Rosa D’Ascenzo, Maria Russ, Delia Zarniscu, Ester Palmieri, Elisa Scavone, Annalisa Rizzo, Maria Ferreira, Aneta Danecik, Li Xuemei, Sofia Stefani, Ignazia Tumatis, Manuela Patrangeli, Nabi Roua, Maria Campai, Maria Arcangela Torturo, Patrizia Russo, Rosetta Romano, Sara Buratin, Joy Omoragbon, Cristiane Angelina Soares De Souza, Saida Hammouda, Giada Zanola, Serenella Mugnai, Anna Rita Morelli, Lucia Felici, Celeste Rita Palmieri, Aurora Tila… Sono solo alcuni dei nomi delle oltre novanta donne che, nel 2024, sono state vittime di femminicidio in Italia.
Si tratta di un elenco spaventosamente lungo che restituisce la pervasività di un fenomeno di cui, ancora troppo spesso, si tendono a occultare (fino alla negazione) le radici socioculturali e storiche.
Coniato nel 1976 dalla sociologa e criminologa Diana Russell, il termine femminicidio inizia a circolare in Italia a partire dal 2008 trovando accoglienza nei dizionari l’anno seguente. Il vocabolo viene oggi impiegato, nella sua accezione più corretta, con il significato di «violenza letale di genere contro le donne» (Mandolini, 2020). Parafrasando il lessema, Mandolini ne rivitalizza la carica semantica e ne rende manifesta, iscrivendola nel concetto stesso di femminicidio, la ragione che si cela dietro l’uccisione di una donna in quante tale: il mantenimento di quell’ordine culturale di genere in cui il femminile occupa una posizione subordinata e subalterna rispetto al maschile.
Come ogni fenomeno di ordine sociale, il femminicidio gode di una sua manifestazione linguistica e discorsiva che è socialmente determinata e determinante: stasi o mutamento del sentire collettivo si riverberano nelle pratiche discorsive che, viceversa, hanno il potenziale per determinare evoluzioni o ristagni sociali (Moscovici, 1984; Abis & Orrù, 2016). Guardare al modo in cui i giornali costruiscono discorsivamente le narrazioni concernenti la violenza letale di genere contro le donne è, dunque, un utile strumento per monitorare il perpetuarsi, o meno, delle discriminazioni e degli stereotipi relativi ai ruoli, ai comportamenti e ai sentimenti che si ritengono più adatti per gli uomini e per le donne nella società più ampia.
Il contesto sociale dei primi dieci anni del Duemila, segnato dalla ribalta del movimento femminista (femminismo di quarta ondata) e dalla notorietà che il femminicidio ha acquisito nella sfera comunicativa italiana, ha favorito l’apertura di un metadiscorso sulle strategie adottate dal giornalismo nella copertura delle notizie concernenti la violenza contro le donne. La necessità sentita era di indagare le cornici interpretative (frame), il linguaggio e, in generale, il trattamento che i giornali riservavano alle notizie afferenti al fenomeno con l’obiettivo di individuare e di mettere a punto buone pratiche e retoriche dure a morire.
Si trattava, e si tratta, di comprendere se e quanto la comunicazione mainstream fosse in grado di rispondere all’urgente domanda pubblica (e scientifica) riguardo al riconoscimento della determinazione politico-sociale del femminicidio (Lalli, 2021). Ma non solo. In gioco vi era, e vi è, la possibilità di misurare il grado di mutabilità dei giornali che, in quanto dispositivi a servizio dell’ordine simbolico patriarcale, possono cambiare forma e strategie per non soccombere di fronte all’avvento di un discorso femminista che rischia di metterlo in crisi (Mandolini, 2020).
Il campo d’indagine prospettato, così articolato e insidioso, ha reso necessaria l’adozione di approcci metodologi variegati: ricerche di stampo qualitativo si affiancano a quelle più propriamente quantitative e, spesso, le due impostazioni coabitano all’interno di una stessa indagine. Se i dati statistici-quantitativi sono indispensabili per avere contezza dell’ampiezza del fenomeno, quelli qualitativi consentono di indagare il posizionamento morale, valoriale e valutativo che la società assume rispetto al femminicidio.
Alla luce di quanto sostenuto da Norman Fairclough (1989), secondo cui l’aspetto cumulativo è uno degli elementi imprescindibili per inquadrare e interpretare il discorso su un fatto sociale e il ruolo che lo stesso esercita nella creazione di interpretazioni e schemi mentali nell’opinione pubblica, esaminare le ricorrenze con cui stereotipi, pregiudizi, strutture sintattiche, retoriche e discorsive trovano residenza nelle produzioni giornalistiche ci consente di comprendere il modo in cui i giornali contribuiscono a plasmare il discorso e le convinzioni sociali relative al femminicidio, riflettendo e, allo stesso tempo, forgiando il sentire comune rispetto al fenomeno (Orrù, 2024).
