«La libertà è sempre la libertà di dissentire».
(Rosa Luxemburg)
Contro le discriminazioni e le disuguaglianze sociali che le opprimono e le circondano, le dieci figure storico-politiche protagoniste del Memory Street International fanno della libertà del dissenso il baluardo della loro esistenza. Indomite e coraggiose, queste donne hanno sfidato il potere, combattendolo con l’intelligenza e con l’ardore dell’onestà. E quando le tue armi sono intelletto e integrità morale e il tuo nemico le brutalità e le ingiustizie della vita, anche la morte a cui la rivoluzione ti condanna diventa meno spaventosa e non basta più nemmeno per convincerti a tacere.

Seconda moglie di Odenato, signore della città di Palmira e generale romano, Zenobia è stata la prima e unica Regina del Regno di Palmira (dal 267 al 272). Dopo aver fatto assassinare il coniuge e il figliastro, erede diretto al trono, la donna detenne il potere in nome del figlio Vaballato che, all’epoca, aveva solo un anno. Il titolo di “Regina guerriera” con cui viene ricordata si deve alla politica espansionistica da lei perseguita: durante il suo impero Zenobia conquistò la Siria, l’Egitto e parte dell’Asia Minore. Intenzionata a costruire un regno autonomo e indipendente dall’Impero romano, nel 270 la monarca si impossessò delle sue principali rotte commerciali, raggiungendo così l’apice del suo dominio. In quell’anno Zenobia assunse il nome di Augusta e si proclamò Imperatrice dei Romani. Aureliano, che nel frattempo era diventato Imperatore, se in un primo momento riconobbe l’indipendenza del Regno di Palmira, successivamente, quando la Regina iniziò a battere moneta con la propria effigie e con quella del figlio, avviò la sua campagna di riconquista delle terre sottratte. Le battaglie campali di Immae e di Emesa furono decisive: costretta alla fuga, Zenobia si ritirò a Palmira dove venne arrestata. Fu poi condotta a Roma dove venne fatta sfilare come bottino di guerra durante i festeggiamenti per il trionfo di Aureliano (274). La storia dei suoi ultimi giorni è incerta: secondo alcuni/e storiche, Zenobia si lasciò morire di fame per protesta, per altri/e venne fatta decapitare dall’Imperatore romano; c’è poi chi sostiene che abbia ricevuto il perdono imperiale e trascorso gli ultimi anni della sua vita nella villa di Tivoli che le fu donata.

Rivoluzionaria attiva durante i giorni della presa della Bastiglia, a seguito della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), nel 1791 Olympe de Gouges pubblica la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, riscrivendo i diciassette articoli della dichiarazione dell’Assemblea Nazionale. Denunciando l’uso falsamente universale dei termini “uomo” e “cittadino”, in realtà espressione di un soggetto propriamente ed esclusivamente maschile, l’attivista modifica la lettera del testo per inserirvi all’interno le donne, escluse pur essendo implicitamente comprese. Favorevole allo scioglimento del matrimonio e al il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, la drammaturga e scrittrice si distinse anche per la sua battaglia contro la schiavitù e la disoccupazione. Accusata di alto tradimento, Olympe sarà condotta al patibolo e ghigliottinata. Seduta sul carro che la sta conducendo alla morte, dedica le sue ultime parole al sostegno della causa per cui aveva lottato tutta la vita: «Le donne avranno pur diritto di salire alla tribuna, se hanno quello di salire al patibolo».

