Qualora la salute del cinema si potesse misurare in virtù della libertà di espressione, gli anni Settanta hanno segnato un periodo florido, di straripante benessere. In particolare, il cinema italiano mette in scena il suo spaccato storico ricorrendo a diverse chiavi interpretative, il cui denominatore comune è un registro espressivo salace che, al di là degli schieramenti politici, intende sfondare la cappa di ipocrisia e perbenismo che paludava il panorama civile dell’epoca.
I generi esemplari del decennio sono: l’horror, la commedia sexy, il grottesco, i quali diagnosticano la celere, quanto profonda, metamorfosi che avvolgeva l’Italia. La codificazione estetica attraverso tinte surreali restituisce una fotografia di questo decennio più alleggerita, ma non per questo meno autentica. Se la scorsa settimana mi sono occupata di presentare la New Hollywood, in questo numero vi sottopongo una riflessione sulla commedia sexy.
Nel contesto italico, i film comici sono un genere che riscuote sempre un immancabile successo. Gli anni Settanta segnano il successo dell’epopea di Fantozzi: prima in termini cinematografici e poi quelli letterari che dànno origine al fenomeno. Il geniale autore Paolo Villaggio intercetta lo Zeitgeist e ne offre una cinica satira che spazia tra il patetico e il tragicomico, con un caleidoscopio di personaggi ritratti nel loro habitat impiegatizio. Fantozzi si confronta con un sistema che lo umilia con gerarchie lavorative, vessazioni burocratiche, quotidiani contrattempi: la sua è una lotta continua con l’apparato sociale di cui lui è ingranaggio, così il sopravvivere in un simile scenario richiede una negoziazione continua della propria dignità.
A debuttare è anche la commedia sexy, un sottogenere del comico/commedia. A caratterizzare questo filone sono le situazioni pruriginose e divertenti che colorano la trama. Donne procaci e ometti goffi e libidinosi sono le maschere ricorrenti, il segno di un radicale mutamento del senso del pudore. Italiani e italiane stavano sviluppando una sensibilità morale diversa: i costumi sessuali, il senso di famiglia, la figura della donna erano coinvolti in un’incontenibile revisione determinata da una convergenza di fattori, tra cui: la contestazione generazionale, le rivendicazioni femministe, la rivoluzione sessuale, il nuovo modello consumistico. In questo processo di cambiamento la Tv, con le sue politiche culturali, ha pesantemente influito attraverso due aspetti tra loro legati: la spinta al conformismo e la borghesizzazione della classe operaia.
La commedia sexy è perfettamente conforme alla rivoluzione sessuale, o meglio è la dimostrazione plastica di come il capitalismo metabolizzi certe battaglie civili e le assimili all’interno della sua cornice economica. Infatti, gli audaci siparietti comici sono stati indubbiamente degli espedienti vincenti per intercettare il pubblico maschile e sbancare al botteghino. Ma se il corpo femminile inserito in contesti farseschi è stato il marchio di fabbrica di questi film, è altrettanto vero che il merito del successo è da addebitare anche alla figura maschile che, ridicolizzata fino al parossismo, risulta succube della pulsione erotica esercitata dalla donna. A fare da innesco alla trama è sempre quella coltre di bigottismo che tiene in scacco il protagonista maschile: sempre in bilico tra la sua natura fedifraga e l’apparire marito modello.
In termini fenomenici, se la donna è esibita come fosse un oggetto, l’oggetto del desiderio appunto, l’uomo è soggetto solo per metà: infatti non è altro che un prodotto modellato dalla società, ovvero un esecutore delle condotte morali condivise; egli si emancipa soltanto quando si determina secondo i suoi desideri pulsionali. Orbene, si tratta comunque di un’emancipazione fittizia, nella misura in cui è sua intenzione mantenere il più stretto riserbo sul tradimento. In questi termini il moralismo — benché appaia come l’argine che limita condotte sconvenienti — non è altro che un sipario che dà alla trasgressione il piacere sublime della libertà nel segreto.

Il sarcasmo con cui sono maneggiati gli stereotipi, la goliardia nel presentare la sessualità potrebbero apparire oggi piuttosto impopolari, giacché la comunicazione e il codice linguistico sono lontani e imparagonabili. Un’estrema sensibilizzazione verbale ha condotto al regime del politically correct attraverso un’incessante sterilizzazione linguistica e comunicativa, logorando la libertà espressiva vitale per la comicità. La comicità si dà per eccesso, per caricature, per macchiette, per contrasti ridicoli, per situazioni equivoche che mettono in discussione i rigidi schemi convenzionali: così l’accattone poco scolarizzato scambiato per ricco e la bellona che si innamora del bruttone compongono il mosaico del ridicolo.
Il compito della comicità è farsi interprete delle contraddizioni che si annidano nella società, per far ciò è necessario scansionare palmo a palmo tutti quei luoghi comuni che finiscono per cristallizzarsi in norme e condotte condivise, smascherandone l’irrazionalità. Il grado di suscettibilità è ormai diventato una cortina impenetrabile al punto che un esercizio di questo tipo è impensabile: il politically correct ha reso gli spazi di manovra davvero risicati.

