Da qualche giorno è tornato d’attualità il tema del cognome materno a seguito della proposta (si fa per dire) dell’on. Dario Franceschini, dichiaratosi favorevole a una legge che imponga il solo cognome materno per le nuove nascite.
L’idea provocatoria dell’ex segretario del Pd ha prodotto, ahimè, un duplice (e triste) risultato: da un lato ha garantito all’autore della stessa qualche trafiletto sulla stampa per un giorno, dall’altro ha consentito alla maggioranza parlamentare di poter ridicolizzare l’argomento del riconoscimento della pari dignità tra sessi e del diritto all’identità personale del minore, facendo così retrocedere la già complessa discussione, sulla quale l’impegno di molte persone da anni trova difficoltà a essere preso sul serio.
La maggioranza ha così potuto dare sfogo a tutto l’armamentario storicamente utilizzato ogni volta che nel nostro Paese si discute di diritti civili, quelli a costo zero, su cui siamo sempre costretti a inseguire il resto d’Europa.
La questione del cognome, proprio per la sua apparente banalità, rappresenta l’esempio più emblematico di attaccamento della classe politica a qualsiasi posizione di potere maschile e dimostra l’incapacità del Parlamento di legiferare, anche se basterebbe semplicemente ascoltare le indicazioni della Consulta nelle varie sentenze a partire dal 2016.
Archiviata dunque la trovata di Franceschini, insostenibile per le stesse ragioni per cui non è più sostenibile il solo cognome paterno, va ribadito ancora una volta che nessuno afferma che riconoscere anche la componente femminile nel cognome di chi nasce costituisca la priorità assoluta su cui concentrare gli sforzi di un intero Paese, ma che d’altro canto quello delle priorità è un argomento usurato che serve solo a buttare la palla in fallo laterale come quando si tende a far arrivare la partita al novantesimo.
Anzitutto perché nove anni dovrebbero essere sufficienti: tanto è il tempo trascorso dalla sentenza n. 286/2016 della Corte costituzionale che ha consentito di aggiungere (o meglio posporre) il cognome della madre a quello del padre. Grazie a quella sentenza, la mia secondogenita ha potuto assumere fin dalla nascita anche il cognome di sua madre, cosa che era stata impedita alla primogenita nata nel 2015, per la quale fu invece necessaria un’istanza congiunta e motivata al Prefetto. Nessun automatismo ma una richiesta da sottoporre al vaglio dell’autorità amministrativa. Ancora adesso mi chiedo a chi noi genitori avremmo fatto male dando entrambi i cognomi.
In secondo luogo, basterebbe occuparsi di ciò che è giusto o sbagliato e magari mettere mano a materie su cui autorevoli organi come Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, su sollecitazione di persone in carne e ossa, hanno sancito che l’automatismo del patronimico è discriminatorio in quanto viola gli artt. 8 e 14 Cedu e anche gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione.
La discussione sulla possibilità di attribuzione del doppio cognome, su cui ormai si fa finta di discutere da molti anni, costituisce un punto di approdo che con fatica è stato raggiunto grazie all’evoluzione giurisprudenziale.
La sentenza n. 131/2022, in particolare, ha stabilito la regola che «il cognome del figlio deve comporsi con i cognomi dei genitori, salvo loro diverso accordo».
Se ora è dunque questa la regola, la sua disomogenea applicazione appare di qualche interesse per comprendere come la questione sia culturale. I dati del 2023 vedono circa 23.500 nuove nascite con doppio cognome, con la percentuale più alta che si registra tra le coppie miste formate da madre italiana e padre straniero (14,2%) e le coppie non sposate. Non sembra casuale se questa prassi fa più fatica ad attecchire in contesti più conservatori: si pensi al dato confortante di Milano, che potremmo definire in controtendenza, dove nel 2023 in circa 2.000 casi su 9.400 nascite è stato assegnato sia il cognome paterno che quello materno.
In attesa di una legge, il doppio cognome esiste, sia pure con punti interrogativi posti dalla Consulta e a cui il Legislatore non sa dare risposte. La nuova legge dovrà infatti «impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome»; in secondo luogo, «spetta al legislatore valutare l’interesse del figlio a non vedersi attribuito un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle».
Era il 27 aprile 2022 quando la Consulta scriveva queste condivisibili parole, dando due criteri entro cui muoversi e da recepire in un testo di legge all’apparenza semplice e scontato. Da allora sono trascorsi altri tre anni senza che il Parlamento abbia saputo chiudere un capitolo su una questione di civiltà, che non ha certo bisogno di trovate estemporanee, ma solo di un po’ di rispetto.
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Articolo di Sergio Tatarano

Avvocato e assessore comunale si è sempre impegnato per la promozione dei diritti individuali e delle libertà; ha promosso l’adozione del linguaggio non sessista in ambito amministrativo nonché le intitolazioni femminili di parchi. Ha pubblicato il saggio giuridico Fine vita: ragioni giuridiche a sostegno di una legge.
