Questa volta mi sono portata dietro mia cognata, che sa gestire molto meglio di me certe situazioni, avendole vissute in prima persona. La telefonata di Lucia non ha dato adito ad alcun fraintendimento: la situazione è grave e bisogna fare qualcosa subito. Sua figlia Beatrice non mangia da alcune settimane. Piange tutto il giorno, è pervasa da un’angoscia profonda che le lascia a mala pena le forze per respirare e dormire. Tutto il resto è resistenza e sofferenza, terrore immotivato e desiderio di morte. La sensazione chiara di non potercela fare e forse di non voler neppure più combattere. La causa un mistero, il decorso rapido e in continuo peggioramento. Neppure i farmaci sembrano fare alcun effetto.
Il medico è stato chiaro: Beatrice non va mai lasciata sola, di giorno come di notte. Lo stato depressivo è talmente profondo che c’è il concreto rischio che tenti di togliersi la vita. Non possiamo rischiare. Tanto più che Beatrice si trova nel fiore degli anni. Quando io e mia cognata Paola entriamo in casa, Lucia stringe Beatrice tra le braccia, la tiene sulle gambe come fosse ancora bambina, anche se ha appena superato l’età dell’adolescenza. L’accarezza, cerca di rassicurarla, mentre lei piange a singhiozzi e ripete convulsamente che ha bisogno di qualcuno che la sappia curare, che lei così non ce la fa più ad andare avanti.
La sua voce tradisce una nota infantile che ci spiazza, sembra davvero molto più piccola della sua età. Il digiuno prolungato non l’ha certamente aiutata: il suo corpo già esile si regge in piedi a fatica. Ma non posso farmi impressionare più di tanto, siamo qui per una missione di salvataggio. Bisogna essere pragmatiche e risolute. Per fortuna ho fatto la scout per quasi vent’anni. Mi siedo accanto a mamma e figlia, ci mettiamo tutte attorno al tavolo.
«Non ti chiedo come stai, perché si vede lontano un chilometro che sei uno straccio. Ma non ti devi vergognare: prima o poi lo siamo state tutte, almeno una volta, in uno stato pietoso. Mi sono permessa di portare con me una persona che credo potrà aiutarti. Si chiama Paola e quando aveva la tua età stava esattamente come stai tu in questo momento» dico a Beatrice, tentando di strapparla dal suo stato di disperazione senza appello. Lei mi ascolta, guarda mia cognata, ma sembra lontanissima. I singhiozzi rallentano quel tanto che basta per permetterle di dire «Voglio andare in comunità, voglio che qualcuno mi obblighi a curarmi, perché io da sola non ce la faccio».
«Lo so» interviene Paola «e so anche che adesso pensi che non ne uscirai mai più. Lo pensavo anch’io. Ma poi ho iniziato a mangiare un cucchiaio di pastina al giorno, poi a pasto, poi due e alla fine sono tornata a vivere».
«Perché succede?» le chiede Beatrice continuando a singhiozzare. «Eh, bella domanda. Non ne sono ancora certa, ma credo che per me sia vera la solita vecchia storia del non sentirsi abbastanza amate. Quando stai così male, non riesci a vedere la realtà per quello che è, ma la vivi per quello che senti. E io mi sentivo sola. Comunque, hai detto che pensi che la risposta al tuo problema sia la comunità? Se vuoi chiamiamo quella in cui sono stata io. A me è servita».
Detto fatto, Paola consulta Google, afferra il telefono e compone il numero. Parla con ben tre centralini, ma alla fine le passano la comunità terapeutica per disturbi alimentari alla quale mirava. La informano subito che posti convenzionati non ce ne sono, per il momento, ma se ne libererà uno tra un mese. In ogni caso si può entrare in struttura anche in regime privato. Quando ci dicono la cifra per trenta giorni di ricovero, ci guardiamo tutte e quattro come suore smarrite davanti a un indemoniato bestemmiatore seriale. Siamo sull’ordine dei diecimila euro. Molto più di un albergo stellato.
«Sa, ci sono inclusi gli psicologi, gli psichiatri, gli educatori, la mensa, le pulizie…» si affretta a precisare l’operatrice al telefono.
