Grembiuli neri e omologazione

Il potere ha sempre cercato di castigare il corpo femminile sia reprimendolo e infagottandolo in indumenti che ne celino le forme, il viso, i capelli (metafora dei peli pubici), sia esponendolo, come pezzo di macelleria a un tanto al kilo, agli sguardi maschili attraverso varie forme di pornografia (più o meno esplicita per esempio attraverso la pubblicità) e la prostituzione.
Negli anni Cinquanta, Sessanta e primi anni Settanta nella “cattolicissima” Italia si optava pubblicamente per la prima forma di controllo, lasciando ai vizi privati, ma non tanto, la seconda.
La scuola è notoriamente “maestra di vita,” dunque non faceva eccezione. Andare alle elementari significava mettersi il grembiule, al Lido di Venezia era bianco con fiocco rosa per le bambine e nero col fiocco blu per i bambini. Anche le maestre portavano un grembiulone nero, reminiscenza del Ventennio, mentre i maestri potevano vestire in “borghese” con giacca e cravatta. Il motivo ufficiale per imporre i grembiuli era duplice: da una parte si diceva servisse a celare le differenze di ceto sociale, dall’altra si sottolineava che il grembiule impediva di sporcare i vestiti con l’inchiostro, soprattutto quello di china…

Eh sì, le penne biro, elogiate da Piero Calamandrei nella Rassegna della stampa sovietica, nn. 8-9, 20 settembre 1948, erano state inventate nel 1938 da Lázló Biró. László, insieme al fratello György, aveva poi perfezionato la sua penna a sfera e ne aveva depositato il brevetto in Gran Bretagna sempre nel 1938; la Biro era stata quindi utilizzata dai navigatori dei bombardieri britannici durante la Seconda guerra mondiale, giacché i pennini usati fino a quel momento ad alta quota non funzionavano. I fratelli Biró, intanto, erano fuggiti dall’Ungheria nel 1940, ma non riuscirono a fare fortuna in Argentina, così vendettero il brevetto della loro penna a sfera al barone francese Bich che, nel 1953, creò il marchio Bic, che conquistò il mondo con le sue penne a sfera in plastica, vendute a prezzi bassissimi. Inizialmente la penna Bic venne molto osteggiata soprattutto perché non ci voleva nessuna abilità nell’usarla. Le maestre, fautrici indefesse della calligrafia, in particolare del bel corsivo, una delle mie nemesi scolastiche e causa del mio primo cinque in prima elementare, erano convinte che l’inchiostro e il pennino potessero insegnare ad allievi e allieve il modo giusto di arrotondare una “a” o di aggraziare una “f” secondo i canoni del buon impiegato pubblico.

Alunne di una scuola elementare degli anni Quaranta con gli orridi banchi monoblocco,
i calamai e le canne per i pennini (archivio Alinari)

Qui in Italia l’uso della penna Biro fu ostacolato a tal punto che, fino al 1961, nelle amministrazioni pubbliche e negli istituti di credito era vietato usarla: i documenti firmati con una Bic venivano addirittura rigettati. Tuttavia anche quando la Bic fu ammessa rimasero sacche di resistenza, in particolare tutti i documenti dell’esame di stato almeno fino agli anni Duemila dovevano essere scritti in inchiostro nero (una reminiscenza del vecchio inchiostro di china indelebile) pena la nullità per vizio di forma. Stando così le cose e la passione sfrenata della scuola italiana per le sgocciolanti penne a inchiostro, noi bambine/i impazzivamo con le Pelikan a stantuffo (le cartucce giunsero eoni dopo) se avevamo una famiglia benestante (non il mio caso) o con canna, pennino e calamaio sul banco (spesso riempito con i trucioli della matita), se il genitore guadagnava poco. Ovviamente il fatto che il grembiule di noi bambine fosse bianco faceva a pugni col concetto di “non sporcarsi” e infatti al primo uso dell’inchiostro quell’immacolato candore si trasformava in un campo di battaglia di macchie che nulla aveva a che invidiare a quello della Somme.

L’altra motivazione, che ancora va per la maggiore, era che il grembiule cancellava le differenze di censo e ceto sociale per cui anche “bimbe e bimbi poveri” non avrebbero dovuto vergognarsi dei polsini e dei colletti lisi o dei rammendi. Balla colossale dato che, anche se in teoria tutti uguali, essendo fatti su misura dalle sarte, i grembiuli si distinguevano per la qualità della stoffa, per le rifiniture dei colletti e dei polsini (semplici o con ricami o pizzetti), per i bottoni, per il nastro del fiocco, la lunghezza del grembiule che indicava, al di là di ogni ragionevole dubbio, se l’indumento era già stato indossato da un fratello o una sorella maggiore o no, ecc. C’erano mille piccoli dettagli che chi ne aveva i mezzi sfruttava per indicare con chiarezza se chi indossava quel grembiule era ricco o povero.

