La strada (The street) è la prima opera pubblicata da Anna Houston Lane, conosciuta come Ann Petry, nel 1946 e rappresentò subito un grande successo: fu infatti il primo romanzo di una autrice afro-americana a superare il milione di copie vendute, le fece vincere l’Houghton Mifflin Literary Fellowship e oggi è considerato un classico.
Nata il 12 ottobre 1908 nel Connecticut, a Old Saybrook, e morta il 28 aprile 1997, Petry non rappresenta il caso di una ragazza emarginata e povera, niente affatto; il padre è farmacista, la madre gestisce un negozio (il classico drugstore) e la famiglia appartiene a quella che negli Usa si definisce middle-class; lei è la più giovane di tre figlie e può studiare, fino a laurearsi in Farmacia, anche se l’ambito letterario le sarebbe stato assai più congeniale. Da notare che era nipote della prima farmacista afro-americana dell’intero Stato, Anna Louise James, e questo può dar l’idea di quanto fosse aperta ed evoluta questa piccola comunità. In una intervista al Washington Post, molto più tardi (1992), la scrittrice ebbe a dire, a proposito delle donne della sua famiglia, che «non è mai venuto loro in mente che c’erano cose che non potevano fare perché erano donne». Nel 1925, quando si diploma, Ann è l’unica studente afro-americana; la madre è una persona intraprendente e gestisce proprie attività, ma, pur vivendo in un ambiente tranquillo e tutto sommato protetto, non mancano le discriminazioni ai danni dell’intero nucleo familiare, dalle offese più banali alla richiesta di non mostrarsi sulla spiaggia. Dopo la laurea, dal 1931 al 1938 Ann rimane a lavorare con i genitori, ma poi prende il volo e si trasferisce con il marito a New York dove inizia la carriera di giornalista e scrittrice. Il nuovo cognome le deriva dal matrimonio con George Petry da cui avrà la figlia Liz.

Nonostante già collabori con riviste e quotidiani, come The People’s Voice e The Amsterdam News, e abbia pubblicato alcuni racconti, vuole perfezionarsi e studia scrittura creativa alla Columbia University. Lavora pure in un doposcuola ad Harlem e questo le apre la mente: capisce cosa vuol dire abitare in un’area degradata, nella 116th Street, e ogni giorno confrontarsi con la miseria, i pregiudizi e il razzismo. Riceve la spinta a scriverne, perché nessun altro nel quartiere avrebbe potuto farlo. Così nasce questo magnifico romanzo: La strada, ristampato a distanza di tanti anni da Mondadori nel 2020 (traduzione di Manuela Faimali).
Nel 1948 Ann ritorna nel paese di nascita, dove rimane per il resto della vita, e continua a pubblicare racconti per adulti e per l’infanzia e romanzi, fra cui Country Place (1947) e The Narrows (1953), ma non troverà più il successo dell’esordio, che è giustamente ritenuto il suo capolavoro. Tiene lezioni in varie università ed è membro dell’American Negro Theater.




Oltre venti anni dopo la sua morte, nel 2018, la scrittrice Tayari Jones e l’attivista Jose Gonzales hanno acceso nuova luce su Petry, chiedendo per la sua attività letteraria maggiori riconoscimenti e un ricordo duraturo. Nel 2019 la Library of America, casa editrice senza fini di lucro, ha ripubblicato in un volume le sue opere più significative.
L’originalità del romanzo di cui stiamo parlando è spiegata assai bene nell’introduzione di Tayari Jones all’edizione italiana, originalità che negli anni trascorsi non gli ha fatto perdere smalto, tutt’altro. Innanzitutto nel 1946 la letteratura afroamericana era solo maschile, al femminile non era neppure immaginata; poi Petry arrivava dal New England ma aveva scelto un’ambientazione ben diversa: questo non è un romanzo di costume e Harlem non costituisce l’epicentro delle lotte sociali e politiche, ma piuttosto, per la protagonista Lutie, «il crudo antagonista che rappresenta una confluenza di razzismo, sessismo, povertà e fragilità umana». Lutie, infatti, è una donna tradizionale, che ha in mente un sogno che non si realizzerà; è profondamente americana, ma è nera, e i due termini non sempre vanno d’accordo. Il fatto che le copertine del libro, nel lungo lasso di tempo intercorso dalla prima edizione, siano tanto varie e raffigurino la protagonista ora in un bell’abito rosso, ora abbracciata al figlioletto, ora con un castigato tailleur, con relative didascalie per attrarre il pubblico, secondo Jones spiega in parte la varietà dei temi trattati, la difficoltà di etichettare Lutie, la complessità dei personaggi. D’altra parte Lutie è slanciata, piacente, con lunghe gambe, e ama essere curata, indossando scarpe con il tacco, guanti e cappellini, visto che non svolge un mestiere umile. Jones si spinge ad affermare che Petry è una pioniera del thriller letterario perché nel romanzo non mancano sesso, violenza, suspense, ma la scrittrice è molto di più: diviene una acuta e sagace analista della società nera; «analizza gli stereotipi uno dopo l’altro e li calpesta».

