Migranti. Storie di vita, esercizi di relazione è il nuovo corso organizzato dalla Società italiana delle storiche (Sis) dedicato all’analisi dell’esperienza migratoria, dallo sradicamento dalla propria terra alla difficile attraversata fino ai Paesi ospiti, che spesso non hanno strutture adatte ad accogliere le persone migranti e a fornire loro un adeguato sostentamento.
La Sis si pone quindi l’obbiettivo di esporre i bias razzisti e classisti intrinseci nella narrativa attorno al fenomeno dell’immigrazione, e a «tenere insieme la prospettiva storica e una cura di ricostruzione dell’umano».
La prima lezione si intitola Le strade del mondo ed è presentata da Stefano Gallo, primo ricercatore del Consiglio nazionale della ricerca e socio fondatore del direttivo della Società italiana della storia del lavoro.
Il sociologo Michael Eve nel suo saggio Una sociologia degli altri e un’altra sociologia: la tradizione di studio sull’immigrazione riflette sui caratteri del termine “migrazione” e sull’uso che ne viene fatto non solo nella sfera pubblica ma anche e soprattutto nell’ambito accademico e sociologico. Il tutto parte dalla definizione contenuta nel dizionario di scienze sociali The Blackdwell Dictionary of Twentieth Century Social Thought del 1994, dove si legge: «The sociology of migrations is essentially devoted to immigration, to process of integration and assimilation of a foreign community in a host society. […] Immigration can be viewed as a process of cultural transformation, as an ordeal suffered by the actor who sees the norms, values and identifications of his or her group moving away, without adopting for all that the patterns of their host society and without feeling accepted». Si nota subito che il focus della disciplina della Sociologia della migrazione è sul processo di immigrazione verso un Pease estero, ossia del processo di integrazione e assimilazione di una comunità straniera in una società ospite, e che può essere visto come un processo di trasformazione culturale, un trauma dove la persona vede ciò che la identifica come parte di un determinato gruppo scomparire senza però sentirsi accolta dalla società ospitante. Questa definizione vede il processo migratorio dal punto di vista dell’accogliente: la sociologia in questo caso studia chi arriva all’interno di una società che lo o la ospita, lo strappo dai valori culturali di partenza e la doppia sofferenza di essere lontano dalla propria terra d’origine e straniera/o in quella di arrivo, incapace di mettere radici ovunque (“doppia assenza”).
Questa definizione è problematica perché esalta solo una parte di un fenomeno che è in realtà molto più ampio e complesso, che include le immigrazioni interne a un Paese e le emigrazioni.
La migrazione è, alla sua essenza, una mobilità umana territoriale caratterizzata dall’attraversamento di una frontiera. Nell’immigrazione la frontiera varcata è verso l’interno, nell’emigrazione verso l’esterno, nelle migrazioni interne si attraversano confini amministrativi. Già a partire da questa distinzione si può evidenziare la stratificazione di fenomeni, non solo sociali — si ricordi che la migrazione è un fenomeno sociale — ma anche politici — la demarcazione di una frontiera da varcare e che genere di frontiera essa è. Generalmente, inoltre, il tipo di mobilità che viene evidenziata più spesso a livello pubblico è quella che è considerata più problematica: “migrazione” indica un movimento umano che crea preoccupazioni all’interno della società ospitante. Si noti che i viaggi del mondo intellettuale e marinaresco, delle classi agiate o gli spostamenti degli eserciti non sono tradizionalmente considerati migrazioni; oggi storici e storiche includono qualunque mobilità umana all’interno del termine, ma è innegabile che per lungo tempo ciò non sia avvenuto, anche a livello accademico, come dimostra la definizione citata all’inizio di questo articolo.
Quali sono le peculiarità della comunità immigrata secondo la Sociologia delle migrazioni? Innanzitutto, essa ha un’alta visibilità sociale: segni distintivi come vestiti, cibo, colore della pelle diversi; vive spesso in contesti segregati; ha rilevanza politica in quanto problema costante (documentazione, distanza linguistica). Storicamente gli studi sull’immigrazione si sono concentrati sulle catene migratorie (un pioniere si sposta in un territorio dove si trova bene, per poi chiamare un’altra persona che lo raggiunge che usa il pioniere come appoggio per poter iniziare a vivere nella società ospitante), sui legami familiari e di vicinato, sulla concentrazione territoriale (Chinatown, Little Italy, quartieri quasi ghettizzati), e sulle specializzazioni professionali (ethnic business: alcuni mestieri sono dominati da determinate nazionalità), il tutto per poter osservare quali sono le caratteristiche culturali che determinano una distanza con la società di accoglienza e che permettono di colmare lo strappo alla base della definizione iniziale di comunità immigrata.
