Il pane inglese

«Me china, ti scrivo questa mia lettera nei brevi ritagli di tempo che passano tra una notte insonne e il giorno che sta arrivando. Mi chiamo Netty e vivo a Londra, nella zona dell’East End. Questo, almeno, è ciò che dicono i confini urbani e geografici. Quanto alla City, non credo che essa sia felice di questa appartenenza. Hai presente una voragine che spezza l’ordinato manto stradale? O, ancora meglio, una fognatura sotterranea che decide a un certo punto di mostrare al mondo tutto lo sporco e il nero che è esso stesso a creare? Si vorrebbe nasconderlo, certo. Si vorrebbe fare anche finta che non esista, ché i peccati si possono pure compiere, l’importante, si sa, è non farsi scoprire.
La puzza però c’è. Ed ecco che gli uomini e le donne per bene tirano fuori i loro canditi fazzoletti profumati per coprirsi narici e occhi, perché se gli indizi si posso ignorare, con le prove il problema diventa serio.
I loro fazzoletti, quelli che Londra ha usato per creare la nostra assenza, sono fatti di pietra, acqua e marmo: i docks a sud, il Regent’s Canal a nord, acque putride a est e, a Ovest, i colonnati bianchi e inamidati degli istituti bancari. Il West End ci dà le spalle, a dirci che siamo due cose diverse, noi e loro, che nulla abbiamo in comune se non qualche ombra allungata dal sole sfaccendato del tramonto, sul quale nemmeno Sua Maestà ha un qualche potere. Ci è stato dato il nome di Popolo dell’Abisso, come fossimo un’entità a parte, quasi mitologica, visitata, per caso o per volontà, da qualche eroe che, dal mondo dei vivi, finisce dentro la gola profonda del nostro Ade.
Eppure, credimi, me china, noi siamo qui, a respirare nello stesso grande impero di ogni suddito o suddita britannica.
Guardo fuori dalla finestra e mi accorgo che sta spuntando l’alba. La luce, però, non c’è ancora. E allora chiunque si trovi per strada cerca con ansia il cono giallo dei lampioni a gas, come falene concitate piene di paura. Non è un bel posto, l’East End, è vero. È il ricettacolo nel quale Londra raccoglie coloro che vorrebbe far sparire.

Sto scrivendo questa lettera mentre aspetto che Edith, la mia compagna di stanza, finisca di prepararsi. Alloggiamo entrambe in una piccola pensione ai confini di Whitechapel: dividiamo l’affitto e le altre spese, così da evitare di andare a morire in qualche Workhouse. Quelle, davvero, sono delle tombe in superficie. Sepolcri affollatissimi dove si entra sui propri piedi e si esce trascinati via in una bara.
In realtà, io ed Edith dividiamo molto di più: lavoriamo nella stessa fabbrica e, per evitare guai, condividiamo anche i turni, così da andare e tornare sempre insieme. Lo saprai meglio di me, me china, che una ragazza sola per la strada deve guardarsi tanto dai criminali quanto dai brav’uomini. E non solo qui nell’East End, eh. Non c’è poi così grande differenza tra una braca stracciata e una di stoffa pregiata: nessuna delle due se ne sta chiusa come dovrebbe.
Il fatto è che con noi i maschi benestanti pensano di potersi prendere più libertà di quanto farebbero con donne della loro classe sociale, come se l’indigenza ci spalancasse le gambe e trasformasse i nostri no in e le nostre urla di terrore in gemiti di piacere. È per questo che giro sempre con uno stiletto ben affilato nascosto nella borsa. Una ben misera garanzia alla mia sicurezza e alla mia libertà.
Le cose però stanno così, e tanto vale fare del proprio per raddrizzarle fin dove si può. L’ho sempre pensato: lamentarsi senza agire ti fa sprecare solo fiato. E se poi devi correre, l’aria dei polmoni non ti basta più.
Io ed Edith siamo operaie nella Bryant & May, una fabbrica di fiammiferi tra le più famose del Regno Unito. E visto ciò che ti ho detto poco fa, non butterò via i mie respiri per raccontarti di quanto odi questo posto, o per confidarti che, se avessi potuto scegliere, mi sarebbe piaciuto fare l’insegnante.
I soldi per la scuola però non c’erano. Ho dovuto quindi correggere il tiro dei miei sogni e inventarmi delle nuove aspettative.
Riempire il borsello e svuotare il cassetto: è anche questa una maniera per sopravvivere. Chi può permettersi di mangiare con le proprie speranze realizzate è la più fortunata tra le persone. Io non sono nell’elenco, ma va bene così. Con lo stomaco caldo la mente può lavorare. E poiché i sogni sono gratis, io ne faccio e ne faccio e ne faccio, a riempire tutti gli spazi possibili. Alcuni li tiro fuori, altri li lascio ben chiusi, tanto non si sgualciscono né scadono. Ora sono loro che servono a me. Tra qualche tempo, sarò io a servire a loro, se vogliono diventare realtà. È la promessa che mi sono fatta e che ho tutta l’intenzione di realizzare. Ricordi, me china? Lamentarsi poco. Agire molto.
Comunque, un po’ di fortuna l’ho avuta anche io. Nella fabbrica dove lavoro, negli ultimi anni, la situazione di noi operaie è decisamente migliorata. Le paghe sono aumentate e la nostra sicurezza è tenuta in maggiore considerazione. Tutto grazie a un gruppo di donne che, come me, credeva nel fare e non solo nel dire.