La levata di scudi contro gli stereotipi sancisce la condanna a morte della comicità, poiché la comicità non può rinunciare agli stereotipi per rappresentare la realtà: i personaggi — come osserva Henri Bergson in Il riso. Saggio sul significato del comico — sono tali perché rappresentano dei tipi, degli stereotipi, dei caratteri che, sprovvisti della dimensione interiore, agiscono in funzione di quegli automatismi dettati da manie, vizi, ossessioni, idee. Il personaggio comico, estrapolando e amplificando determinati tratti distintivi umani, non è più individuo, ma è cosa: non condivide alcun piano intimo col pubblico perché ne è mancante, egli si proietta nella scena esibendo aspetti sclerotizzati del suo carattere e della realtà, facendo emergere un’esilarante inadeguatezza.
Lino Banfi, Pippo Franco, Alvaro Vitali con le partner Laura Antonelli, Barbara Bouchet, Edwige Fenech, determinano una reciproca esaltazione della connotazione estetica che sancisce un vantaggio tutto al femminile; così come la volgarità dei personaggi interpretati da Lando Buzzanca e Aldo Maccione fa da contraltare alla delicatezza dei personaggi femminili. Ora, si potrebbe obiettare che attrici come Gloria Guida o Lory del Santo siano state scelte unicamente in virtù della loro avvenenza, ma allora lo stesso ragionamento si potrebbe applicare anche a Vitali, Franco e Banfi in ragione del loro aspetto comicamente spendibile.

È bene rilevare che il cinema vive di rappresentazione, di estetica, di cosmesi e nel caso della commedia sexy il connubio tra il ridicolo maschile e l’erotico femminile è essenziale. Questa relazione stabilisce la misura del suo successo non solo grazie all’apparire degli attori o delle attrici, ma soprattutto grazie alla quidditas di cui essi sono dotati. Non è sufficiente una quarta di seno per essere sexy, così come non basta fare smorfie per suscitare una risata: è necessario un talento che, benché nascosto, non passa inosservato: è l’incontro di queste abilità a sancire l’iconicità di questi film.

Dunque la commedia, e specialmente l’arte comica è una macchina reificatrice, per questa ragione non si ride di, bensì si ride su, infatti a stimolare l’ilarità è proprio il distacco che il pubblico sente tra sé e il personaggio-cosa: è tale distanza che consente di ridere. Qualora non ci fosse questo stacco, saremmo indotti a provare empatia e compassione per le sventure del protagonista, perché in una certa misura ci riconosceremmo in lui. Questo iato ha anche un ruolo epistemico: perché è mediante tale allontanamento dai fatti che si ha un quadro colorito, ma veritiero della realtà in cui si vive; sicché la commedia sexy italiana mostra una società bigotta e sessuofoba, che nel tentativo di nascondere i desideri sessuali finisce travolta dalla rivoluzione sessuale.
Inoltre i film comici, un po’ come i pettegolezzi, assolvono a un compito morale, infatti, occupandosi di certi vizi, li biasimano senza enfasi scandalistiche. Pur con questi pregi, il genere è stato oggetto di costante svalutazione da parte della critica, probabilmente a causa di un pregiudizio che considera il riso come una forma improduttiva. Le commedie sexy degli anni Settanta hanno subìto una fortunata riqualificazione solo a partire dal Duemila, assurgendo a cult movie: considerate da allora come fulgide espressioni di un’epoca, meritorie di aver esplorato nuovi codici estetici e morali.
Saper far ridere non solo è un’arte, ma determina un potere: il riso mette in discussione verità condivise, istituzioni sociali. Non è un caso, dunque, che il potere politico e temporale lo abbiano considerato con sospetto, talvolta limitandolo con strategiche censure. Il romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, attraverso l’espediente narrativo dello pseudobiblion aristotelico, tematizza proprio il pericoloso valore del riso che lo rende inviso alla realtà monastica. La risata è temuta perché può istantaneamente demolire, col fragore del suo scoppio, lo statuto del potere, facendosene beffe. Essa offre il re nudo al pubblico ludibrio, determinandosi come espressione sublime della dimensione democratica.
Chiediamoci di chi non è permesso ridere, lì è il potere.
In copertina: Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Laura Antonelli.
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Articolo di Sathya Cucco

Studiosa di filosofia e comunicazione, uso la conoscenza come compagna di vita.

Nuovo articolo di cinema interessantissimo. Brava.
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