Fino dalle prime pagine l’impatto è folgorante: quel vento sfacciato fa vorticare ogni cosa e Lutie Johnson, libera dal marito traditore, con il figlio a carico, cerca una casa a prezzo ragionevole. Ma cosa potrà mai trovare con il magro stipendio se non un alloggio fatiscente ad Harlem in un palazzo malmesso? In breve facciamo conoscenza con i futuri vicini: la tenutaria di una specie di bordello, sempre in agguato alla finestra, e il portinaio, da subito preso dalla bellezza e giovinezza della donna, a cui rivolge pensieri concupiscenti e vera brama sessuale. Questa è una chiave del testo: non solo il razzismo, le differenze sociali, i rapporti fra lavoratrice nera e padrona bianca, gli sguardi di sufficienza degli uomini bianchi, comunque attratti e convinti della leggerezza delle donne di colore, ma anche la continua battaglia per mantenere la propria indipendenza, per lavorare onestamente, per non cedere a facili lusinghe, per non essere vittima di uomini violenti e spesso nullafacenti. Molto significativo il momento in cui Lutie si arrabbia con Bub, il suo bambino, che ha messo su un modestissimo banchetto di lucidascarpe: lo schiaffeggia e lo rimprovera perché è convinta che i neri, se così cominciano, poi saranno schiavi tutta la vita. Non è ciò che vuole per il figlio, come non ha voluto per sé, lottando strenuamente, liberandosi del peso del marito disoccupato, migliorandosi, studiando la sera per non essere la serva di nessuno, allontanandosi da un regime familiare distorto e pericoloso. Così procede il testo, scritto in terza persona ma con punti di vista interni a seconda dei personaggi; di solito seguiamo le azioni, i pensieri, le riflessioni, gli sguardi acuti di Lutie, ma talvolta seguiamo l’andamento dei comprimari, primi fra tutti lo squallido portinaio Jones che ha un solo obiettivo nella sua mente distorta e Min, la poveretta che coabita con lui, sopportata perché utile, pure brutta e sgraziata, che risparmia da anni per comprarsi la dentiera ed è disposta a ricorrere ai magici servizi di una specie di “profeta”. Intorno a loro lo squallore di un quartiere in cui tutto è abbandono, sporcizia, miseria. «Ripensò ai negozi. Tutti ― macellerie, mercerie, banchi dell’ortofrutta ― tutti vendevano gli avanzi, gli scarti, merce assurda e invendibile, rifiuti e rimasugli destinati proprio ad Harlem». D’altra parte l’esistenza quotidiana di Lutie, e della gente che vive lì, è dominata da un unico, assillante pensiero: i soldi che non ci sono, con i quali fare i conti davvero: «Sentiva la parola “economico”, “economico”, economico”, anche mentre dormiva. Dominava tutti i suoi pensieri. Tagli di carne economici, sapone per il bucato giallo economico, lievito in formato convenienza perché era economico, patate bianche perché erano economiche e sostanziose, succo di pomodoro al posto di quello d’arancia perché era più economico; evitava persino di stirare le lenzuola per risparmiare elettricità».
Ma, nonostante tutto, nonostante i ricordi amari, il padre ubriacone, il marito irresponsabile, l’affastellarsi di una esistenza faticosa, monotona e triste, Lutie ha degli obiettivi, soprattutto per il bene di Bub, il figlio di otto anni che si rammarica di dover lasciare varie ore da solo, quando esce da scuola, preda di persone poco raccomandabili. La donna aspira a una casa più confortevole, a un lavoro meglio retribuito, a un futuro di cantante al casinò; forse il sogno americano si avvererà anche per lei. In questo il romanzo è incredibilmente moderno, sembra scritto ieri, sia per i temi sempre attuali che affronta, sia per lo straordinario scavo psicologico, sia per la qualità assoluta della sua prosa, ora ironica e sarcastica, ora delicatamente descrittiva, ora cupa e desolata, che ci accompagna di pagina in pagina con la voglia di procedere, sperando che la tendenza si inverta, qualcosa cambi, uno spiraglio si apra. Invece arrivano nuove delusioni, al casinò potrebbe cantare perché è bella e brava, ma gratis, magari con qualche regalino di cui non sa cosa farsi, non è di orecchini che ha bisogno! Anche in altri locali i bianchi hanno pretese su di lei: «Sa, una bella ragazza come lei non dovrebbe preoccuparsi dei soldi ― disse a bassa voce. Lutie non rispose, e lui proseguì: ― Anzi, se lei e io potessimo stare insieme un paio di notti alla settimana ad Harlem, quelle lezioni non le costerebbero un centesimo. Nossignore, neanche un centesimo. […] Ecco la razza superiore, si disse, dagli una bella occhiata: capelli neri e oleosi; corpo flaccido e disgustoso; macchie d’unto sul gilè; colletto della camicia stropicciato; cenere di sigaro sul completo; occhietti da maiale inghiottiti dal grasso del viso». E si assiste pure a episodi di violenza, intesa come aggressione sessuale alla sua femminilità, o come prepotenza senza senso e perpetuarsi di possesso maschilista ai danni di donne fragili, fra cui Min: «Era perché se fosse rimasta lì sarebbe morta, non necessariamente ammazzata da Jones, non perché quel posto non era più sicuro, ma perché stare rinchiusa con la furia di Jones in quello spazio angusto prima o poi l’avrebbe uccisa». Non è al sicuro neppure il piccolo ingenuo Bub su cui si riversa, in maniera trasversale, la vendetta del ripugnante Jones: se non può avere la madre, la sua vittima sarà il bambino. I fatti precipitano in un crescendo drammatico che non lascia speranza, in cui non c’è redenzione, non c’è innocenza, non c’è pace; si rimane senza fiato e senza parole di fronte a tanta disperazione, a tanto odio, a tanto dolore. Intanto sulla strada cade leggera la neve, in questo finale sconvolgente. «Attutiva i suoni. Faceva correre a casa la gente tanto che in breve tempo fu deserta, vuota, silenziosa. E avrebbe potuto essere una qualsiasi strada della città, perché la neve aveva depositato un manto sottile sui marciapiedi, sui mattoni dei palazzi vecchi e stanchi, oscurando delicatamente lo sporco, la spazzatura, l’orrore».

Ann Petry
La strada
Mondadori, Milano, 2007
pp. 218
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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
