Nella seconda parte del numero 11/24 di Limes, Che aria tira, lo sguardo si sposta al mondo e al cambiamento climatico come fenomeno planetario. Tra i numerosi interventi si segnala, oltre alla bella conversazione con la senatrice a vita Elena Cattaneo Dove c’è scienza c’è democrazia, quello di Maria Giulia De Donno dal titolo Dal pozzo alla miniera, Geografia delle nuove dipendenze, che ci ricorda che «Una delle sfide più importanti del XXI secolo, con rilevanti implicazioni geopolitiche, è il passaggio da un sistema energetico basato sui combustibili fossili a uno fondato su energie rinnovabili e trasmissione elettrica. Questo cambiamento va oltre le tematiche di decarbonizzazione del sistema energetico e industriale: implica infatti una trasformazione radicale delle dinamiche di potere, con un trasferimento dell’influenza dai tradizionali petro-Stati agli emergenti elettro-Stati, tra cui emerge la Cina, nuova protagonista globale del clean-tech e del controllo di produzione e raffinazione dei cosiddetti minerali critici».

Altrettanto illuminante l’approfondimento di Alessandro Aresu, Geoecologia dei Data center, che sottolinea l’impatto idrico ed energetico delle tecnologie collegate a questi nuovi insediamenti, su cui in parte si gioca la sfida tra Usa e Cina. Google è tra i primi costruttori di Data center. Nonostante le sue campagne per dimostrare l’impronta green di tali attività, che ritraggono un branco di cervi attorno al luogo in cui il Data center è localizzato, si sa per certo che «i server di intelligenza artificiale consumano quantità crescenti di elettricità e si prevede che l’industria possa aumentare di dieci volte il proprio consumo energetico tra il 2023 e il 2026». Così continua il collaboratore di Limes: «In questa fase tecnologica il Data center svolge il ruolo che in passato è stato del personal computer e dello smartphone. Chi domina il Data center estrae la maggior parte del valore. Per comprenderne il fattore politico, tenendo sempre presente l’impronta energetica, dobbiamo vedere dove sono i data center, come sono fatti, chi li finanzia e chi li realizza». Segue una interessante descrizione della geografia dei data center. Ma quanto i data center installati in America sono veramente made in Usa e quanto invece c’è di non americano, magari di cinese? Chi fosse curioso di saperlo potrà leggerlo in questo documentatissimo saggio.
Il contributo dell’Occidente al riscaldamento globale è indubbio e ne scrive in chiave geopolitica Giuseppe De Ruvo nel suo articolo L’inverno sta arrivando, dove si sottolineano il neocolonialismo ambientale della Cina e l’indisponibilità dell’Africa a tollerare le ipocrisie occidentali in materia di contrasto al cambiamento climatico. Per comprendere l’atteggiamento dell’Ue nei confronti della sostenibilità sarà utile la lettura di 50 sfumature di verde, che richiama i più importanti strumenti normativi europei in materia di sviluppo sostenibile, alcuni dei quali si sono rivelati un boomerang.
L’attacco a Greta Thunberg è sferrato in due approfondimenti di questo numero, Greta, Trump e la complessità negata di Massimo Nicolazzi e Che fine ha fatto Greta Thunberg? di Guglielmo Gallone, in cui si sottolinea la perdita di consenso dell’attivista ambientalista dopo le sue prese di posizione sul conflitto israelo-palestinese. Quasi scontate e molto disincantate le analisi dei due autori che, essendo commentatori geopolitici, non tengono in grande considerazione quella che definiscono semplicisticamente “retorica globalista”.

La terza parte del volume di dicembre è dedicata a come affrontano il contrasto al cambiamento climatico Germania, Russia, Cina e Brasile, con un interessante approfondimento sul Senegal, in cui si ricorda che in questo Paese, come in molta parte dell’Africa sub-sahariana, il cambiamento climatico e la siccità stanno esercitando «una pressione insostenibile sulle comunità locali, spingendo milioni di persone a migrare in cerca di condizioni di vita più favorevoli».
L’editoriale di Lucio Caracciolo Clima e tribù, come sempre stimolante, ha una posizione molto precisa sul cambiamento climatico, «questione troppo seria per lasciarla ai climatologi». Con questo problema globale dovremo fare i conti, sviluppando strategie di mitigazione e contrasto. Scrive il direttore di Limes: «La battaglia per la decarbonizzazione è persa. Per vincerla occorrerebbero forse secoli. Non possiamo aspettare. Urge limitare le conseguenze della sconfitta». Tuttavia l’approccio globale delle Cop (Conferences of parties) dell’Onu ha mostrato i suoi limiti, anche nella recente edizione di Baku.