Alunne delle elementari negli anni ‘50, si notano la maestra col grembiule nero e
le “impercettibili” differenze di censo (la lunghezza del grembiule, il colletto, il fiocco)

I grembiuli delle bambine erano, come si è detto, meno standardizzati e permettevano ampie praterie di fronzoli che sottolineassero lo status della proprietaria, un “vantaggio” che non avevano i maschietti dato che, dai tempi di Lord Brummel, il vestito maschile doveva essere austero e privo delle frivolezze femminilizzanti caratteristiche dell’Ancien Regime.

Alle medie inferiori (quando le frequentai io non erano ancora obbligatorie e non c‘era stata la riforma della scuola media unica) e nelle scuole superiori veniva subito imposta una diversa omologazione maschile e femminile. I maschi erano liberi di vestirsi con abiti formali, ma personali (sempre dentro i canoni del decoro), alle fanciulle invece veniva imposto un grembiule nero senza più fiocco al collo.

Allievi delle elementari nel 1959 e studenti del liceo classico nel 1960
(i maschi senza grembiule, le ragazze con il grembiule nero)


La spiegazione non detta era ovvia: in un periodo della vita in cui il corpo si differenziava sessualmente, le bambine diventavano fanciulle e gli ormoni maschili schizzavano a mille, era necessario coprire il corpo femminile per evitare pericolosi desideri proibiti. Nel caso delle medie del Lido di Venezia, col senno di poi, ricordo la differenza tra la prof. di matematica che portava anche lei un grembiule nero informe di mussoliniana memoria (le insegnanti durante il Ventennio erano obbligate a portare un grembiule nero) e sua cognata (letteralmente), insegnante di francese, che vestiva in modo più “parigino” senza grembiule-scafandro.

Alunne delle superiori col grembiule nero, negli anni Sessanta

Il grembiule nero era obbligatorio per le ragazze anche al liceo. Ovviamente per noi che cominciavamo a mettere i jeans (non a scuola, per carità) e a desiderare un po’ di libertà, il grembiule era un oggetto di fastidio mal sopportato. Ricordo ancora un giorno che due bottoni davanti, da lungo tempo penduli, si staccarono definitivamente lasciando il grembiule aperto sul davanti. Proprio quel giorno entrò in classe per una comunicazione la preside. Ella entrava spalancando la porta di scatto e arrivava alla velocità della luce davanti alla cattedra cominciando a parlare con voce da adunata oceanica. Lo stile oratorio della preside era mutuato da quello del Duce, verso il quale, si capiva, aveva una chiara ammirazione e i di lei trascorsi bellici lo confermavano. Sia come sia, io ero seduta in primo banco e, ad un tratto, lo sguardo della preside, mentre prendeva fiato, cadde su di me e il mio grembiule aperto. Dimentica della sua comunicazione esclamò: «Tu cosa fai con quel grembiule aperto e quella collana rampante? Vuoi turbare i tuoi compagni e i tuoi professori?».

Ora all’epoca io ero una ragazzotta scialba e un po’ brufolosa con capelli ondulati biondo rossiccio per nulla di moda, in preda alla tipica fase esistenzialista per cui vestivo con maglioni col collo alto neri e gonne a pieghe nere alla Juliette Gréco e al momento avevo al collo una collana di pietre nere e verde scurissimo: in sintesi non avrei attizzato neppure uno che fosse stato tre anni in una piattaforma petrolifera. Senza darmi il tempo di replicare la preside mi sospese per tre giorni e mi buttò fuori dall’aula. Tornata a casa mio padre mi chiese cosa facessi a casa a quell’ora e io gli spiegai l’accaduto. Lui non solo non mi sgridò, ma fece un ghigno sornione e mi disse di dargli il grembiule incriminato che ci avrebbe pensato lui. Sempre sogghignando cucì i bottoni col filo di ferro spiegandomi che era un trucco imparato da militare, una necessità poiché, se avevi un bottone penzolante, non potevi andare in libera uscita. Il risultato fu che si bucarono per usura i gomiti del grembiule, ma i bottoni rimasero al loro posto per tutto il mio periodo del liceo finché, fatto l’esame di stato, io e qualche altra bruciammo quello che era ormai uno straccio (ma con i bottoni) in un falò liberatorio.
Poi mi iscrissi a chimica e passai dal camice nero a quello bianco, ma quello serviva a non crivellare di buchi i vestiti quando si sbagliava qualcosa in laboratorio e non lo vissi mai come un’imposizione.
Il grembiule nero rimase obbligatorio per le ragazze fino al femminismo degli anni Settanta quando le allieve degli Istituti superiori di Padova cominciarono a organizzarsi.

