Gestazione per altri e aborto. Donne senza scrupoli?

Sono trascorsi più di due mesi da quando il Senato, con 84 voti a favore e 58 contrari, ha approvato in via definitiva il Disegno di legge per rendere la gestazione per altri compiuta all’estero da cittadini/e italiane un reato universale. Un mese e quattro giorni da quando la norma è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale.
Il tempo passato non è bastato a sanare la ferita che lo Stato italiano ci ha inflitto, ma è stato utile per riflettere e per prendere — ancora più — coscienza. D’altronde, non c’è cura che possa riparare la menomazione a cui il corpo femminile è stato nuovamente sottoposto proprio da chi si fa (o dovrebbe farsi) garante dei diritti e delle libertà fondamentali di tutte/i tra cui, oltre ogni ragionevole dubbio, rientra necessariamente la facoltà di avere potere decisionale sul corpo che ci appartiene.

Le nostre istituzioni governative, per mantenere il vanaglorioso appellativo di democrazia (che pur le rappresenta sempre meno), si guardano bene dal dichiarare apertamente la loro tirannia e allora, grandi della loro presunzione, si nascondono dietro la fallace convenzione di saper tutelare, meglio delle dirette interessate, i loro diritti e la loro integrità. Quello che, nemmeno troppo velatamente, viene prescritto è che le donne non hanno capacità di giudizio, che la loro abilità all’autodeterminazione è viziata da interessi ora economici, ora egoistici… Insomma, che il sesso femminile non ha alcuno scrupolo.
La recente disposizione che norma la maternità surrogata e la più remota legge 194 del 1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) sono esempi latenti di questo mancato riconoscimento di acume di cui è protagonista il soggetto femminile.
Erede repubblicana degli articoli 545-555 del Codice penale Rocco del 1930, in cui l’aborto veniva definito delitto contro l’integrità della stirpe, e dunque riconosciuto come reato a tutti gli effetti, la legge 194/1978 ne ha mantenuto, in parte, il carattere di criminalizzazione. La norma, infatti, non è diretta a consentire l’aborto volontario quanto piuttosto a regolamentare i casi per cui la procedura non può essere considerata come un reato punibile. L’articolo 19, e successivi, stabilisce che, laddove l’intervento venga praticato senza che il/la medico/a di fiducia abbia compiuto gli accertamenti sanitari necessari e informato «la donna e il padre del concepito, ove la donna lo consenta», di tutti i diritti sociali o di altro tipo che le spettano qualora decidesse di soprassedere alla decisione dell’Ivg (art.5) e non fosse stato effettuato all’interno delle strutture pubbliche preposte (art.8), il responsabile sarà punito con la reclusione e la donna costretta al pagamento di una multa. In assenza di certificato medico, l’inosservanza dei termini e, in generale, delle condizioni previste dalla legge, determinerà un aumento della pena da uno a quattro anni di reclusione per chi cagioni l’aborto e fino a sei mesi per la donna che si sottoponga all’intervento.
L’accertamento medico necessario per procedere con l’Ivg, di fatto, rende la liceità dell’aborto condizionata da un terzo soggetto e spinge alla medicalizzazione della questione, con una visione incentrata più su una tutela del diritto alla salute della donna che non sul riconoscimento della sua autonomia-libertà; come, tra l’altro, si evince nel riferimento al «serio pericolo per la salute della donna». Al momento del colloquio obbligatorio con il/la medico/a, la donna, data la clausola a procedere solo se il perseguimento della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero una minaccia per la sua salute psicofisica, deve fingere di essere sul punto di ammalarsi psichicamente poiché non le si riconosce il suo diritto all’autodeterminazione ma quello all’autodiagnosi.
Laura Conti, nel libro Il tormento e lo scudo. Un compresso contro le donne (1981), a tal proposito afferma che la legge 194 è un compromesso raggiunto in Parlamento a discapito delle donne perché ha formalizzato in capo a quelle che decidono di abortire di dichiararsi pazze o a rischio di diventarlo. L’accordo tra le parti si fonda così su una reciproca e sistematica sfiducia tra la donna e lo Stato: da una parte, quest’ultimo sancisce che non ci si può fidare dell’autovalutazione compiuta dalle donne; dall’altra, se non si attengono alle condizioni predisposte dal medesimo, le donne rischiano di incorrere in un reato.
Ciò che viene messa in dubbio, e in definitiva disconosciuta, è la capacità di raziocinio e valutazione del soggetto femminile.

Una logica simile si rinviene anche nella legge 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e nella successiva legge 169/2024 (Modifica all’articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano), sua esasperazione. L’articolo 4, comma 1, della prima legge citata dispone che: «Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico». Premesso che possono accedere alla procedura «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», l’articolo 6 stabilisce che il/la medico/a debba informare in maniera dettagliata i soggetti suddetti sui metodi, «sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro». Anche in questo caso, la mancata osservanza delle disposizioni determina sanzioni penali e/o amministrative imponibili a chi esercita una professione sanitaria e ai cosiddetti genitori intenzionali. La punibilità di «chi realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità», pratica attraverso cui una donna (la gestante) si impegna a portare a termine una gravidanza per conto di altri, già prevista dalla legge 40/2004, viene ulteriormente inasprita con legge 169/2024 la quale ne estende l’applicabilità anche qualora i fatti descritti siano commessi al di fuori del territorio nazionale.
In comune con la legge 194/1978 c’è non solo l’imprescindibile accertamento medico e l’azione informativa, ma anche la sottaciuta convinzione che la gestante agisca esclusivamente in virtù di interessi economici, gli stessi che, secondo il Governo, sarebbero, insieme a motivazioni individualistiche e sommarie, la causa alla base della decisione delle donne di interrompere volontariamente una gravidanza. Quando si legifera in materia del corpo femminile, nel pensiero e nell’agire dei/delle nostre parlamentari sembra non esserci spazio per quegli attributi stereotipati che invocano a più riprese come naturalmente femminili: la generosità, la capacità di prendersi cura dell’altro/a, l’amore verso il prossimo e per la prole; amore che spesso si traduce nella decisione di non metterla al mondo.

Se abbiamo fatto finta di non capire ciò che la legge sull’Ivg significasse davvero, per usare il fraintendimento insito in essa a nostro vantaggio, le recenti vicissitudini legislative non ci permettono più di ingannarci. Perché posso accettare, con molta refrattarietà, che mi sia dato della negligente o della superficiale, ma non vi consento di appropriarvi, ancora, di una parte di me. L’utero oggetto delle vostre controversie, il ventre che volete regolamentare, appartiene a noi, le donne italiane e quelle del mondo.
L’invidia del pene, di cui Freud parlava in riferimento al sentimento di menomazione che le bambine proverebbero nella fase edipica della loro crescita, da quando le donne si sono conquistate l’accesso nello spazio pubblico, sembra essere stata soppiantata “dall’invidia dell’utero”: non poter custodire la vita pare generare una frustrazione tale che, se non possono averlo, o se non riescono ad accettare che altre non ne facciano grembo materno, allora, abusando del loro potere, si appropriano del nostro.

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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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