fondatore, anche noto con lo pseudonimo di Doktoro Esperanto, letteralmente “dottore speranzoso”.

Probabilmente, saprete anche che l’Unua Libro (Il primo libro) o Lingvo Internacia (Lingua internazionale), il testamento contenente i principi dell’esperanto, venne pubblicato nel 1887 grazie all’aiuto finanziario di Aleksander Sender Silbernik, commerciante polacco e padre di Klara, la donna che di lì a poco sarebbe diventata la signora Zamenhof.
Tra gli obiettivi che la Uea (Associazione Universale Esperanto) si pone, risalta il nobile proposito di «facilitare tutti i tipi di relazioni spirituali e materiali tra le persone, nonostante le differenze di nazionalità, razza, sesso, religione, politica o lingua».
Malgrado le onorevoli intenzioni, c’è nel continuum storico e nella trasmissione di questa lingua la perpetuazione di un racconto riduttivo di una presenza che è stata invece fondamentale: quella di Klara Zamenhof.

La pagina introduttiva dell’Akademio de Esperanto, l’istituzione di monitoraggio e tutela della lingua omonima, si apre con la copertina del libro Historio de la Akademio de Esperanto di Carlo Minnaja.
Nell’immagine si vedono chiaramente i volti di venticinque uomini e, in alto a destra, quella di Klara che, insieme alla figlia Lidia, interrompe la sequenza fotografica maschile.
Se è vero che la sua presenza in un libro dal titolo così eloquente le riconosce un posto nell’elaborazione dell’esperanto, è altrettanto vero che questo non è sufficiente a restituirne pienamente il ruolo attivo che ha avuto. Che non sia abbastanza lo sottolinea la documentazione biografica di questa donna: Klara è, infatti, per lo più nota per essere la figlia di, la moglie di e la madre di.

La sua vita prima del matrimonio, descritto come il vero turn over della sua esistenza, viene ridotta alla nascita, avvenuta il 5 ottobre del 1863 a Kaunas, in Lituania, e alle nobili origini familiari ebraiche.
Sappiamo poi che nel 1886, presso la casa del cugino Lewita, ha luogo il fortunato incontro con Zamenhof che il 9 agosto dell’anno seguente diventerà suo marito. Dall’amore tra i due nasceranno Adam, Zofia e Lidia.
Nel 1887 la «nuova lingua artificiale» a cui Ludwik aveva lavorato ha finalmente assunto la forma e la grammatica di un codice linguistico pronto per essere utilizzato.
Il progetto è concluso ma senza sufficienti risorse economiche il manuale dell’esperanto non potrà essere pubblicato e le possibilità che l’idioma si diffonda universalmente saranno ridotte al minimo. Klara non ci pensa due volte: sicura delle potenzialità di questa lingua, cede tutta la sua dote al marito che, così, riesce a far stampare l’Unua Libro.
È dunque grazie a lei se il sogno nebuloso del coniuge riesce a concretizzarsi.
Se quindi non fosse già di per sé rivoluzionario il fatto che una donna di quell’epoca si occupasse della creazione di una lingua (e qui potremmo dilungarci sulla storica associazione uomo-logos/raziocinio contrapposta a quella donna-corpo/irragionevolezza), si aggiunge anche l’aspetto delle disponibilità economiche a rimarcarne la straordinaria emancipazione. Mi permetto di riportare letteralmente e per esteso due delle poche righe presenti nella sezione ‘Biografia’ che l’enciclopedia online Wikipedia dedica all’esperantista polacca: «Klara Zamenhof fu per tutta la vita collaboratrice e assistente del marito, svolgendo spesso le sue mansioni amministrative e di segreteria. Anche dopo la morte del marito ella fu coinvolta attivamente nel movimento esperantista».
Le due proposizioni sembrano contraddirsi a vicenda: se il primo enunciato ci permette di ipotizzare che la donna morì prima del marito, cooperando con lui fino agli ultimi istanti della sua esistenza, il secondo (nel quale mi sembra sia implicito un “nonostante”) ci dice invece che Ludwik la precedette nella morte e che, al di là di lui, Klara continuò a contribuire al loro (plurale) lavoro. E così, sono la vita e l’attività di Łazarz Zamenhof che scandiscono i tempi di quella di lei, è lui il protagonista, centro nevralgico e motore e lei semplicemente comparsa della sua stessa storia.
Ma la narrazione congiunta non si esaurisce qui. Si legge altrove: «Sua moglie Klara accompagnava sempre il marito, quindi anche lei ha partecipato a tutti i congressi»… quasi che la sua fosse una partecipazione di riflesso, non di volontà ma di sostegno.

Tuttavia, dal primo Congresso mondiale dell’esperanto, tenutosi nel 1905 a Boulogne-sur-Mer, in Francia, a quello di Vienna nel 1924, Klara fu sempre presente, pure dopo la morte del marito avvenuta nel 1917, e ha continuato a sviluppare la comunità linguistica e a sostenere la figlia Lidia, futura insegnante di esperanto in Europa e negli Stati Uniti.
Oggi Ludwik Łazarz Zamenhof, nominato 12 volte per il premio Nobel per la pace, è riconosciuto a livello mondiale come il visionario creatore dell’esperanto; di Klara, invece, non rimane che un asciutto resoconto di una vita vissuta a fianco del “dottore speranzoso”, figura di rilievo ma secondaria. Sembra che poco importi, che sia irrilevante sapere che senza di lei, molto probabilmente, l’esperanto non avrebbe visto la luce.

Esattamente un secolo fa, il 6 dicembre del 1924, l’esperantista polacca moriva a causa di un tumore al fegato.
All’inizio del suo necrologio, pubblicato su Germana Esperantisto, periodico tedesco di esperanto attivo dal 1905 al 1935, si legge: «La storia del movimento esperantista mostrerà un giorno il significato di questa donna per l’esperanto».
L’autore del mortuario, attento a celebrarla per aver continuato il lavoro iniziato dal marito («considerando un simile tratto caratteriale, si può immaginare con quale mano morbida ha curato l’eterna quercia piantata da suo marito»), cede ai posteri il compito di tramandarne la memoria e il valore, restituendole il pregio dimostrato nell’elaborazione e nella sopravvivenza dell’esperanto. Noi accogliamo il suo monito e, nel nostro piccolo, ci facciamo carico di ridare lustro e continuità alla storia di questa donna che, appropriandosi di un mezzo tradizionalmente utilizzato al maschile, ha tentato di fare del linguaggio uno strumento a servizio della pace e dell’unione fra i popoli.
Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
