Sabato 7 dicembre il Comune di Monte Porzio Catone, in provincia di Roma, ha intitolato una piazza a Giovanna Marini. La piazza è adiacente al parco Antonio Gramsci (il che le sarebbe certamente piaciuto). L’intitolazione è avvenuta in deroga alla normativa toponomastica che prescrive l’attesa di dieci anni dalla morte, ma Giovanna è stata un’artista di tale fama e merito che il Comune in cui aveva scelto di vivere cinquant’anni fa ha appoggiato l’iniziativa popolare, sostenuta dal coro di Monte Porzio Il Canto Necessario da lei stessa fondato.

La giornata è stata festosa e soprattutto piena di musica. Non sarebbe potuta essere diversamente. Dopo l’esibizione della banda MPC Superband ’83 e la cerimonia di intitolazione, nel piazzale si sono radunati i gruppi di Giovanna: il già menzionato Canto Necessario, il trio A Modo, le Donne di Giulianello, il Laboratorio Modi del canto contadino e quello degli Inni e canti di lotta, questi ultimi nati dal lavoro di Giovanna alla Scuola popolare di musica di Testaccio, oltre a musiciste storiche collaboratrici di Giovanna. Una mattinata intera di musica accompagnata dalla partecipazione popolare — che non si è fermata nemmeno dopo il termine del programma ufficiale perché tutto il pubblico si è messo a cantare — cui è seguita, nel pomeriggio, la visione del documentario Giovanna. Storia di una voce della regista Chiara Ronchini.
Ci sono state dunque la solennità dell’evento, la gioia del canto e la riflessione.

La targa di Monte Porzio dice: “Giovanna Marini, musicista”. Ed è questa la definizione che Giovanna dava di sé. La cosa parrebbe ovvia se fosse stata solo una musicista, sia pur straordinaria, ma è stata anche altro. La si ricorda eseguire, con voce e chitarra, canti della tradizione operaia e contadina, ma è stata anche insegnante, militante politica con innumerevoli concerti nelle feste popolari, nelle fabbriche, nelle case del popolo, compositrice contemporanea.

Ascoltando la sua voce, i racconti e le musiche, Giovanna appare dapprima un personaggio contraddittorio, in bilico fra la cultura popolare e quella cosiddetta “alta” e tale contraddizione, sulle prime, desta perplessità. Il dilemma è ricordato da lei stessa in un passo del bel film di Ronchini: come si deve trattare questa benedetta “musica popolare”?
Chi fa ricerca sul campo si occupa di trovare, registrare e conservare la cultura popolare, non di riprodurla. La riproposizione a un pubblico — o magari con un pubblico — e la necessaria rielaborazione sono attività artistiche che si appoggiano al lavoro di ricerca e memorizzazione ma non lo esauriscono. Giovanna, come ha già ricordato Laura Candiani in queste pagine, era nata in una famiglia colta, di ambiente musicale accademico, ed è interessante sentire la sue parole, nel film di Ronchini e nella puntata a lei dedicata di Nessun dorma, intervistata da Massimo Bernardini. Il suo destino era la “grande musica”, il concertismo, come da illustri precedenti familiari, ma lei non ne era entusiasta pur avendone i numeri. Trovava insopportabile la disciplina pianistica a cui, fin da bambina, era sottoposta e accolse un improvviso problema — un forte dolore a un braccio e a una scapola, a dieci anni, che la costrinsero ad allontanarsi dalla tastiera — con grande piacere, perché era sempre meno peggio della noia di ore dedicate a scale e arpeggi. Era insomma una pecora nera. Ma tornò al conservatorio per studiare la chitarra, appena inserita nei programmi accademici, insieme ad amici che erano i primi “capelloni”, e poi suonò a lungo il liuto in ensemble di musica antica.
Fu l’incontro con intellettuali accorti, primo fra tutti Pier Paolo Pasolini, che la fecero riflettere sul ruolo di musicista. Pasolini la guidò verso lo studio della cultura orale, ancora considerata sottocultura tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, e le insegnò che «le canzoni non stanno sui libri, le canzoni stanno per strada».

La musica popolare, appena scoperta, le sembrava semplice. A una chitarrista attenta come lei, proveniente dal conservatorio e perfezionatasi con Andrés Segovia, quelle che ascoltava durante le sagre popolari e le processioni nei paesi sembravano veramente solo «quattro note». Ma perché, si chiedeva, quelle quattro note la emozionavano tanto? Perché, capì, oltre ai suoni c’erano anche le facce di chi cantava, le loro storie, secoli di musica che non ha mai goduto del rispetto dell’élite, cacciata dalla musica classica, quella «ricca». Come sempre, il potere fa la differenza.
Inaspettatamente, la musica che più la toccava era quella del rito, delle processioni di paesini poveri e isolati. La musica del rito, dice Giovanna, è rimasta «disattesa anche per un fatto sociale e politico: perché era la musica dei poveracci», che «spesso nel testo nascondeva la rivolta». E paradossalmente questo canto «più è antico e più è moderno» per la quantità di suoni, rumori, versi — diremmo perfino versacci — che non hanno trovato posto nel mondo del “bel canto” classico. La musica popolare ha veridicità e le vocalità “strane” e “ineducate” sono fatte apposta per suscitare emozioni.

