Molte sono le parole che rievocano le piccole o grandi violenze a cui sei stata sottoposta, fin da quando la memoria è capace di illuminare i ricordi. Riemergono allora emozioni e sensazioni come fossero state provate in un passato recente e non mezzo secolo fa, accompagnando la tua vita e quella di un’intera generazione. Eppure, proprio nel tentativo di comprendere o di contestualizzare, si riaccendono come braci che non smettono di ardere anche sotto la cenere del tempo.
Erano passati ormai otto anni dalla Riforma della Scuola media unica istituita nel 1962. Una scuola che nelle intenzioni del legislatore intendeva dare le medesime opportunità a tutti e tutte indipendentemente dalla provenienza sociale, appartenenza politica, religiosa e di genere, in linea con quanto sancisce la nostra Carta costituzionale.
Con un certo timore ma con molte aspettative varcavo la soglia della scuola media, dopo il conseguimento della licenza elementare ancora improntata sulla figura della maestra unica. Le ore di scuola sarebbero state suddivise per discipline e ognuna di esse faceva riferimento a un professore o una professoressa. Avevo dodici anni appena compiuti e il passaggio alla nuova scuola rappresentava per me il trampolino che in breve tempo mi avrebbe catapultato in una fase della vita ricca di attese e speranze per il futuro in cui avrei assistito alla trasformazione del mio corpo e dell’intero mondo circostante. La scuola era per me il mio universo di riferimento, il luogo in cui avrei acquisito nuove conoscenze e incontrato altri modelli educativi oltre a quelli appresi in famiglia. Fino ad allora ero stata un’ottima scolara. Mi adattavo con fiducia a quanto mi veniva richiesto dai/dalle insegnanti e così sarebbe stato nella nuova scuola.
La classe in cui capitai era composta da un egual numero di femmine e di maschi e questo rendeva la frequentazione molto divertente ed eccitante.
I maschi erano spesso rumorosi e poco concentranti durante le ore di lezione e gli/le insegnanti li riprendevano spesso comparando il comportamento più disciplinato e quieto di noi ragazze con elogi e voti alti in condotta.
Ogni settimana, avevamo un’ora di applicazioni tecniche che consisteva in attività manuali di vario genere diversificate a seconda delle competenze o abilità del corpo docente. Era un’ora attesa da tutte e tutti perché finalmente ci potevamo alzare dai banchi per raggiungere un’aula attrezzata con i vari strumenti e materiali necessari per svolgere la lezione sulle molteplici tecniche applicabili alle diverse attività. Con una certa sorpresa mista a delusione mi resi conto che di fatto si trattava di due attività ben distinte: il laboratorio di falegnameria per i maschi e quello di cucina per noi ragazze. Mentre i ragazzi muniti di martelli, cacciaviti e chiodi potevano costruire o riparare oggetti di vario genere nella stanza di falegnameria, noi ragazze li aspettavamo in classe per accoglierli con i nostri manicaretti preparati in loro assenza sui banchi della nostra classe: tartine sfiziose, invitanti tiramisù e pile di bignè al cioccolato. La nostra professoressa di applicazioni tecniche ci invitava premurosamente a indossare un grembiule con pettorina per non rischiare di sporcarci per la lezione che ci attendeva dopo. Questo si ripeteva ogni settimana, manicaretto dopo manicaretto, invitandoci a esprimere la nostra creatività femminile nell’inventare nuove ricette con il conseguente giudizio finale sulla pagella.
Una volta, ricordo, tentai di dire alla professoressa che mi sarebbe piaciuto svolgere l’attività di falegnameria con i ragazzi, almeno per qualche settimana, per realizzare un giocattolo di legno da regalare a Natale.
Non ricordo cosa esattamente mi venne risposto, ma la mia richiesta cadde nel vuoto delle pastoie burocratiche e organizzative della nuova scuola media, sottacendo con ipocrisia i veri motivi sottostanti.
Ci sono ricordi lontani che rimangono negli angoli nascosti della memoria, non se ne vanno perché sono domande a cui non c’è stata risposta, desideri inascoltati, rabbia repressa, lacrime non scese e parole taciute.
Forse allora non fui consapevole che quello che sentivo era giusto che lo sentissi, perché nessuno mi avrebbe mai autorizzato a sentirlo.
Mi chiedo oggi se da quella delusione percepita come profonda ingiustizia che non passa a dispetto degli anni trascorsi, sia scaturito il mio interesse a occuparmi di educazione per provare a dare parola alle meravigliose persone che sono le bambine e i bambini che avrei avuto il privilegio di incontrare durante il corso della vita.
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Articolo di Cristina Masti

Psicopedagogista, ho partecipato a progetti sul rispetto delle differenze, realizzando pubblicazioni su attività con le bambine, i bambini e i loro genitori. Negli ultimi anni della mia carriera lavorativa, ho tenuto percorsi di consapevolezza rivolti ai genitori sugli stereotipi di genere presenti negli albi illustrati. Attualmente sono consulente Aiccef e mi occupo prevalentemente di sostegno alla genitorialità.
