Se duecento anni dopo la storia potesse ripetersi

Roberto è un ragazzone grande grosso, con i capelli scuri e l’andatura vagamente barcollante. Le sue spalle da bracciante siciliano e le mani simili a pale di badile non fanno che stridere in continuazione con la sua voce da pulcino bagnato: una sorta di pigolio appena accennato, che a volte affiora dalle labbra carnose e perennemente screpolate. Non parla bene, Roberto, spesso lo sventurato interlocutore fatica a comprendere le sue parole. Perché il nostro alunno dalle spalle larghe salta i fonemi, tralascia le sillabe, non pone le pause giuste tra un termine e l’altro. I suoi discorsi sono un vero rebus. Eppure ama la compagnia delle/degli altri, cerca ad ogni piè sospinto il contatto umano, il dialogo, il confronto. Gli piace raccontare di sé, esprimere i suoi pensieri. Ogni volta introduce il suo racconto con un sospiro profondo, abbassa gli occhi a cercare la concentrazione o forse a prendere la rincorsa e poi infila una sequela di parole che seguono l’incipit sempre uguale a sé stesso: «Prof, ‘desso gli spiego ‘na cosa». «LE spiego, Roberto, LE. Io sono una donna, devi usare il pronome giusto». Macché, son due anni che gli ripeto la stessa cosa, ma quel GLI nella sua testa sembra stare talmente a suo agio, che credo non accetterà mai di venir sostituito dall’omologo femminile. Qualche mattina fa, mentre me ne stavo tranquilla ad ascoltare una bellissima lezione sulla caccia alle streghe del collega Jean (al secolo Andrea, da me ribattezzato in ragione del taglio di capelli talmente irriverente da conferirgli una sorta di fascino ribelle da rivoluzionario francese), è entrato a chiamarmi il vicepreside. L’aria torva e la gestualità rigida non promettevano niente di buono. E infatti… Roberto ha combinato un casino, mi ha informata. Ha fatto a botte con un compagno e quando la professoressa di turno ha cercato di intervenire, pare che lui l’abbia mandata placidamente a quel paese. Conoscendo il carattere di Roberto, il racconto mi pare plausibile, sempre che chi era presente sia stato in grado di comprendere gli strani suoni usciti dalla sua bocca…
«Prof, ‘desso gli spiego ‘na cosa» inizia, appena lo interrogo sull’accaduto. «Scherzo, io scherzo, ma Riccardo no! capisce, lui rabiato con me, ‘lora dato pum ‘la schiena. Io male, rosso, botta. Allora io dato a lui stesso». «Ancora?» lo riprendo «Roberto, porca di quella miseria, quante volte ti devo dire che dare dei pugni sulle spalle non è uno scherzo? Gli altri non sono contenti quando lo fai». «Ma ‘nche loro fanno. Scherzo, scherzo da maschi. Come saluto». «Lo so che alcuni di voi si salutano così, ma tu pesi quasi cento chili, non sai dosare la forza, te l’ho spiegato un miliardo di volte. Tu fai male quando alzi le mani. Le devi tenere in tasca, in tasca hai capito?». «Scusami prof, io capito». «Dici così tutte le volte, ma poi ci ricaschi sempre. E non è a me che devi chiedere scusa, lo sai. Scusati per l’ennesima volta col tuo compagno e con la prof. Cosa possiamo fare per non farti fare gli stessi errori ogni settimana? Dimmi, consigliami, come possiamo farti ricordare che non devi per nessun motivo alzare le mani?» chiedo con un tono pietoso, a metà tra la supplica e il rimprovero. «Io capito, prof. Io bravo, no cattivo».
Ma cos’è, una scena di Frankenstein Junior? Adesso sentirò il violino suonare e Roberto si dirigerà verso il castello del suo creatore, come nel film di Mel Brooks. È triste da dire, ma pare che anche Roberto, come la Creatura, abbia il destino segnato. Solo che il film mi ha sempre fatto ridere. La storia del mio alunno invece mi riempie di tristezza. Perché Roberto viene da un contesto di privazioni culturali e materiali; perché dorme in una stamberga (probabilmente un ex pollaio) staccata dal blocco centrale della casa del suo nucleo famigliare; perché vive gomito a gomito con un fratello che ha già numerosi precedenti con la giustizia e con ogni probabilità se lo tirerà dietro nel baratro della devianza; perché a scuola non capisce nulla o quasi e non si riesce a offrirgli un serio progetto di vita senza una rete efficace; perché l’assistente sociale che lo aveva in carico è andata in maternità e prima che fosse nominata la sostituta sono passati mesi. Perché ora quella che è arrivata non lo conosce affatto e non è di qua, non sa nulla né del territorio né del contesto, che può mai fare? Perché i genitori non vogliono l’educatrice domiciliare e le chiudono letteralmente la porta in faccia quando prova a entrare in casa. Quale futuro può avere, a queste condizioni, questo ragazzone dagli occhi profondi e impauriti?
«Il 26 maggio 1828, in una sonnolenta Norimberga, compare all’improvviso un ragazzo grande e grosso di circa sedici anni, vagamente claudicante, che porta con sé una lettera indirizzata a un capitano della locale guarnigione. Alle domande che gli vengono rivolte, il giovane sa opporre solo due frasi: “Voglio diventare cavaliere, come mio padre” e “Non so”. Più tardi sorprenderà tutti scrivendo a caratteri decisi e leggibili il proprio nome: Kaspar Hauser».
Comincia così il libro che Anselm von Feuerbach (padre del filosofo Ludwig) diede alle stampe nel 1832 e di cui lessi una copia ai tempi dell’università. Un testo sconvolgente e magnifico, che si profila come una indagine della natura umana e dell’identità delle persone più fragili. Kaspar non parla, non capisce se non semplicissime indicazioni, ha la selvatichezza innocente e incontaminata di un bambino nel corpo di un adulto e nondimeno di lì a qualche mese impara a esprimersi e a scrivere, dipinge, va a cavallo, e viene per così dire adottato dall’intera città. Una cosa che sarebbe piaciuta moltissimo al Platone della Repubblica: si cresce perché educati dall’intera città, siamo figli delle relazioni pedagogiche e politiche che sostengono il nostro sviluppo culturale e morale. Kaspar è la prova documentata di quanto la natura umana sia incline alla resilienza e sensibile agli stimoli ambientali e sociali. L’identità è fatta per sbocciare e affermarsi, non per morire digiuna di tutto. E allora, caro Roberto, riusciremo mai noi abitanti della cittadella sgangherata eppur viva che chiamiamo scuola a trovare il modo perché tu possa sopravvivere e, nonostante tutto, portare alla luce te stesso?

Le pagine di questa rubrica raccolgono testimonianze di insegnanti di sostegno che hanno scelto di condividere con noi qualche riflessione sul loro lavoro e qualche episodio particolarmente emblematico del mondo dell’inclusione fuori e dentro la scuola. La Redazione ringrazia tutte/i coloro che hanno contribuito alla sua realizzazione, prestando la loro voce a Vitamine vaganti.

In copertina: foto di Christian Tasso, tratta dal libro Nessuno escluso, edito da Contrasto, novembre 2020.

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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, già docente di filosofia/scienze umane e consigliera di parità provinciale, tiene corsi di formazione, in particolare sui temi delle politiche di genere. Giornalista pubblicista, è vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile e caporedattrice della rivista online Vitamine vaganti.

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