La copertura giornalistica italiana del femminicidio. Parte seconda

Continuiamo il percorso di esplorazione della copertura giornalistica nazionale del femminicidio concentrandoci ora sulla descrizione del carnefice e della vittima.
Abbiamo visto come molti degli elementi di cui i giornalisti e le giornaliste si avvalgono per inquadrare le motivazioni del gesto producano l’effetto di ridurre la percezione di colpevolezza dell’autore del crimine (https://vitaminevaganti.com/2025/03/29/la-copertura-giornalistica-italiana-del-femminicidio-parte-prima/).

L’utilizzo di frames volti a minimizzare la volontarietà dell’atto criminoso è solo una delle tante procedure linguistiche discorsive con cui la stampa italiana de-responsabilizza il carnefice.
L’impianto mistificatorio della narrazione viene sostenuto anche attraverso stratagemmi quali epiteti disumanizzanti, descrizioni mendaci e strutture sintattiche che eclissano il responsabile dell’accaduto.
Le allusioni a stati d’animo alterati, determinati da malattie e/o problemi psichici o da abuso di alcolici e di sostanze stupefacenti, attenuano l’agentività dell’assassino, costruendo l’immagine di un soggetto portatore di alterità (Mandolini, 2020). Inoltre, ricorre con frequenza la descrizione del carnefice come una “bestia”, un “mostro”, un “orco” e delle sue azioni come mostruose e disumane, invece che come stupri, omicidi, vilipendio (Stallone, 2023).
I riferimenti alla pazzia, alla depressione o all’abuso di sostanze stupefacenti e alcol, così come il richiamo al campo semantico del mostruoso, corroborano l’idea che il femminicidio sia un atto compiuto esclusivamente da soggetti affetti da turbe psichiche e/o emotive. Una simile rappresentazione, oltre a teorizzare il femminicidio come un atto sporadico e isolato piuttosto che come fenomeno socioculturale, assolve anche la funzione di rassicurare l’audience: negando la relazione esistente tra la violenza letale di genere contro le donne e i rapporti di forza e le discriminazioni sottese nel legame uomo-donna, e in definitiva con la cultura patriarcale, si traccia una linea di confine noi-loro che consente al pubblico di prendere le distanze dai fatti e di misconoscere le proprie implicazioni nelle perpetuazione di quello stesso assetto che rende possibile e legittima l’uccisione di una donna in quanto tale.

La volontarietà dell’omicida viene ulteriormente attenuata in quegli articoli in cui si definisce il femminicidio come un “dramma”, una “disgrazia”, un infausto gioco del destino che ha colpito la vita della vittima. Questo processo viene portato alle massime conseguenze in tutti quegli enunciati dove si produce il totale occultamento del carnefice. Lo fanno ben notare Abis e Orrù che, nella loro analisi linguistica delle versioni online delle testate giornalistiche nazionali e locali (2016), mostrano come, tra le formule fisse tradizionalmente utilizzate dai giornalisti nell’intitolazione degli articoli inerenti casi di femminicidio, ricorra spesso il verbo flesso ma manchi «l’espressione diretta dell’agente in posizione di soggetto, che in questi casi il lettore può ricavare continuando la lettura».
Si tratta di quel meccanismo di “evitamento linguistico” (Romito), attraverso il quale la figura maschile, l’autore della violenza, viene eclissata nel racconto della violenza stessa.
Nonostante la presenza assidua di questa procedura enunciativa, nella maggior parte degli articoli è sull’omicida che si focalizza l’attenzione ed è a lui, e al suo entourage, che viene data parola. Le descrizioni del suo stato civile (data anagrafici, professione, residenza), del suo stato psico-fisico e dell’efferatezza del crimine da lui commesso sono particolarmente eloquenti e minuziosamente dettagliate. Il silenziamento imposto alla vittima è dunque duplice: reale, come effetto della morte cagionata dal suo carnefice, e simbolico, risultante dalla rilevanza marginale che viene data alla sua voce dai giornalisti e dalle giornaliste.