Si può fare di meglio? Serve un cambio di paradigma che colga la radice geopolitica della questione e non ce lo si può aspettare da scienziati e scienziate. E tanto meno dalla «comunità internazionale». «Non esiste una “comunità internazionale” — sostiene Caracciolo — ma una varietà di soggetti nazionali, subnazionali o privati con le rispettive agende, frutto di culture, interessi e stili di vita diversi, spesso inconciliabili». Possiamo riuscire a contenere il problema del riscaldamento globale «a patto di riportare la questione dai cieli dell’astrattezza alle terre di noi umani. Persone e collettività specifiche, non globali […]. Ecoadattarci significa curare i nostri spazi, quelli in cui conviviamo, per limitarne i dissesti e curare le sofferenze che derivano dal riscaldamento locale».

A sostegno delle sue argomentazioni Caracciolo richiama tre libri e tre pensatori, il filosofo americano ambientalista non antropocentrico Dale Jamieson con Dark Time, sottotitolo originale Perché è fallita la lotta contro il cambiamento climatico del 2014; Jonathan Franzen, celebre scrittore, con What if We Stopped Pretending? (E se smettessimo di fingere? N.d.R) del 2019 e lo storico israeliano On Barakcon Heat. A History, appena pubblicato.
Moltissimi sono gli spunti e le digressioni contenuti nell’editoriale (dalla descrizione dei punti di vista di alcuni climatologi, ai riferimenti alla matrice ebraico-cristiana che ha spinto l’uomo a soggiogare la Natura, all’eresia della fraternità con tutti gli esseri viventi di Francesco d’Assisi) di cui mi piace però riportare un passaggio, che è una critica realistica ai movimenti ambientalisti: «L’ecologismo ideologico non mobilita perché non funziona. Trascura i limiti della solidarietà umana (bene illustrati dall’autore nel capoverso precedente dell’editoriale) e tratta un dramma concreto, percepito diversamente a seconda di latitudini, longitudini, culture e organizzazioni sociali. Il «riscaldamento globale» può addirittura percepirsi risorsa. Per esempio nei climi nordici, soprattutto artici. È il caso del più settentrionale impero d’ogni tempo, perciò quasi disabitato: la Russia. In progressione oceanica verso il Polo Nord grazie alla fusione dei ghiacci che potrebbero aprirle verso metà secolo il controllo della massima rotta marittima mondiale. Potenza agricola che conta di incentivare la produzione di grano grazie all’innalzamento delle temperature in Siberia. Non la prospettiva degli abitanti delle Maldive che temono di venire sommersi dall’innalzamento del livello degli oceani. Tutti umani diversamente umani.
È con queste realtà materiali e spirituali che dobbiamo fare i conti. L’umanità è ideale che in concreto si rivela arcipelago di collettività in competizione. Le taglie uniche non sono per questo mondo. Abitato non da homo sapiens sapiens ma da homines sapientes sapientes irriducibili a unità. Pur con vocazione al privilegio di genere, come teorizzato nel 1969 dall’antropologo americano Lionel Tiger nel suo Men in Groups, centrato sull’«inquietante riscoperta dell’ovvio»: la solidarietà tra maschi, ergo male bonding, solo di recente contrastata dal femminismo».

Avremmo molto da commentare a questo proposito e avremmo molti testi di autrici da citare, forse anche a sostegno delle posizioni recentemente prese da Greta Thunberg in nome del concetto di l’intersezionalità. Per il momento accontentiamoci di questo “bagno di realtà” sulla solidarietà che ci offre la rivista di geopolitica sul cambiamento climatico e della citazione della parola “femminismo” che questa volta vi compare.
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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.