”Siamo Felici” Volantino di Lotta femminista del 2 marzo 1973

«SIAMO FELICI. Siamo felici di farci considerare soltanto per i nostri “occhi profondi” o per le nostre “gambe” e non per la nostra intelligenza. Siamo felici di sapere che ci aspetta il matrimonio, che metteremo la nostra laurea nel cassetto per diventare le serve, per di più non retribuite, di nostro marito e dei nostri figli; e anche se volessimo lavorare fuori casa, ammesso che si possa trovare un lavoro, siamo felici di sapere che non ci saranno asili nei quali mettere i nostri figli e che, alla fine, per meritato riposo, troviamo tutti i lavori di casa da fare, con l’appoggio spirituale del marito che guarda tranquillamente il telegiornale.
Siamo talmente felici che abbiamo deciso di riunirci per discutere e analizzare e cercare di cambiare questa situazione» (Volantino di Lotta femminista del 2-3-1973).

Ovviamente la lotta al grembiule nero divenne uno dei punti irrinunciabili della presa di coscienza e della lotta, grazie anche all’azione di alcuni presidi come quello del Liceo artistico Piero Canal di Padova, che nel 1976 di fronte alle lotte delle sue allieve scrisse una lettera alle famiglie in cui, tra l’altro, si diceva che le femministe sostenevano «l’abolizione della stessa base biologica della differenza dei sessi, attraverso un ritorno alla ‘perversità polimorfa’, l’introduzione di forme di riproduzione artificiale, l’eliminazione del tabù dell’incesto e dell’omosessualità». La risposta delle allieve fu di organizzare feste femministe nelle scuole. Il risultato fu che, zitti zitti, presidi e professori non imposero più il grembiule nero che rapidamente scomparve insieme al suo lugubre ricordo.
Finalmente le donne potevano andare in giro senza gabbie di stoffa che ne imprigionassero i corpi, ognuna poteva vestirsi come voleva, la libertà di presentarsi abbigliate a piacere… Sembrava che fosse così, ma in realtà i poteri forti avevano ben altre frecce al loro arco, ma questa è un’altra storia, una storia degna di un capitolo tutto per sé.