L’inserimento di istanze femministe nel corpo del testo (che si sostanziano nell’uso di strategie discorsive più rispettose e valorizzative dell’esperienza vittimaria), insieme alla fondazione di associazioni (come il Collettivo Giulia Giornaliste, 2011), alla promulgazione di manifesti (Il Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione, 2017) e di principi/doveri (Testo unico dei doveri del giornalista, 2021) volti a correggere il gap di genere e i bias cognitivi presenti nel discorso giornalistico, hanno contribuito ad attivare il cambiamento in atto, ma appaiono ancora insufficienti ad assicurare racconti che siano completamente scevri di distorsioni e stereotipi.
Permane, d’altronde, la tendenza a negare la soggettività femminile e a fare della sua storia un elemento accessorio rispetto a quella protagonista dell’assassino (Lalli, Gius, 2016). Contrariamente a quanto avviene per l’omicida, di cui è consuetudine riportare nome e cognome, la vittima viene chiamata solo con il nome e, in modo analogo, anche la sua professione viene celata.
L’irrilevanza che implicitamente si attribuisce a questi elementi, centrali nella costruzione del suo status di persona adulta ed autonoma (Saccà, 2021), è funzionale ad avvicinare emotivamente il/la lettrice alla vittima ma, insieme, produce l’effetto di privare la donna della sua soggettività.
Questo disconoscimento si esplicita anche nella tendenza a qualificare la vittima solo attraverso il riferimento alle sue caratteristiche sociodemografiche (straniera, italiana, giovane, madre) ed estetiche (bella, bionda, giovane).
Il processo di negazione attuato si estende fino all’oggettificazione della vittima (“accesa come una torcia”) e alla sua qualificazione in virtù della relazione sentimentale/parentale che la legava al suo carnefice.

L’agency della vittima, che sia riconosciuta o negata, sembra costituire il pretesto per sottoporla a un sistematico processo di vittimizzazione secondaria. Ne dà contezza Mandolini (2020), notando come ciò avvenga attraverso due procedimenti propri di pratiche discorsive opposte: «Quella patriarcale che connota la donna come persona di bell’aspetto, buona e indifesa e quella femminista che non evita di assegnare al femminile le qualità, attive, della volontà e della risolutezza». La prima pratica discorsiva si esplicita nel sessismo benevolo che permea le narrazioni in cui la vittima viene descritta come “docile”, “ingenua”, “indifesa”; in questo caso, la qualificazione della donna è rimessa alle parole di amici e parenti. La seconda, invece, caratterizza i racconti in cui la colpa del gesto viene attribuita indistintamente, se pur in filigrana, a entrambi i protagonisti della vicenda.
Il dualismo che contraddistingue la descrizione della vittima riguarda anche la polarizzazione che ne fa la stampa sulla base di comportamenti e atteggiamenti (Helen Benedict, 1994), identificandola attraverso l’opposizione virgin/good e vamp/bad. Mentre le prime vengono descritte come donne moralmente ineccepibili, meritevoli di indignazione collettiva, le seconde, all’opposto, sono descritte come soggetti di dubbia moralità e per questo potenzialmente responsabili di quanto accaduto loro (Lalli, Gius, 2014).

Quest’ultima tipologia descrittiva viene impiegata di frequente nei casi in cui la vittima è una prostituta. La stigmatizzazione sociale della prostituzione come pratica deviante (si badi bene per chi la esercita, non per chi ne usufruisce) si riflette così negli articoli di giornale dove si combina con la concezione stereotipica e discriminatoria delle donne straniere. La scarsa attenzione mediatica riservata a questi femminicidi, in ragione del loro limitato valore-notizia, e dunque della loro improduttività in termini di vendite, è sintomatica del bigottismo e del razzismo della nostra società e di una realtà che si intende occultare: se l’uccisione di una donna in quanto tale avviene anche in assenza di precedenti contatti, relazioni affettive e/o di legami sentimentali/parentali, l’inganno sociale per cui il femminicidio pertiene alla dimensione privata non è più perpetrabile, la demistificazione del fenomeno improrogabile.

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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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