Cristina di Belgiojoso (Milano, 28 giugno 1808-Milano, 5 luglio 1871) è stata una patriota, giornalista e scrittrice italiana. Sedotta dalle idee libertarie che la sua maestra di disegno condivide con lei, diventa ben presto una militante nei movimenti di liberazione risorgimentale. Ancora giovanissima riesce a sottrarsi a un matrimonio combinato e, nel 1824, convola a nozze con il principe Emilio Barbiano di Belgioioso. I continui tradimenti e la richiesta del coniuge di accogliere nella loro casa la sua amante la inducono a separarsi definitivamente da lui dopo appena quattro anni di matrimonio. Una decisione all’epoca così ardita e gli incontri sempre più frequenti con personaggi di spicco del movimento di liberazione, le valsero l’attenzione della polizia austriaca. Per trovare ristoro dai continui pettegolezzi, dalla condizione di stretta sorveglianza in cui viveva e dagli attacchi di epilessia di cui aveva cominciato a soffrire, Cristina si trasferì a Genova. Gli anni trascorsi nella città ligure, seppur felici, sono segnati dalla malattia e dai primi sospetti circa il suo coinvolgimento nei moti rivoluzionari. Tuttavia, la donna aderisce alla carboneria solo più tardi quando, durante la permanenza romana, entra in contatto con Ortensia di Beauharnais, la madre di Luigi Napoleone: il salotto della donna costituisce il quartier generale dell’attività carbonara locale. Per via dei costanti spostamenti, prima in Svizzera, poi in Provenza e a Parigi, Cristina sarà sempre più al centro dell’attenzione della polizia austriaca che, per limitarne l’autonomia, le sequestrerà i beni, vincolandoli al suo ritorno in patria. Ma la rivoluzionaria non si farà intimidire e, anzi, si dedicherà con ancor più entusiasmo alla causa italiana. Per fronteggiare la miseria a cui l’esilio la costringe, Cristina inizia a lavorare come insegnante di disegno e pittura e a collaborare con il giornale le Constitutionnel. Nel 1840, dopo essere riuscita a riappropriarsi dei suoi beni, torna in Lombardia con la figlia Maria. Negli anni in cui visse nella residenza di famiglia a Locate, Cristina si impegnò per migliorare le condizioni di vita delle persone meno abbienti: fondò una scuola elementare per ragazzi e ragazze, una scuola professionale femminile e una scuola di tecnica agraria maschile, dei laboratori artigianali per pittori, rilegatori e restauratori. Nel 1848 partecipa alle Cinque Giornate di Milano, arrivando da Napoli a Milano con un battaglione di circa 200 volontari. L’anno successivo la vede impegnata in prima linea nella battaglia in difesa della Repubblica Romana: Cristina si occupa di dirigere gli ospedali militari e organizzare le ambulanze per il soccorso dei feriti e il recupero delle salme. Dopo un lungo viaggio che la conduce fino in Asia Minore, torna nel paese natale nel 1855, stabilendosi a Blevio. Qui morirà nel 1871, dieci anni dopo l’Unità d’Italia.

Nata a Geraldton (Australia) il 2 agosto del 1861, a soli ventitré anni Edith Cowan è tra le fondatrici del Karrakatta Club, il primo club sociale femminile australiano. Figura di spicco nel movimento in favore del diritto di voto per le donne, ottenuto in Australia Occidentale nel 1899, nel 1909 Edith fu tra le fondatrici del Women’s Service Guild of Western Australia, un ente organizzatore del movimento femminista nazionale e, nel 1919, del National Council of Women, di cui è stata presidente dal 1913 al 1921. Ma il suo impegno sociale e politico non si esaurisce qui: nel corso della sua vita, la donna si è battuta anche per i diritti dell’infanzia, per l’istruzione e per la tutela della famiglia, degli anziani e delle persone economicamente svantaggiate. È stata una delle prime donne nominate Giudice di Pace e la prima a essere eletta in un Parlamento australiano. Durante il suo mandato ha condotto una campagna per i diritti delle donne in parlamento (matrice del Women’s Legal Status Bill del 1923), si è battuta per l’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole e per il Guidance of Infants Act, disposizione che avrebbe consentito alle donne di ricorrere al tribunale per reclamare ai padri il mantenimento dovuto per i figli. Due anni dopo la sua morte, avvenuta il 9 giugno del 1932, è stata costruita a Kings Park (Perth) la Edith Dircksey Cowan Memorial, una statua dell’orologio in sua memoria. Tra i tanti gesti commemorativi, ricordiamo che, nel gennaio del 1991, il Western Australian College of Advanced Education è stato ribattezzato Edith Cowan University in suo onore.

Rosa Luxemburg (Zamosc, 5 marzo 1871-Berlino, 15 gennaio 1919) è stata una rivoluzionaria e teorica del socialismo, polacca naturalizzata tedesca. È ancora una liceale quando aderisce al gruppo rivoluzionario clandestino Proletariat. Dalla Svizzera, dove si trasferisce nel 1898 per sfuggire all’arresto, arriva poi in Germania, a Berlino, dove riesce a stabilirsi solo grazie al matrimonio fittizio con un uomo tedesco. Qui aderisce al partito socialdemocratico e dedica i suoi primi anni di permanenza alla scrittura di diversi articoli in cui prende posizione contro il revisionismo teorico del dirigente socialdemocratico Eduard Bernstein. A differenza di quanto sostenuto dal teorico, secondo Rosa il sindacato, lo sviluppo delle democrazie liberali e della cooperativa da sole non avrebbero mai potuto determinare la trasformazione socialista del sistema di produzione. Alle sue riflessioni sull’importanza della rivoluzione proletaria si affiancano quelle sulla necessità della lotta politica contro il militarismo. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale la teoria si farà pratica: Rosa entra a far parte del fronte pacifista e nel 1915 fonda, insieme a Karl Liebknecht, la Spartakusbund (La lega di Spartaco), organizzazione socialista rivoluzionaria d’ispirazione marxista. Dopo aver partecipato alla Rivoluzione tedesca (novembre 1918), nel corso dello sciopero generale contro il nuovo governo della Repubblica di Weimar (meglio noto come ‘Rivolta di gennaio’) Rosa Luxemburg venne arrestata e, in seguito, assassinata; il suo corpo venne gettato in un canale e recuperato solo successivamente. Tra le sue opere più importanti ricordiamo: L’accumulazione del capitale (1913), dedicata all’analisi economica dell’imperialismo, e La rivoluzione russa. Un esame critico (1922) in cui l’autrice critica il modello organizzativo leninista.

«Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro […]. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire». Cresciuta nell’Alabama, sud degli Stati Uniti, del seperate but equal, Rosa Parks, all’anagrafe Rosa Louise McCauley, sapeva bene, lo aveva visto con i suoi occhi e provato sulla sua pelle, che cosa significasse subire e quel giorno, il 1° dicembre del 1955, decise che era il momento di dire “basta!”. Affaticata dall’ennesima giornata di lavoro, non trovando posti liberi nella sezione dedicata alle persone nere, Rosa si sedette al primo posto dietro all’area riservata ai bianchi, nel settore accessibile a entrambi, dell’autobus 2857. La legge prevedeva che, qualora fosse entrata una persona bianca, in assenza di posti nel settore di competenza, la nera avrebbe dovuto cedere il proprio. Era la norma a stabilirlo; ma quella sera Rosa si rifiutò e per questo venne arrestata e incarcerata per condotta impropria e per aver violato le disposizioni cittadine. Sarebbe uscita su cauzione solo più tardi, grazie all’intervento dell’avvocato antirazzista Clifford Durr. Quattro giorni dopo il suo arresto, su iniziativa di Jo Ann Gibson Robinson, attivista per i diritti civili degli africani-americani e presidente dell’associazione femminista Women’s Political Council, iniziò la rivolta pacifista consistente nel boicottaggio degli autobus di Montgomery. Sostenuta anche da Martin Luther King e da altri leader del movimento contro la discriminazione razziale, la protesta si protrasse fino al 13 dicembre del 1956, giorno della dichiarazione di incostituzionalità della legge sulla segregazione. Le ritorsioni degli ambienti bianchi e le difficoltà che ne seguirono nel trovare un’occupazione costrinsero Rosa a trasferirsi a Detroit, dove lavorò dapprima come sarta e, successivamente, come segretaria del democratico membro del Congresso John Conyers. Nel 1999 lo stesso organo legislativo le ha conferito la Medaglia d’oro, il più alto riconoscimento civile americano insieme alla medaglia presidenziale della libertà. L’attivista, icona del movimento per i diritti civili, è deceduta il 24 ottobre del 2005, all’età di 92 anni. Alla sua memoria sono stati dedicati parchi, strade, stazioni metro, film e l’asteroide 284996 Rosaparks.

Figura emblematica della lotta per i diritti delle donne e del movimento nazionale contro il protettorato francese, Radhia Haddad nasce a Tunisi il 17 marzo del 1922. La sua rivoluzione femminista inizia quando è ancora una bambina. Al divieto impostole dai genitori di proseguire gli studi dopo aver terminato la scuola elementare e all’obbligo che le impongono di indossare il velo, Radhia risponderà con la ribellione: si rifiuterà di uscire di casa e continuerà a nutrire il suo intelletto leggendo i manuali universitari del fratello. Gli anni a seguire la vedranno coinvolta nell’Unione delle donne musulmane della Tunisia e nella lotta per la liberazione del Paese: a venticinque anni fonda l’organizzazione femminile Les Amies des Scouts; dal 1959 al 1974 fa parte del collegio elettorale di Tunisi, impegnandosi per l’alfabetizzazione delle donne e per la loro indipendenza finanziaria. Dopo aver preso le distanze dalla svolta autoritaria di Habib Bourguiba, leader della lotta per l’indipendenza (1954) e primo Presidente del Paese, Radhia entra a far parte del Partito socialista costituzionale di Ahmed Mestiri. Negli anni che precedettero la sua morte, avvenuta a Cartagine il 20 ottobre del 2023, l’attivista si è dedicata completamente alla sua casa editrice Elyssa, dal nome della regina fenice. La sua vita è raccontata nell’autobiografia Parole de femme (1995).