Quando Giovanna si rese conto di tutto questo si sentì sola. Continuava a fare il suo lavoro — turni di registrazione, colonne sonore, collaborazioni — anche perché doveva pur lavorare, ma prese ad andare in giro per i paesi, in un furgone con figli e cane, a cantare in spettacoli improvvisati e con i dischi che si era autoprodotta. «Così», racconta, «ho conosciuto un’Italia sottostante — in cui il momento più importante della giornata era alla sera alla casa del popolo, al dopolavoro — che non avrei mai conosciuto facendo la concertista classica». Venne il momento di scegliere da che parte stare e, pur non condividendo in pieno la linea del Partito comunista, Giovanna si iscrisse.
A quel punto tutti le chiedevano canzoni “politiche” ma, diceva, se «la musica popolare è musicalmente di grande qualità, la musica di protesta di solito non è interessante. Lo è come fenomeno sociale ma non musicale. È per questo che poi mi ha stufato». Anche perché «i testi sono troppo diretti» e poco poetici. Le canzoni politiche sono spesso «antipatiche» perché «rifiutano l’empatia con la gente e parlano solo di concetti». Inoltre la canzone-tipo dura tre minuti, lo spazio di un lato di 45 giri a cui anche i brani politici devono adeguarsi, ma quando si ha bisogno di dire qualcosa non ci si può fermare. La splendida e famosa I treni per Reggio Calabria dura molto perché racconta una storia.

In Italia, negli anni Sessanta, quando cantava nelle fabbriche e alle feste dell’Unità, a Giovanna veniva spesso affibbiato il ruolo di Pasionaria, che lei detestava perché la musica, non la politica, era il suo mondo, e questo mondo lo ritrovò a Testaccio e, in seguito, in Francia, dove il suo retroterra politico non era così noto. Là poté affermarsi come compositrice dimostrando che, al di là dell’apparente semplicità del canto operaio e contadino, la scrittura popolare poteva essere raffinatissima. Le sue opere per quartetto vocale sono straordinarie.
D’altro canto il limitarsi a raccontare quello che è stato, così com’è stato, non serve a niente: è un articolo di cronaca che informa, e basta. «Io devo trovare quello che dentro di me assomiglia a questo», diceva, «e tirarlo fuori; arrivare al dettaglio e farlo diventare universale». Anche la sua posizione sull’avanguardia musicale era netta. In un’intervista dichiarava che i grandi compositori d’avanguardia del Novecento suonavano comunque per il solito pubblico degli abbonati delle sale da concerto, e questo non cambia nemmeno nella musica pop, quasi sempre musicalmente misera e comunque non coinvolgente. I grandi musicisti moderni, secondo Giovanna, non sono i celebrati mostri sacri, ma quelli che, come Frank Zappa, combinano la sapienza compositiva con un lessico musicale popolare.

Giovanna Marini insegnante è nata alla Scuola popolare di musica di Testaccio, poco tempo dopo la sua fondazione da parte di un gruppo di musicisti — Bruno Tommaso, Eugenio Colombo, Giancarlo Schiaffini, Michele Iannaccone e molti altri — che sentivano la necessità di uscire dall’accademia e lo fecero occupando, nel popolare quartiere romano, locali in cui mancava tutto, anche i vetri alle finestre. Scuola popolare di musica, non scuola di musica popolare, si badi bene, perché non è mai stata la sola qualità della musica che ha reso popolare Testaccio, ma il modo di farla e insegnarla. Il conservatorio è già un’istituzione di alta qualità, ma il suo scopo primo è quello di mantenere la musica in un ambito elitario: come l’università, il conservatorio serve innanzitutto a riprodurre sé stesso. Testaccio, invece, accoglie la musica e la gente che nel conservatorio non trovano spazio. Chi voleva cantare con Giovanna, però, doveva innanzitutto ascoltare. Perché fare musica insieme richiede rispetto degli altri e delle altre. E le esperienze dei cori e della didattica continuano anche dopo di lei.
Di sé Giovanna diceva: «Tutti si affannano a trovare aggettivi e sostantivi che mi si confacciano: che sono una “musicologa”, o una “ricercatrice”, o un’“antropologa”, ma non è vero. I veri ricercatori per tutta la vita hanno cercato, e poi schedato. Io non ho fatto niente di tutto questo. Il mio atteggiamento è sempre stato diverso: quando mi piace un pezzo mi ci butto come un avvoltoio e lo faccio mio. Penso, veramente, di essere una musicista».
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Articolo di Mauro Zennaro

Mauro Zennaro, grafico, è stato insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e qualcos’altro in una blues band.