Sciopero e volantinaggio delle allieve delle superiori per l’8 Marzo 1975

A corredo di questo mio intervento ne allego un altro di Carla Manfrin, una donna del nostro gruppo femminista “Centro Femminista” che seguì un percorso scolastico diverso dal mio.
«Davvero, la storia dei grembiuli nella nostra adolescenza è stata una storia pesante. Anche se, a volte, bisogna riconoscerlo, nei turbamenti di quell’età rispetto a un corpo in cambiamento rapido e inaspettato — non sempre accettato, non sempre piaciuto — quella stoffa nera e informe aiutava e essere meno esposte al giudizio prima di tutto di sé stesse e poi degli altri/e.
Ma la storia del grembiule era iniziata anche prima, a dire il vero. Da me, nella Bassa padovana, l’uso del grembiule nero cominciava in terza elementare: prima era bianco per le bambine e azzurro per i bambini, in entrambi i casi con l’immancabile fiocco, rosa per le alunne e blu per gli alunni. Dalla terza elementare si passava a un bel grembiulone lungo e ampio (in crescere, si diceva, così avrebbe seguito l’andamento della statura senza ulteriori spese) per le ‘femminucce’ e una casacca nera per i ‘maschietti’, sempre con i fiocchi rosa e blu a differenziare ulteriormente i sessi. La mia mamma era maestra e anche lei indossava il grembiule nero con un colletto bianco candido, lei come tutte le altre maestre. Nella scuola del mio paese nessun maestro è mai arrivato, immagino perché forse gli uomini potevano scegliere sedi più prestigiose di un piccolo paese sperduto ai confini dell’impero…
La faccenda si complicò, nei primi anni Sessanta, alle medie e alle superiori, per me che ero finita in collegio, un collegio statale femminile dal nome altisonante: Educandato. Le regole imponevano che si andasse a scuola, noi educande, con il solito grembiule nero la cui lunghezza era però rigorosamente stabilita e controllata e che era, ovviamente, ben al di sotto del ginocchio. Era per fortuna sparito il fiocco che però era stato sostituito da un immacolato colletto di piquet, agganciato con dei bottoni al colletto vero e proprio del grembiule in modo da poterlo staccare e agevolmente sostituire perché fosse sempre bianchissimo. Anche le compagne ‘esterne’, cioè quelle che frequentavano solo la scuola ma non erano educande, indossavano il grembiule nero, ma potevano concedersi qualche libertà in più sul taglio, la lunghezza, la scelta dei bottoni e delle finiture.
Anche per questo a loro noi facevamo un po’ pena; ce lo dicevano con le parole e con gli sguardi. Segno, penso io ora, che era chiaro a tutte noi, interne ed esterne, come l’imposizione del grembiule fosse arma di sottomissione. Arma che, per noi educande, continuava ad agire anche nel pomeriggio quando, nella stagione invernale, anche in collegio era previsto il grembiule nero (sempre lo stesso), ma dopo le vacanze di Pasqua, una volta passate dalla scuola al collegio, ci si poteva togliere il grembiule nero, però si doveva indossare il ‘grembiulino estivo’ che era uno scamiciato che veniva indossato sopra una maglietta a maniche corte di lana o cotone rigorosamente blu. Di grembiulini estivi bisognava averne due, per il cambio settimanale, uno nei toni dell’azzurro e uno in quelli del rosa in quanto tinte poco vistose adatte a fanciulle per bene. La stoffa era così buona che ancora ne uso uno quando d’estate preparo la salsa di pomodoro…
I vestiti omologati, ovviamente, non si fermavano ai grembiuli. Quando uscivamo per qualche passeggiata o per la messa domenicale in Duomo, d’inverno dovevamo indossare il cappotto blu, il basco blu, i guanti di pelle neri e nelle altre stagioni un tailleur a Pied de Poule bianco e blu composto di gonna a pieghe, maglietta blu con sopra una giacca della stessa stoffa della gonna; erano graditi i guanti di pelle bianca ma in poche li indossavano. Non ripeto quello che già Flavia ha ben spiegato sulla funzione di questo abbigliamento imposto. Voglio solo precisare che nei collegi femminili il controllo andava molto più in profondità: non era ammessa biancheria intima se non assolutamente bianca e il comando si è impresso, almeno per me, talmente in profondità, che uso ancora biancheria prevalentemente bianca e che l’acquisto di mutande o reggiseni colorati ha sempre comportato per me una riflessione in più».

Sono ritornata a scuola nel 1973 come maestra elementare in una scuola sperimentale in cui solo la maestra anziana ha continuato a indossare il grembiule nero, scandalizzata dalle nostre lotte di giovani insegnanti convinte di cambiare la scuola e il mondo, lotte per uscire dal controllo e dall’uniformità anche pretendendo che le alunne e gli alunni non portassero i grembiuli. In quel paese, anch’esso sperduto ai confini tra le province di Padova e Vicenza, la maestra anziana, tuttavia, in stretta alleanza con il prete e i notabili del paese, riuscì a mantenere, naturalmente per le ragazze, l’uso del grembiule.
Trovammo altri modi per aggirare l’ostacolo: grandi grembiuloni spesso derivati da vecchie vestagliette da cucina delle mamme da usare per la pittura e nei laboratori, insomma una rivisitazione creativa del grembiule d’ordinanza in cui sparivano le differenziazioni per sesso e ricompariva l’uso funzionale del grembiule ‘artigiano’.
Poi, finalmente, le giovani donne si sono liberate da questo obbligo e da questo controllo alla ricerca, anche sui banchi di scuola, delle espressioni senza vincoli esterni della propria personalità e del proprio desiderio.

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Articolo di Flavia Busatta

Laurea in Chimica. Tra le fondatrici di Lotta femminista (1971), partecipa alla Second World Conference to Combat Racism and Racial Discrimination (UN Ginevra 1983) e alla International NGO Conference for Action to Combat Racism and Racial Discrimination in the Second UN Decade, (UN Ginevra 1988). Collabora alla mostra Da Montezuma a Massimiliano. Autrice di vari saggi, edita HAKO, Antrocom J.of A.

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