Similmente, l’analisi linguistica dei corpora e l’analisi critica del discorso, afferenti alla ricerca qualitativa, permettono di esplicitare il legame intercorrente «tra ideologia, linguaggio e potere/dominio sedimentato nelle strutture, nelle strategie e in altre proprietà del testo del discorso» (Stallone, 2023) e di esaminare la loro potenziale influenza nel modificare e/o autorizzare determinati comportamenti e pensieri (Krishnamurty, 2013). La dimensione qualitativa risulta anche necessaria per non cedere alle semplificazioni e restituire all’oggetto di analisi la sua connaturata complessità. «Il [la] giornalista difende il diritto all’informazione e la libertà di opinione di ogni persona; per questo ricerca, raccoglie, elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni dato o notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti».
Nell’adempiere al loro compito, le giornaliste e i giornalisti e sono investiti di una duplice responsabilità pubblica: promuovere o sminuire la visibilità di un evento; renderlo narrabile dandogli un nome (“ancoraggio”) e una concettualizzazione (“oggettivazione”) dei suoi aspetti caratterizzanti che si aggancino a quanto si ritiene condivisibile dal senso comune, dandone una spiegazione che renda socialmente fruibile la notizia (Lalli, Gius, 2016).
Attraverso questa teorizzazione si evince chiaramente come a dettare una narrazione pregiudizievole e confermativa dell’ordine di genere dominante non sia esclusivamente l’incapacità o la refrattarietà dei giornalisti e delle giornaliste a prendere le distanze da routines professionali e produttive consolidate e di successo (in termini di vendite), ma anche un pubblico che appare maggiormente appagato e interessato a racconti in cui persistono retoriche di spettacolarizzazione, svalutazione del femminile e che legittimano un’interpretazione del femminicidio come fatto privato, commesso da uomini che hanno perso il senno.
Dagli studi finora condotti sul racconto del femminicidio da parte dei quotidiani nazionali e locali (nella versione cartacea o online) emergono due principali modalità narrative del fenomeno: nella prima, dominante, la violenza letale di genere contro le donne viene ricondotta alla sfera privata e presentata come una questione attinente a vicende intime e familiari; la seconda (tematica), numericamente minoritaria e storicamente più recente, tematizza il femminicidio come la manifestazione di un continuum storico di violenza e pratiche oppressive e ne riconosce le radici sociali, culturali e politiche (Saccà, 2021).
I frames (cornici interpretative) attualmente utilizzati dai giornali per inquadrare il femminicidio continuano a essere quelli dell’amore romantico, della perdita di controllo e quelli che imputano la violenza letale di genere contro una donna a cause esogene. In tutti e tre i casi si tratta di strategie retoriche volte a de-responsabilizzare l’autore del crimine.
Per quanto concerne il frame dell’amore romantico, il suo utilizzo si esplicita nella messa in relazione del femminicidio con la dimensione dell’amore, della passione e della gelosia. Quando quest’ultima viene addotta come causa scatenante della brutalità del carnefice, si finisce per presentare il femminicidio come espressione di amore (Lalli, Gius, 2014).
Il fatto che, frequentemente, si usi l’espressione “crimine passionale” in luogo di femminicidio ne è la diretta riprova. Come efficacemente sintetizzato da Monckton-Smith, il delitto passionale è «caratterizzato da un’esplosione di violenza estrema diretta alla persona amata e in risposta a provocazioni che minacciano la stabilità di una relazione amorosa o romantica, che può essere considerato come una dimostrazione di amore profondo nei confronti della vittima». Se inquadrata in questo frame, la violenza letale di genere contro una donna rischia di fornire attenuanti per l’uomo e, di converso, di legittimare la colpevolizzazione della vittima che, suo malgrado, diventa corresponsabile del suo assassinio.
La colpevolezza del carnefice viene mitigata anche attraverso la strategia retorica consistente nel ricondurre il femminicidio a una perdita di controllo estemporanea, a un impulso istintivo o a un impeto d’ira improvviso (raptus). Tale cornice interpretativa è altresì impiegata per corroborare l’idea che il femminicidio sia un crimine difficilmente prevedibile e impossibile da prevenire e che sia l’esito di tensioni interne alla coppia.
Le difficoltà economiche, lo stato di disoccupazione, la depressione dell’autore della violenza e/o la sua dipendenza dalle droghe o dall’alcol hanno poco a che fare con l’omicidio da lui perpetrato, eppure il rimando a queste cause esogene è frequente al punto da essere percentualmente rilevante.
Narrazioni come queste tendono a de-responsabilizzare il carnefice, fino a incentivare nel pubblico un certo sentimento di magnanimità e vicinanza emotiva nei suoi confronti, e, per contro, a presentare la vittima come una co-colpevole.
Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