Azucena Villaflor nasce ad Avellaneda, città argentina della provincia di Buenos Aires, il 7 aprile del 1924. Vittima del fenomeno dei desaparecidos (persone sequestrate e detenute clandestinamente per motivi politici o accusate di avere compiuto attività “antigovernative”), la donna è tra le tante madri fondatrici della Asociación Madres de Plaza de Mayo. Il 30 novembre del 1976, otto mesi dopo l’inizio della dittatura militare argentina, uno dei suoi tre figli, Néstor De Vicenti, fu sequestrato insieme alla sua compagna, Raquel Mangin. Dopo tante ricerche e vani tentativi di ritrovamento, Azucena diede vita, insieme ad altre tredici madri, alla prima manifestazione volta a puntare i riflettori su quanto stava accadendo: il 30 aprile del 1977 ci fu la prima delle tante marce che, di lì in avanti, avrebbero avuto luogo tutti i giovedì pomeriggio. Il 10 dicembre dello stesso anno, significativamente il giorno in cui viene celebrata la Giornata mondiale dei diritti umani, le Madres de Plaza de Mayo pubblicarono un annuncio con i nomi dei loro figli scomparsi. Durante la notte Azucena venne sequestrata da un gruppo armato nella sua casa di Avellaneda e di lei non si ebbero più notizie certe. Con il ripristino della democrazia e la fine della cosiddetta “Guerra sucia” (“Guerra sporca”), iniziarono gli studi dell’antropologia forense sui corpi spariti nel nulla che, a partire dal 1977, erano stati recuperati al largo delle coste e sulle spiagge argentine. Fra quei resti anche quelli di Azucena. Dal 2016 un cippo di granito ne onora la memoria e l’operato nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo.
«Le nostre madri, instancabili guerriere che diedero la vita per i loro figli, non hanno potuto vincere la morte, però erano tanto ostinate da riuscire a vincere l’oblio. E tornarono. Tornarono con il mare, come se avessero voluto, ancora una volta, dimostrare la tenacia che le aveva caratterizzate in vita».
(Cecilia De Vincenti, figlia di Azucena Villaflor)

Nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo c’è un cippo onorario anche per lei: Wangari Muta Maathai. Biologa, ambientalista e attivista politica keniota, durante la sua vita Wangari ha collezionato diversi primati: è stata la prima donna centroafricana a conseguire una Laurea in Scienze biologiche (1966) e a ottenere una cattedra in veterinaria all’Università di Nairobi; nel 2004, con il conferimento del Premio Nobel per la pace, è diventata la prima donna africana a essere insignita dell’illustre riconoscimento e, nel 2006, la prima, insieme ad altre sette donne, a portare la bandiera olimpica. Il suo impegno politico e sociale spazia dai diritti umani, in particolare di donne e bambini, alla lotta per la democrazia e per l’ambiente. Nel 1977 è tra le fondatrici del Green Belt Movement, responsabile dagli anni Novanta di una campagna di sensibilizzazione contro il disboscamento che ha portato alla piantagione di oltre 51 milioni di alberi in Kenya. All’inizio degli anni Duemila è stata eletta con il 98% delle preferenze nella sua circoscrizione e nominata viceministra per l’ambiente e le risorse naturali nel governo del presidente Mwai Kibaki. Wangari Muta Maathai è morta a Nairobi il 25 settembre del 2011.

Berta Caceres (Honduras, 4 marzo 1971, 1972 o 1973-La Esperanza, 2 marzo 2016) è stata un’ambientalista e attivista honduregna che ha lottato per la difesa del territorio e per i diritti del popolo Lenca. A soli ventidue anni è tra le co-fondatrici del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras, un’organizzazione in favore dei diritti umani delle popolazioni indigene con cui Berta si opporrà al progetto della joint venture Agua Zarca di costruire delle dighe idroelettriche sul fiume Gualcarque. Le contestazioni organizzate dal 2013 sortiranno l’effetto sperato ma la donna diventerà il bersaglio principale dei lavoratori delle compagnie, delle guardie di sicurezza e dei militari. Dopo anni di continue minacce e intimidazioni, la notte del 2 marzo del 2016 Berta Caceres è stata assassinata nella sua abitazione da alcuni uomini armati. L’indignazione internazionale e l’indagine avviata dal governo honduregno non sono bastati a fare luce su quanto accaduto: ad oggi, infatti, non è stata emessa nessuna condanna.
Nel corso della sua vita Berta si è impegnata anche in difesa dei diritti della comunità Lgbtqia+ e per la causa femminista. Nel 2015 è stata insignita del Goldman Environmental Prize.
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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