Storie di cui abbiamo bisogno

Il 24 maggio del 2023 debuttava nelle sale cinematografiche italiane The little mermaid, rifacimento live action del film di animazione Disney La Sirenetta. La storia è sempre la stessa: durante una notte di tempesta, la nave del bel principe e comandante Eric viene travolta dalle onde. Ariel, la giovane principessa sirena affascinata dal mondo umano, lo salverà e si innamorerà perdutamente di lui. Gli eventi che seguiranno e il suo grande desiderio di trasformarsi in una donna con due gambe nuove di zecca la condurranno nelle grinfie di Ursula, la strega del mare bandita da Atlantica molti anni prima. Quest’ultima, con un incantesimo, trasformerà la ragazza in umana ma solo per tre giorni: se allo scoccare della settantaduesima ora Ariel non avrà ricevuto il bacio del vero amore ritornerà a essere una sirena e perderà per sempre la sua voce, il pegno che la strega conserva gelosamente in una conchiglia di nautilus attorno al collo. Dopo una serie di vicissitudini e di circostanze per cui il sogno d’amore sembra essere destinato a non realizzarsi mai, alla fine, come nelle migliori storie, i due amanti riescono finalmente a sconfiggere il male e a vivere per sempre felici e contenti.
Rispetto alle produzioni precedenti e alla fiaba di Hans Christian Andersen, il film non presenta grandi stravolgimenti o sviluppi inattesi. A fare la differenza, in questo caso, è l’attrice a cui viene affidato il ruolo della protagonista. Nella pellicola, infatti, Ariel è interpretata da Halle Lynn Bailey, attrice e cantautrice statunitense nera.

L’immagine a cui eravamo abituati/e, quella con i capelli rossi, la pelle bianca e gli occhi chiari, viene sostituita da una raffigurazione più inclusiva che mette in scena una sirena con la carnagione scura, lunghe treccine corvine e profondi occhi neri. Quando uscirono le prime locandine del film e il trailer cominciò a essere diffuso sulle piattaforme web e proiettato sugli schermi televisivi, la reazione del pubblico non tardò ad arrivare; le persone si divisero essenzialmente in due fazioni opposte: da una parte i detrattori e le detrattrici che guardavano con sospetto alla variazione introdotta perché, a loro dire, espressione di un’infrazione rispetto alla fiaba canonica che ne mutava i caratteri originali; dall’altra, gli estimatori e le estimatrici che ne riconoscevano il potenziale inclusivo e l’impatto psicologico positivo di rispecchiamento e rappresentazione che avrebbe avuto sulle bambine nere.

Contro i primi pareri, alcuni dei quali si unirono in rete sotto l’hashtag #NotMyAriel, si erge la mole di commenti razzisti con cui hanno espresso spesso il loro dissenso. A tal proposito, la scrittrice e attivista italo-ghanese Djarah Kan scriveva sul suo profilo Instagram: «I sommelier dell’accuratezza dei live action Disney e i Fasci in difesa della memoria dell’infanzia degli anni Novanta non riescono proprio a mandare giù l’idea che la loro tanto amata sirenetta bianca […] sarà interpretata da un’attrice nera. […] Nel tentativo di nascondere il loro sincero e genuino fastidio razzista, si arrampichino sugli specchi improvvisandosi esperti del folklore danese, o mitologia greca».
A sostegno dei secondi, invece, ci sono i tanti video TikTok che mostrano la reazione euforica di bambini e bambine nere: «È nera?! Mamma, è nera! Hanno fatto una Ariel nera!», esclamano stupite e contente alcune di loro.

