Negli anni Sessanta non c’erano le serre e i tunnel, le coltivazioni venivano fatte a cielo aperto. Pomodori fagiolini melanzane si seminavano senza protezione, prendevano il sole, il vento e la pioggia e i pochi medicamenti che i contadini conoscevano. Salvatore coltivava pomodori da insalata, zappava, seminava, strappava l’erba cattiva, controllava la crescita delle piante. Sapeva che da quel campo dipendeva il benessere della sua famiglia per un anno. Poi quando finalmente a primavera inoltrata i pomodori crescevano e maturavano al sole la fatica della raccolta era piacevole. La moglie e le bambine lo aiutavano, le casse si riempivano e Salvatore sorrideva. All’imbrunire arrivava il camion e le cassette venivano caricate e sistemate in bell’ordine. La notte il viaggio per il mercato di Palermo.
Una di quelle notti si verificò un grave incidente: la cabina del camion si spaccò in due e Salvatore si ferì gravemente. Melina quella mattina fu svegliata all’alba da un cugino e ascoltò la terribile notizia, l’autista era morto e Salvatore era in coma e ricoverato al civico di Palermo.
Melina si svegliò del tutto e assorbì tutte quelle cattive notizie, il cuore si fece piccolo piccolo ma il suo cervello si mise in moto. Doveva andare da suo marito che aveva sicuramente bisogno di lei. Le sue due figlie dormivano serene, lei uscì di casa e andò a bussare a casa del fratello, lo informò dell’accaduto e gli chiese se poteva portarla a Palermo. Il tempo di organizzarsi e partirono. Né lei né il fratello erano mai stati nel capoluogo siciliano, anzi non si erano mai allontanati da Licata, il paese natio.
L’ospedale era enorme, tanti piani, tante scale, tante richieste di informazioni per poi sentirsi dire davanti alla porta del reparto di rianimazione che la situazione era grave, che la prognosi era riservata. Loro insistettero, non sarebbero andati via senza prima avere visto il malato, e finalmente un medico si impietosì e li portò dietro un vetro da cui si vedeva il lettino. Salvatore dormiva di un sonno profondo, era intubato, attaccato al respiratore e a tanti fili. Melina pianse disperata poi suo fratello la trascinò via, sarebbero tornati.
Melina imparò a prendere il treno delle sei che arrivava a Palermo alle dieci e mezzo, imparò a prendere l’autobus che dalla stazione la portava al Civico, imparò quali scale salire, dove potere andare in bagno, dove comprare un panino e ogni giorno per due mesi andò a trovare il marito. Tornava a casa la sera alle venti, in tempo per cenare con le bambine che si erano trasferite dalla nonna. Andava a dormire esausta e alle sei era di nuovo alla stazione. Piano piano Salvatore migliorò, riprese conoscenza, e dalla Rianimazione fu trasferito in Chirurgia; gli medicavano ogni giorno la brutta ferita che aveva in faccia dall’occhio sinistro fino al mento.
Adesso Melina era più tranquilla per la salute del marito e si concedeva di andare all’ospedale a piedi. Attraversava il piazzale davanti alla stazione, percorreva corso Tukory e in meno di mezz’ora era al Civico. La mattina c’era tanta gente in giro, per lo più giovani studenti; tutti camminavano in fretta, lei respirava e sentiva l’energia che le riempiva il corpo. Pensava alle sue figlie e si chiedeva se da grandi avessero voluto studiare magari proprio a Palermo dove c’era una grande Università.
Chissà, magari una delle figlie avrebbe potuto studiare medicina. In ospedale vedeva spesso giovani studenti andare dietro ai medici anziani, erano attenti e gentili con i malati e Melina fantasticava, vedeva già nella sua mente una delle figlie con il camice… Il pensiero la faceva sorridere e nel contempo insinuava in lei tante preoccupazioni. Avrebbero avuto i soldi per farle studiare? L’incidente accorso a suo marito, il suo lungo ricovero le avevano insegnato che se il capofamiglia non poteva lavorare la povertà era alle porte. Quell’anno il raccolto era andato a male, avevano dovuto usare i risparmi per mangiare e affrontare tutte le spese e suo marito non era ancora perfettamente in forma. Capì che anche lei doveva darsi da fare, doveva e voleva aiutare la sua famiglia. Lentamente dentro di lei si formò la decisione di aprire una bottega, suo padre vendeva frutta e verdure, lei avrebbe aperto una Alimentare; ne avrebbe parlato col marito. Si sentiva più leggera ora che aveva preso quella decisione. Si godette la passeggiata ma mai ebbe il coraggio di fare capolino in via Maqueda o in corso Roma. Le sembrava di non potersi allontanare dal tragitto che la portava dal marito.
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Articolo di Vincenza Russotto

Medica ginecologa in pensione. Ha conosciuto e apprezzato tante donne, e di loro ama scrivere.
