A mani vuote

Per me essere pendolare è uno stato, un modo di essere, di vivere condizionata dalla puntualità dei mezzi di trasporto pubblico o dalle informazioni sul traffico.
Perché esistono diversi modi di essere pendolari, e quello che io conosco bene è il percorso che mi porta tutti i giorni a lavorare nella capitale, trasformando un viaggio di trenta chilometri in una odissea che, tra attese e traffico, porta via cinque ore della mia vita per cinque giorni a settimana.
Quel giorno ero sulla corriera che copriva l’ultimo tratto del percorso, dopo un autobus, una metropolitana e un treno. Era estate, alle sei del pomeriggio il sole era ancora alto nel cielo, e sudavo — non esistono vie di mezzo tra l’aria condizionata a temperature polari e la sua completa assenza. Sudavo seduta sul vecchio sedile di velluto, e dalla sporcizia e il sudore unto di altri pendolari mi separava solo il diaframma di una camicia a maniche lunghe. Dall’autunno alla primavera uso un impermeabile o un giaccone lungo che rimangono appesi all’entrata di casa insieme alle scarpe, la cui suola viene disinfettata tutti i giorni. Gli abiti finiscono tutti i giorni in lavatrice, che avvio mentre faccio la doccia e lavo i capelli. Tutti i giorni da quando uso il trasporto pubblico.
Salendo sulla corriera al capolinea della stazione del treno, di solito posso scegliere e mi piace sedere davanti, in direzione di marcia, dove sono quattro sedili affrontati due a due su entrambi i lati del corridoio, e dove c’è spazio comodo per le gambe.
Quel giorno, sul gruppo dei quattro sedili di destra, in direzione di marcia, c’era una signora che aveva occupato i due sedili accanto al finestrino, quello di fronte a lei con diversi sacchetti del supermercato, mentre i quattro posti sulla sinistra erano vuoti, così mi sono seduta li, appoggiando di fianco, sotto al finestrino, la borsa e il portapranzo.
Quando ti siedi comodamente, durante il viaggio ci sono diverse cose che puoi fare: puoi leggere, programmare la giornata al mattino o preparare la lista della spesa da fare al ritorno, ma quello che preferisco è dormire, per recuperare un po’ delle ore di sonno perdute a causa del viaggio. Quel pomeriggio, tra il sonno e la veglia, guardavo con la memoria il contenuto del mio frigorifero, cercando di programmare la prossima cena e il pranzo da portare al lavoro il giorno dopo.
Sono tra le persone fortunate che hanno una mensa aziendale, ma sono anche tra quelle sfortunate che alle mense si intossicano, quindi dalla domenica al giovedì sera devo cucinare anche il pranzo del giorno successivo. Ogni tanto, con qualche collega mi concedo il lusso di mangiare in uno dei tanti locali che affollano il centro, ma non si può fare tutti i giorni, sia per la salute che per il portafogli.
Ma torniamo a quel giorno. Tra il sonno e la veglia cercavo di fare la lista della spesa, ed ero certa che la corriera non si sarebbe fermata prima di entrare in paese: a luglio i pochi pendolari fanno quasi tutti il percorso dalla stazione del treno al centro del paese.
Invece non andò così. Si fermò al fiume, dove di rado qualcuno sale o scende, tranne chi lavora all’unico cantiere su quella sponda e non può permettersi neanche una bici. Oppure un viaggiatore con lo zaino deciso a risparmiare il biglietto ma, arrivato a quel punto, il caldo vince e gli fa cambiare idea. E poi non ci sono controllori in un tardo pomeriggio d’estate.
Mi girai a guardare la porta tra l’annoiato e l’incuriosito, più che altro per capire se chi saliva avrebbe disturbato la mia solitudine o si sarebbe seduto in fondo. Entrarono due giovani zingari, due ragazzotti robusti, rom o sinti non saprei dire, e si sedettero sui due posti lasciati liberi dalla signora delle buste con la spesa. Ispezionarono con lo sguardo il gruppo di sedili dove mi trovavo: uno di loro mi guardò negli occhi, poi ci ripensarono e andarono a sedersi in fondo. Intanto era salito un uomo che venne a sedersi di fronte a me. Era un marinaio sulla trentina, basso e tozzo con una gran testa di capelli ricci; portava un paio di calzoni corti, tagliati sopra il ginocchio, una canottiera di colore indefinito, un anello d’oro all’orecchio sinistro. Gambe e braccia erano pieni di tatuaggi, tutti abbastanza dozzinali, niente di artistico o di etnico. Sedendosi, l’uomo allungò la mano destra, appoggiandola sul sedile a fianco a sé con il palmo aperto verso l’alto.