Il 23 giugno del 1888, sul The Link uscì un articolo firmato dalla giornalista Annie Besant dal titolo La schiavitù bianca a Londra.
Besant aveva indagato e poi denunciato le condizioni delle operaie delle Bryant & May. Dieci ore di lavoro in inverno; dodici in estate. La paga andava dai 4 scellini fino ai 9 a settimana, con detrazioni continue e per i motivi più assurdi: se i piedi erano sporchi o il pavimento sotto il tavolo era in disordine, venivano decurtati tre penny; se sul banco di lavoro vi erano fiammiferi bruciati, anche incidentalmente, la multa era di uno scellino; uno scellino, ancora, se si preferiva salvare le proprie dita a discapito del filo che si attorcigliava attorno a una macchia; se una ragazza lasciava la propria postazione per prendere dei macchinari e dimenticava incustoditi cinque fiammiferi, la sanzione era di tre penny; tre penny se si parlava; tra i cinque e gli otto penny venivano detratti dalla paga se si arrivava in ritardo.
Aggiunto a questo, vi era poi il largo uso che la fabbrica faceva di fosforo bianco, nonostante sapesse quanto fosse pericolo. Le inalazioni, infatti, potevano provocare malattie gravi come la necrosi della mandibola. Se una lavoratrice lamentava mal di denti, veniva licenziata in tronco.
A seguito di questo articolo, la Bryant & May provò a costringere le operaie a firmare delle dichiarazioni in cui le accuse mosse venivano negate.
Fu allora che, il 5 luglio del 1888, oltre 1400 tra donne e ragazze iniziarono a scioperare. Una di loro si chiamava Sarah Chapman.
Sarah aveva all’epoca ventisei anni e ricopriva, all’interno della fabbrica, una delle posizioni meglio retribuite. Credo, però, me china, che la pensasse come me: «Fa’ qualcosa, se puoi farlo. Invece di lamentarti, urla».

Si mise a capo della protesta.
Il giorno dopo, con un corteo di duecento operaie, Chapman e altre sue due compagne si recarono sotto la sede del The Link per incontrare Annie Besant e chiedere il suo aiuto. Nacque, così, un comitato di sciopero del quale Sarah Chapman, Mary Naulls, Mary Cummings, Alice Francis, Kate Slater, Mary Driscoll, Jane Wakeling ed Eliza Martin furono i primi membri.
Le otto donne tennero incontri pubblici, vennero intervistate e raccontate dalla stampa che si schierò dalla loro parte, e ottennero l’appoggio delle associazioni e della politica. Fu talmente grande il movimento che si era innescato che la direzione della Bryant & May accettò tutte le richieste che erano state avanzate. Da questa esperienza, nacque poi The Union of Women Matchmakers il primo e più grande sindacato femminile del Paese.
Inoltre, nel 1908, la Camera dei Comuni approvò una legge che proibiva l’uso del fosforo bianco nei fiammiferi a partire dal 1 gennaio 1911.
E se io oggi lavoro e posso continuare a progettare il mio futuro è grazie a Annie Besant, a Sarah Chapman e a tutte quelle donne che hanno deciso, a un certo punto, che le cose andavano cambiate.
È stato da qui, dall’East End, che tutto è partito. È stato l’inferno che ha insegnato al paradiso come si sta al mondo.
Io spero, me china, che questa storia ti abbia emozionata.
Edith è ormai pronta: il sole si sta alzando e per noi è tempo di andare a lavorare.

Prima di congedarmi, ovviamente, ti lascio la mia ricetta.
Gli scones sono i panini che si accompagnano al tè, imburrati e spalmati con la confettura. Nelle case eleganti del West End si consumano quotidianamente. E siccome sono inglese anche io, li mangio ogni giorno, proprio qui, nei bassifondi, mentre, affacciata alla mia finestrella dal vetro scheggiato, osservo le stamberghe che mi circondano.
Me li godo, me china, nella stessa, esatta, maniera in cui se li godrebbe una brava donna che vive al di là delle colonne della City.
Per farli occorrono due tazze di farina, un quarto di cucchiaino di sale, cinque cucchiaini di lievito in polvere, sei cucchiai di burro a temperatura ambiente, tre cucchiai di zucchero, una tazza di ribes, uvetta, due terzi di una tazza di latte, un cucchiaino di estratto di vaniglia e un uovo sbattuto.
Preriscalda il forno a 425 °F, o 220 gradi centigradi.
In una grande ciotola mescola, insieme la farina, il sale e il lievito. Aggiungi il burro a cubetti e strofina il composto con le dita fino a quando non diventa granuloso. Unisci quindi lo zucchero e l’uvetta e mescola bene.
Cuoci il latte fino a quando non è caldo. Poi mettici dentro l’estratto di vaniglia e, di nuovo, mescola.
A questo punto, metti una teglia vuota nel forno. Prendi il composto secco, fai un buco nel mezzo e inserisci composto di latte. Mescola rapidamente Ora, poni l’impasto su una superficie infarinata. E con le mani, anch’esse sporche di farina, lavoralo per due o tre volte, fino a che non diventi più liscio. Appiattiscilo per ottenere una forma rotonda, di circa un pollice di spessore.
Con il bordo di un bicchiere, ricava dei cerchi e spennella la loro superficie con l’uovo sbattuto. Togli la teglia calda dal forno, disponi con cura i panini ritagliati sulla superficie e metti a cuocere i panini finché non saranno dorati.
Ora, me china, è arrivato il momento di andare. Vado a costruirmi i miei sogni. Have some nice Jack and Jill».

***

Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Filologia moderna, è giornalista pubblicista. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere la forza di continuare a chiedere: Shomèr ma mi llailah (Sentinella, quanto [resta] della notte)? Crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice, sia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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