La storia della Sociologia delle migrazioni ha le sue radici nella scuola di Chicago e in un’idea della modernizzazione che vede uno schema dicotomico tra un presente avanzato e urbano in cui si può parlare propriamente di “società”, ossia un aggregato sociale determinato da delle forze impersonali come l’economia, la cultura, la politica e i mezzi di informazione, e le “comunità” che rappresentano il passato e che diventeranno moderne percorrendo la strada che ha portato alla “società”. La “comunità” è caratterizzata da legami diretti come quelli familiari e di vicinato, tratti considerati dalla “società” arcaici. Questa differenza è ancora influente nel 1994, quando la definizione di inizio articolo venne scritta: noi, che studiamo, che facciamo ricerca, che accogliamo, siamo una “società” che studia chi arriva, che viene da una “comunità” considerata atavica e tribale, che deve lasciare indietro le sue tradizioni per potersi modernizzare a costo di grandi sofferenze. Questa concezione è ancora molto, molto presente nel discorso attuale sulle migrazioni.
A livello sociologico questo quadro ha portato a due filoni di studio: da una parte la sociologia che si occupa delle persone “normali”, studiate con metodi decontestualizzanti e impersonali, in cui si presuppone che a governare siano delle “grandi forze”, come l’economia e processi culturali più ampi studiabili dalle grandi categorie sociologiche; dall’altra la sociologia che si occupa delle persone “migranti”, molto vicina all’antropologia in quanto dedica molta attenzione al luogo di provenienza e ai rapporti umani, spesso adottando un punto di vista paternalistico. Michael Eve nel suo saggio scrive: «Mentre noi siamo mossi da una razionalità individualizzante, da “interessi” che dipendono dalla nostra appartenenza alle grandi categorie sociologiche (classe, genere, ecc), gli immigrati sono invece mossi da logiche familiari e comunitarie». Eve cita poi un suo studio su giovani universitari/e francesi che mostra come siano mossi/e da logiche comunitarie simili a quelle che la sociologia ha proiettato sulla comunità immigrata, smontando e distruggendo i preconcetti che impediscono di vedere la migrazione come una realtà umana, rilegandola all’alterità.
La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II di Fernand Braudel, uno dei capisaldi della storiografia mondiale, è un buon esempio di come questa alterità influenzi i meccanismi di analisi: uscito nel 1949 e rivisto più volte negli anni successivi, in esso il Mediterraneo è presentato come un ambiente unitario che può essere studiato nello stesso schema di ragionamento; la prima parte è dedicata agli ambienti, la seconda ai cambiamenti dei grandi gruppi e la terza agli eventi, alla storia propriamente detta. Nella parte sull’ambiente si trovano delle informazioni interessanti sulle migrazioni: con una mappa che mostra i rilievi montuosi, Braudel argomenta che le migrazioni altro non sono che “montanari” che scendono verso la pianura alla ricerca di fortuna nelle città. Le montagne mediterranee sono, per Braudel, caratterizzate da un radicale arcaismo, dove la storia è praticamente ferma, regioni povere che fanno da «riserve di proletari»; esse sono quindi un ostacolo per la civilizzazione («La montagna respinge la grande storia») ma allo stesso tempo sono i luoghi della massima libertà perché lontani da obblighi e guerre che accadono nelle pianure, che è dove avviene la vera evoluzione storica. Da qui la visione della montagna come “fabbrica di uomini” per l’uso altrui, un luogo di costante squilibrio tra scarse risorse e una popolazione troppo numerosa che si sfoga scendendo in città e fornendo a essa abitanti. Questo è il punto di vista delle città che vedono arrivare uomini e donne poverissime, pronti e pronte e fare i lavori più umili; il luogo di arrivo e da cui viene l’osservazione si considera superiore alla comunità migrante.
Questa fortunata immagine fornita da Braudel è stata fatta a pezzi dall’antropologia successiva, che ha unito il metodo antropologico allo studio degli archivi conservati nei villaggi delle montagne (per citarne due: Robert K. Burns Jr, The Circum-Alpine Culture Area: A preliminary View, e Pier Paolo Viazzo Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi) e ha rovesciato la tesi di Braudel fornendo un’alternativa, quella del “modello alpino”. Ora non si presuppone più che il migrante sia il poveraccio che arriva nelle grandi città, si va innanzitutto a vedere le condizioni di partenza che portano a questo spostamento. Viene così fuori un modello di emigrazione stagionale particolarmente complesso, dove c’è una profonda collaborazione tra la componente maschile della comunità, che sta via per lunghi periodi, e la componente femminile, che rimane nel villaggio. Chi si sposta è un professionista specializzato che presta il proprio lavoro qualificato alle grandi città per qualche mese l’anno per accumulare denaro che serve a integrare l’economia della propria comunità, in cui si viene così a creare una “economia dell’assenza” in cui le donne sono cittadine a tempo pieno e gli uomini a tempo parziale; ciò mette sulle spalle delle donne il compito di mantenere il villaggio e la casa mentre i loro compagni emigrano in città, per i quali lo spostamento rappresenta un vero e proprio momento di passaggio all’età adulta in cui viene loro insegnato non solo a vivere in pianura, ma anche la conoscenza delle strade migliori per massimizzare le proprie competenze e i guadagni. Non solo scalpellini, muratori e lavoratori manuali, ma anche notai e maestri formatisi in luoghi che hanno livelli di alfabetizzazioni maggiori di quelli della pianura. Nelle aree montane si trovano quindi molte specializzazioni che vanno poi a influenzare i movimenti migratori, che diventano così fattore di mobilità nella gerarchia economica e sociale del villaggio. Al contrario di Brudel, quindi, l’immigrazione non è un’ultima spiaggia per famiglie povere, ma una strategia imprenditoriale vera e propria che spiega anche la sovrappopolazione dei villaggi montani, che riescono a mantenere tante persone grazie a questo sistema economico stabilitosi nei secoli.