Di fronte alla gioia infantile, qualsiasi commento o discussione critica sarebbe fuori luogo. Se gli occhi di una giovane donna si illuminano davanti a uno schermo perché per la prima volta Ariel è come lei, il buon senso dovrebbe indurci al silenzio, a mettere da parte tutte le nostre obiezioni. Se una leggera modifica al racconto rende felici e fa sentire le persone di essere valorizzate, allora che siano accolte le variazioni e, se necessario, gli stravolgimenti.
Riprendendo le parole dell’autrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie di cui ho scritto precedentemente (link: Terapia d’urto contro il pericolo di un’unica storia) mi permetto però di condividere una mia perplessità. Vissuta in un campus universitario nell’est della Nigeria, la scrittrice aveva sempre letto libri per bambini/e britanniche e americane. Quando inizia a scrivere, tutti i suoi personaggi erano bianchi, con gli occhi azzurri. «Giocavano nella neve. Mangiavano mele. E parlavano molto del tempo, di quanto era bello che fosse uscito il sole. […] In Nigeria non c’era la neve. Mangiavamo manghi. E non parlavamo mai del tempo, perché non c’era bisogno. […] Siccome tutto ciò che avevo letto erano libri i cui personaggi erano stranieri, mi ero convinta che i libri, per loro natura, dovevano avere personaggi stranieri, e dovevano parlare di cose con le quali io non potevo identificarmi. Ora, tutto questo è cambiato quando ho scoperto i libri africani. […] Ho capito che pure persone come me, ragazze con la pelle color cioccolato, i cui capelli ribelli non potevano formare code di cavallo, potevano esistere anche nella letteratura». A insegnarglielo erano stati scrittori come Chinua Achebe e Camara Laye, nei cui romanzi rivivono le antiche tradizioni popolari e folcloristiche del Paese natale.
Ecco, di storie nate per bambini e bambine nere, pensate ab origine per loro, con personaggi con le loro fattezze in cui possano rispecchiarsi, ce ne sono a migliaia, molte dall’inestimabile valore educativo. E allora mi chiedo se non sarebbe meglio recuperare queste storie, diffonderle, rappresentarle piuttosto che “prestare” (verbo che mi fa pensare più a una concessione) quelle che a loro non si sono mai rivolte, che non le/li hanno mai presi in considerazione, costringendole/i a credere che è necessario entrare in quei racconti per avere visibilità e valore.

Mi domando, insomma, se una bambina nera sentirebbe ancora il desiderio di una Ariel del suo stesso colore se sullo schermo non ci fosse già una Mami Wata potente e radicata nella cultura di massa. Kirikù e la strega Karabà, un cartone con cui sono cresciuta e che ho amato, è l’esempio di una storia autenticamente africana, le cui radici affondano nelle tradizioni popolari della Guinea.

La trama, ispirata a un racconto folcloristico dell’Africa Occidentale (che fa da scenografia), narra di Kirikù, il prodigioso bambino che si taglia da solo il cordone ombelicale, e Karabà, la strega che avrebbe prosciugato l’acqua della fonte del villaggio e che avrebbe divorato tutti i giovani uomini che avevano tentato di affrontarla, incluso il padre del piccolo.
Intelligente e tenace, Kirikù riesce a sventare i piani della strega: libera i bambini rapiti dai suoi feticci e restituisce l’acqua alla tribù, uccidendo il gigantesco animale che se ne abbeverava. Diventato il principale bersaglio della donna, il bambino si reca dal Saggio della Montagna, nonché suo nonno, per conoscere la verità su di lei.

Scoprirà che l’odio provato dalla strega nei confronti dell’umanità è dovuto a una spina avvelenata che alcuni uomini le hanno conficcato nella schiena ma dalla quale non vuole liberarsi per paura di perdere i suoi poteri e riprovare quel dolore lancinante. Il Saggio rivela, inoltre, che, pur non essendo lei ad aver bloccato la fonte e nonostante non abbia mai sbranato nessuno degli uomini del villaggio, Karabà ha sfruttato la superstizione e l’ignoranza del popolo per continuare a essere temuta e mantenere il suo potere. Con uno stratagemma Kirikù riuscirà a toglierle la spina con i denti e, dopo aver finalmente visto l’animo buono e gentile della donna, le chiederà di sposarlo. Spaventata dalla distanza anagrafica e dal matrimonio, la strega non accetterà la proposta ma acconsentirà a dargli un bacio: l’istante immediatamente dopo che le loro labbra si sono toccate, il bambino diventa un adulto.

Tornati al villaggio, i due riusciranno a sottrarsi al rancore che la gente prova nei confronti della donna solo grazie all’intervento della mamma di Kirikù e del Saggio della Montagna. Alla fine, la pace e il perdono vinceranno sull’odio e la discordia.

Quella di Kirikù e la strega Karabà è una delle tante storie a cui dovrebbe essere data visibilità e risonanza; una di quelle storie di cui hanno bisogno le persone, indipendentemente dal colore della loro pelle.

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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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