Silvia è una delle ragazze più coraggiose che conosca. Perché la vita — e la scuola — le hanno chiesto di scalare una montagna piena di crepacci e lei, semplicemente, ha indossato uno zaino (pesantissimo, accidenti!) e si è messa in marcia. Avrebbe potuto dire di no. Avrebbe potuto mollare in ogni momento, rinunciare, abbandonarsi alla fatica e alle cadute o credere a chi le diceva che la missione era troppo grande per le sue forze. Invece è rimasta in piedi, un passo alla volta. Ed è arrivata dove voleva, fino alla vetta e oltre. Con le sue gambe e con l’aiuto di una famiglia unitissima, che ha sempre fatto e continua a fare il tifo per lei. Ho chiesto a Silvia se se la sentisse di descrivere con le sue parole che cosa abbia significato per lei essere un’adolescente malata e spesso ospedalizzata, alle prese con il percorso scolastico. Ecco che cosa mi ha scritto:
«Alla nascita mi è stata diagnosticata una malattia genetica degenerativa. Significa che più si invecchia, più la patologia si aggrava. La malattia in questione si chiama fibrosi cistica. Per i dettagli vi lascio cercare su Google, io vi dirò semplicemente che si tratta di una patologia multiorgano e che il pancreas e i polmoni sono gli organi maggiormente colpiti. Poiché tutte le informazioni su questa malattia le potete trovare con un semplice click, qui di seguito vi racconterò come è stata la mia esperienza scolastica, perché possiate capire come si vive da studente quando si ha una patologia cronica debilitante.
Asilo, elementari e medie le ho svolte nel mio piccolo paese alpino, per tanto le mie e i miei insegnanti conoscevano bene la situazione e quando dovevo assentarmi per ricoveri o visite mediche, mi venivano incontro. Al mio ritorno organizzavamo i giorni per le verifiche così che avessi abbastanza tempo per rimettermi in pari.
Ho iniziato a odiare me stessa quando ho iniziato a frequentare le superiori.
Cambiare scuola, ambiente, compagne, compagni e prof. voleva dire affrontare tante novità! All’inizio ero felice, perché la mia situazione era sotto controllo, quindi non vedevo i problemi. Però avevo scelto un corso di studi che con il mio stile di vita e la mia persona non andava per niente d’accordo.
Non sono mai stata particolarmente brava a scuola, soprattutto nelle materie scientifiche: solo a sentir parlare di matematica mi veniva l’orticaria! Ma volevo diventare una biologa marina, quindi scelsi il liceo scientifico.
Dopo un paio di mesi dall’inizio delle superiori, finii in ospedale perché avevo i polmoni pieni di catarro e facevo fatica a respirare, stavo troppo ferma e a volte saltavo gli allenamenti settimanali di pallavolo per studiare e rimettermi in pari.
Una persona con la fibrosi cistica ha bisogno di muoversi tanto, per mantenere liberi i polmoni, ma io ero entrata in un circolo vizioso, me ne stavo sempre in camera a provare a studiare.
La realtà dei fatti è che stando ferma i miei polmoni si chiudevano sempre più e di conseguenza io non avevo sufficiente ossigeno per restare concentrata o sveglia per studiare. In poco tempo mi ritrovai a fare continui ricoveri.
Le mie e i miei docenti non erano per nulla soddisfatti del mio andamento e anche quelle poche volte in cui riuscivo a prendere la sufficienza, trovavano il modo per denigrarmi e far notare che non facevo abbastanza, quindi ho iniziato a preferire la stanza di un ospedale alla scuola. Quando dici a una ragazzina di 14 anni che non può fare determinate cose perché è malata, lei inizia a crederci e a dare la colpa a sé stessa, come se avesse chiesto lei di nascere malata. Alla fine ho iniziato a crederci, ho creduto davvero che fosse colpa mia.
La situazione era diventata insostenibile ormai: per soddisfare i parametri della scuola, mi stavo uccidendo. Alla fine ho cambiato indirizzo, sono andata a frequentare ragioneria ed è stata la mia salvezza. Lì ho trovato docenti maggiormente disponibili, soprattutto nei periodi che passavo in ospedale. Tuttavia nemmeno qui mi trovavo bene: dopo l’esperienza del liceo avevo perso del tutto la voglia di studiare e la fiducia in chi insegnava e in me stessa. Nonostante tutto sono riuscita a diplomarmi e ad andarmene tutta intera. Ma le cicatrici emotive, adesso, chi me le toglie?».
Questa è una bella domanda. Silvia, che si è diplomata nel 2014, ha studiato in anni in cui la Direttiva dell’allora Ministro Profumo sui Bes (dicembre 2012) non era ancora uscita o, tutt’al più, muoveva i primissimi passi, travolgendo e stravolgendo per sempre il mondo della scuola. Ma servono le leggi per spingere un o una qualunque insegnante a usare un pochino di misura e di umanità, quando ci troviamo di fronte a chi affronta dei veri e propri calvari? L’Antigone di Sofocle si scandalizzerebbe di fronte al racconto di Silvia e si schiererebbe senza alcuna esitazione dalla sua parte. Non si chiede di regalare nulla, ci mancherebbe, semplicemente di non essere un luogo di tortura, però, o di annullamento di sé. Una scuola che, anziché sostenerla nel tempo della prova, le ha fatto perdere ogni fiducia e l’ha riempita di sensi di colpa che cavolo di ambiente educativo è stato, accidenti? Le scadenze, le verifiche, le valutazioni sommative a intervalli regolari sono sempre davvero così indispensabili, costi quel che costi? Non dovrebbe essere la crescita globale dei nostri alunni e delle nostre studenti il focus principale del nostro lavoro? Che diavolo di valore ha, scusate, la data di una verifica, per una persona che ha il calendario scandito da visite, interventi, ricoveri, referti? A volte penso che star troppo dentro la scuola non faccia bene. Noi docenti non ne siamo di fatto mai usciti/e. E quello, se non facciamo molta attenzione, finisce col diventare il nostro mondo, tutto il mondo. Una qualunque aula, dispersa in uno qualunque degli istituti d’Italia, diventa l’universo intero, la realtà tutta e indiscussa. Con la conseguenza che perdiamo il senso della misura, il senso vero delle cose, il significato di ciò che facciamo lì dentro. La scuola è importante, importantissima, intendiamoci. Senza, la vita di ognuna e ognuno di noi sarebbe stata più povera da molti punti di vista: sociale, culturale, relazionale, emotivo, identitario. Ma più importante della scuola è la vita, credo che su questo possiamo essere tutti e tutte d’accordo. E allora l’una deve riempire e arricchire l’altra, non soffocarla o distruggerla. Una antica locuzione latina che recita «Non scholae, sed vitae discimus». Il senso è che non impariamo per la scuola in sé, per i voti o per compiacere gli/le insegnanti, ma per la nostra vita, per affrontarla attrezzati, con idee e un buon bagaglio culturale e personale. Ecco, fosse per me dovremmo incidere questa frase a caratteri cubitali in ogni classe e all’ingresso di ogni istituto scolastico. Perché nessuna delle tante Silvie di questo Paese dovrebbe mai scrivere che ha iniziato a odiare sé stessa quando la scuola ha iniziato a farla sentire inadeguata. A proposito, Silvia si è pure laureata. Alla faccia di chi non ci credeva!
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