Le migrazioni di cui parliamo oggi non sono poi così tanto diverse: ciò che ci impedisce di vedere la loro complessità è il nostro pregiudizio. Come leggere quindi, alla luce di quanto appena illustrato, le politiche migratorie attuali e del passato? Quali sono le condizioni di possibilità e pensabilità di alcune misure rispetto ad altre?
Ciò che succede oggi in Italia è un riflesso locale di movimenti molto più ampi che hanno a che fare con il rapporto tra livello politico e livello sociale, tra autorità e fenomeni dal basso. In genere pensiamo che le politiche migratorie siano atte a chiudere, a selezionare; difficilmente si pensa che esse, in realtà, impongono l’apertura delle rotte, e ciò è vero già a partire dall’Età moderna con la tratta atlantica degli schiavi: una politica migratoria coatta, che con la forza espianta milioni di persone dalle loro case e le riduce a possesso per coltivare terre che saranno poi messe a profitto per i mercati europei. Generalmente, questo aspetto della storia mondiale non viene affrontato nella contemporaneità, illudendosi che le migrazioni dell’Otto e Novecento fossero tutte libere. In verità il grosso della tratta degli schiavi avviene nel passaggio tra Settecento e Ottocento, ed è alla base del mondo contemporaneo anche e soprattutto come creazione coatta di movimento.
Alla fine della tratta, con le leggi che lentamente mettono a bando la schiavitù, essa verrà sostituita da una mobilità più o meno coatta alla stessa maniera: i coolies erano lavoratori, soprattutto cinesi e indiani, vincolati a causa di debiti al lavoro forzato per un certo numero di anni nelle Americhe, impiegati soprattutto nelle miniere o nelle coltivazioni. Dopo le Guerre dell’oppio e l’apertura forzata della Cina ai mercati internazionali — evento erroneamente narrato come positivo dalla storiografia — sono “messi in circolazione” moltissimi lavoratori e lavoratrici asiatiche, e non tardano ad arrivare i primi interventi politici discriminanti su base razziale che individuano nell’immigrata/o non-bianco una persona da fermare. Nel 1850, con la corsa all’oro che invoglia a migrare per lavorare nelle miniere, la California istituisce la tassa sui minatori stranieri, mentre cinque anni dopo lo Stato di Victoria, in Australia, mette un limite allo sbarco di lavoratori/lavoratrici cinesi — quest’ultima legge mette ben in chiaro che ci si riferisce a persone asiatiche, escludendo dalla definizione la popolazione bianca. Drawing the Global Colour Line: White Men’s Countries and the International Challenge of racial Equality di Marilyn Lake e Henry Reynolds sottolinea come le prime politiche migratorie razziste avvengono in California e Victoria per via del rapporto tra “i Paesi degli uomini bianchi” e “la sfida internazionale della razza”, ossia perché è molto forte il senso di autodeterminazione democratica: la democrazia è alla base della discriminazione perché si era convinti che ci si dovesse autogovernare — Victoria e California avevano una forte tensione con i rispettivi governi centrali — e ciò può avvenire solo se c’è omogeneità di razza bianca, di origine europea con un determinato stile di vita. Le/gli asiatici erano considerati di razza inferiore, per il loro aspetto e le loro tradizioni; pertanto potevano essere respinti in barba ai trattati che assicuravano la libertà di movimento. Su questa base negli Stati Uniti vennero approvate poi leggi che cercheranno di limitare sempre di più l’immigrazione asiatica: il Chinese Exclusion Act del 1882, il Japanese Gentlemen’s Agreement del 1907, l’Asian Barred Zone del 1917; i Quota Acts del 1921 e 1924 estenderanno questo atteggiamento anche al resto del mondo che non fosse americano, e andranno a impattare soprattutto la comunità immigrata italiana e dell’Europa dell’Est. I Quota Acts altro non sono che antenati delle moderne leggi che cercano di limitare l’ingresso delle persone.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