La bambina salì dietro alla donna, una zingara alta e bruna, che si sedette sul lato destro del corridoio, di fianco al sedile occupato dalle borse della signora. Inizialmente sedette rigida guardando il sedile vuoto di fronte, poi mi accorsi che guardava verso di noi, verso di me, il marinaio, e la bambina che nel frattempo si era seduta. Avrà avuto 8 o 9 anni, non di più. Portava le trecce, e una canottiera gialla le fasciava il piccolo busto; un paio di jeans corti le lasciavano scoperte le gambette magre. Ai piedi aveva un paio di infradito di gomma gialla e le unghie dipinte di rosso. Anche sulle mani aveva lo smalto rosso sulle unghie corte mangiate.
Quando salì stava per sedersi davanti alla zingara, ma questa scosse la testa in un diniego e la bambina si girò, sali lo scalino tra i sedili, e fece per sedersi di fianco a me. Ma il marinaio le fece cenno di mettersi sopra alla sua mano distesa sul sedile. La bambina si mise seduta sulla mano di quel porco, girò la testa verso il finestrino mettendosi a guardare fuori.
Una specie di calore freddo mi sali al cervello. Mi sarei messa a urlare e a picchiare lo schifoso, ma rimasi fredda a ragionare.
Erano saliti in quel punto, ma il campo nomadi era molto più lontano: probabilmente li avevano scacciati dalle corriere precedenti, e se fossero scesi anche da questa, fermata dopo fermata sarebbero comunque arrivati al porto, dove probabilmente il marinaio avrebbe portato la bambina su una delle barche ormeggiate.
Cosa fare, cosa?
Urlare, farli scendere? Su quella corriera c’eravamo io, la signora con la spesa e l’autista, e sicuramente quei due ragazzotti avevano almeno un coltello, anche se sarebbero bastati i loro pugni.
Guardavo la bambina, lei si girò e trovò il mio sguardo di rabbia. Uno sguardo d’accusa che non era rivolto a lei, ma neanche la mia pena le era d’aiuto.
Presi il cellulare dalla borsa, ma a cosa poteva servire? Se fosse stato uno degli ultimi modelli, quelli con la possibilità di fare foto, forse avrei potuto scattarne una e spedirla per fermare quello scempio. Ma spedirla a chi? Guardavo il mio Motorola vecchio modello, cercavo tra i numeri quello della polizia o dei carabinieri, ma in memoria non c’era nulla. Non c’era neanche campo! Maledetta Omnitel!
Le mie mani tormentavano il cellulare senza sapere cosa farne, come utilizzarlo. Intanto facevo mente locale se lungo la strada ci fossero cabine telefoniche: tutte troppo lontane dalle fermate!
Scesi alla mia fermata e cominciai a fare il 113, ma continuava a non esserci campo. Provavo e provavo correndo verso casa, aprii la porta e corsi al telefono per chiamare i carabinieri.
«Presto, stanno per violentare una bambina! Presto! Andate a fermarli». «Signora, si calmi».
«Si, mi calmo, ma fate presto, siete vicini, stanno arrivando con la corriera e scenderanno al porto».
«Come fa a dirlo?».
«Perché il porco è un marinaio».
Raccontai al carabiniere tutta la storia: i due zingari che salivano a controllare la situazione, la donna, il marinaio, la bambina. Descrissi i tatuaggi e l’orecchino di lui, la canottiera e le ciabattine gialle della bimba.
«Presto! Fate presto, fermateli!».
«Signora, stia tranquilla, lo faremo».
Passai la notte sveglia, rimproverandomi la mia pochezza, il non aver saputo fare la cosa giusta, il non aver salvato la bambina.
Il giorno dopo chiamai di nuovo i carabinieri: «Ieri ho chiamato per segnalare il probabile stupro di una zingarella…»
«Signora, non possiamo dirle niente».
«Per favore, non voglio sapere niente, mi dica solo se li avete trovati».
«Si, li abbiamo trovati».
Non ci ho mai creduto.
Non ci ho creduto allora e non ci credo ora, dopo tutti questi anni. Ho fatto finta di crederci, ma quando a volte mi capita di svegliarmi di colpo durante la notte, mi racconto che è vero, che sono riuscita a salvarla. Poi ricordo il mio cellulare inutile e le mie mani vuote.

***

Articolo di Rosalba Mengoni

Rosalba Mengoni 400x400

Laurea magistrale in Storia e Società, il suo principale argomento di studio riguarda l’interazione fra l’essere umano e il territorio. Collaboratrice tecnica all’Isem – Istituto di storia dell’Europa Mediterranea del Cnr, è nel comitato di redazione di Rime, la rivista dell’Istituto e fa parte del gruppo di lavoro sulla comunicazione. Cura la Bibliografia Mediterranea pubblicata sul sito istituzionale http://www.isem.cnr.it

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