Beatrice si dispera di nuovo, il flebile lume di speranza che si era appena acceso in lei, scompare improvvisamente come la fiamma di un cerino dopo una folata di vento. Lucia si alza, va in cucina a parlare con suo marito e ritorna nel giro di quaranta secondi. «Ringraziando il Cielo possiamo permettercelo. Io e il papà siamo d’accordo: accettiamo» dichiara con un sospiro. Paola, al telefono, sbriga le pratiche per il ricovero, facendosi passare da Lucia tutti i dati necessari.
Oggi è venerdì. Lunedì Beatrice sarà in comunità. Io me ne resto lì a guardarla mentre, con una fatica immensa, stila una lista di cose da mettere in valigia. È concentratissima, sa che resistere altri due giorni in quello stato, a casa sua, non sarà uno scherzo. Ma sa anche che deve farcela, se vuole avere la possibilità di intraprendere un percorso di cura. Paola le spiega com’è organizzata la struttura, come sono gli orari, gli spazi, le stanze, le attività. Lucia non la smette più di ringraziarmi, come se avessi fatto un mezzo miracolo. Invece non ho nemmeno alzato un dito: l’unica cosa buona che ho fatto è stata chiedere aiuto alla persona giusta.
Mentre guardo le donne attorno a me trafficare con fogli e matite, provo una sensazione stranissima. Sono rimasta traumatizzata dallo scoprire i costi delle cure in strutture specializzate per chi non riesce ad entrare in regime di convenzione. Sono contenta per Beatrice, ma anche tristissima per tutte le mille altre ragazze o donne nella sua condizione, che magari non hanno le sue possibilità economiche. Che fine fanno? Chi si occupa di loro? Penso che la salute di tutti/e, indistintamente, sia così importante che non possiamo permettere che il nostro Paese scivoli sempre più rapidamente verso un modello di privatizzazione selvaggia delle offerte sociosanitarie. Cosa avrebbe fatto Beatrice se la sua famiglia non avesse avuto la possibilità di pagare i diecimila euro per il ricovero? Ce l’avrebbe fatta ad aspettare un altro mese? Per come l’ho vista, sinceramente credo che sarebbe morta, o ci sarebbe andata molto vicina.
Per fortuna ci sono ancora parecchi servizi che lo Stato o la Regione pagano alla popolazione per permettere a tutte e tutti di curarsi o di intraprendere un percorso sanitario senza costi insostenibili. Gran parte degli esami clinici sono gratuiti sotto i quattordici anni, per esempio. Moltissimi vaccini lo sono, alcuni farmaci per la fecondazione in vitro (che hanno costi altissimi), o per patologie croniche, per i post-trapianti ecc. Ci sono i Centri Psico Sociali, o i Consultori gratuiti per chi necessita di percorsi terapeutici di tipo emotivo o psicologico. Sono queste le cose che mi fanno essere orgogliosa di essere Italiana. Questi i primi veri pilastri su cui si basa una democrazia: la giustizia sociale, l’uguaglianza dei diritti, le pari opportunità. Ma per quanto ancora potremo portare avanti questo modello virtuoso di welfare? Col debito pubblico che continua a salire e i Governi che investono sempre meno su scuola e sanità, l’orizzonte, per tutte le Beatrici sparse per l’Italia, non è davvero dei più sereni.
Le pagine di questa rubrica raccolgono testimonianze di insegnanti di sostegno che hanno scelto di condividere con noi qualche riflessione sul loro lavoro e qualche episodio particolarmente emblematico del mondo dell’inclusione fuori e dentro la scuola. La Redazione ringrazia tutte/i coloro che hanno contribuito alla sua realizzazione, prestando la loro voce a Vitamine vaganti.
In copertina: foto di Christian Tasso, tratta dal libro Nessuno escluso, edito da Contrasto, novembre 2020.
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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, già docente di filosofia/scienze umane e consigliera di parità provinciale, tiene corsi di formazione, in particolare sui temi delle politiche di genere. Giornalista pubblicista, è vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile e caporedattrice della rivista online Vitamine vaganti.
