Avevamo concluso l’articolo dedicato alla rappresentazione giornalistica della vittima di femminicidio e del suo carnefice discutendo la scarsa rilevanza che si tende ad attribuire ai casi in cui la donna uccisa è una prostituta. Ma perché accade questo? Per quale ragione l’uccisione di queste donne fa meno scalpore? A cose si deve il limitato valore-notizia delle loro morti?
Definiamo la notiziabilità come «l’attitudine di un evento a essere trasformato in notizia» (Wolf, 2020), ovvero la sua capacità di interessare e coinvolgere i lettori e le lettrici.
Analizzando la copertura giornalistica del femminicidio, Lalli (2020) individua tre principali tipologie di violenza letale di genere contro le donne, ognuna caratterizzata da determinate strategie narrative e da criteri di valore-notizia differenti: a) femminicidi di «alto profilo», ad elevata notiziabilità, che riguardano soprattutto donne giovani, coinvolgono vittime multiple o presentano risvolti particolarmente efferati; b) le «tragedie della solitudine», a media notiziabilità, che riguardano principalmente vittime anziane; c) il racconto «quasi tipico del femminicidio, a scarsa notiziabilità, che presenta forme di routinizzazione del fenomeno».
Elementi quali l’efferatezza del crimine e la giovane età della vittima si prestano, meglio di altri, alle strategie di spettacolarizzazione e finzionali proprie del giornalismo di cronaca nera. Sono, infatti, frequenti i riferimenti alla letteratura di genere horror e alla narrazione a suspense (Mandolini, 2020). I rimandi alla prima categoria si concretizzano nell’uso di espressioni quali “film dell’orrore”, nella volontà di suscitare sensazioni della ripugnanza e del disgusto, nonché nell’insistenza sui particolari macabri. La costruzione a suspense si sostanzia invece nell’opposizione tra la vittima e il carnefice, tra moralità e immoralità (Carroll, 1996), attraverso l’esposizione concitata delle azioni.
Entrambe le strategie, pur coinvolgendo emotivamente i/le lettrici, non hanno la capacità di stimolare processi di rispecchiamento o di identificazione: la prossimità emozionale da esse ingenerata è esclusivamente di tipo partecipativo.
Nella selezione delle notizie, i giornalisti e le giornaliste sembrano, inoltre, applicare un doppio standard valutativo che considera i fatti alla luce del genere di protagoniste/i. Ne è testimonianza la diversa notiziabilità del femminicidio rispetto all’appartenenza nazionale degli attori coinvolti: altamente notiziabile se il carnefice è di origine straniera, scarsamente notiziabile se lo è la vittima. Si tratta di quello stesso meccanismo per cui l’ubriachezza rappresenta un deterrente per il riconoscimento della colpevolezza dell’autore e, di contro, un elemento avvalorativo di quella della vittima.
Con l’avvento del web 2.0 si è assistito all’affermazione di quella che Jenkins definisce la “cultura partecipativa” o “convergente”, un modello culturale in cui gli/le utenti agiscono non solo come consumatori ma anche come produttori, contribuendo alla diffusione di circuiti e di materiali informativi inediti.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin, la studente di 22 anni uccisa l’11 novembre del 2023 da Filippo Turetta, suo coetaneo, consente, in virtù del clamore mediatico generato e della sua elevata visibilità in diversi canali mediali, di riflettere sulle nuove modalità di fruizione e di produzione dei contenuti.
L’attenzione al caso, dovuta anche alla giovane età degli attori coinvolti e alle dinamiche del crimine (sparizione-ritrovamento-fuga dell’indiziato-efferatezza dell’assassinio), ha generato una produzione giornalistica senza sosta, riverbero della spasmodica avidità informativa del pubblico. In questo flusso informazionale, un ruolo di primo piano è stato rivestito dai social media: questi ultimi, in particolare Instagram, hanno rappresentato non solo uno strumento al servizio della bramosia informativa dell’audience ma anche un luogo privilegiato per costruzioni discorsive bottom-up, per la rielaborazione, spesso in termini di rettifica, del discorso mainstream e per l’imposizione di nuovi argomenti, protagonisti e termini nel dibattito pubblico. A tal proposito, un caso emblematico è rappresentato da Elena Cecchettin, la sorella della vittima. Avvelandosi di nuovi e vecchi dispositivi mediali, Elena è riuscita a imporsi come figura autorevole e, insieme, ad attivare, attraverso la confutazione dei termini del racconto giornalistico, un circuito multidirezionale di informazioni e coinvolgimento pubblico (Rapisarda, Mattarella, Rizzuto, 2024). L’accessibilità alla sfera privata delle/dei protagonisti che Instagram rende possibile ha contribuito a modificare le modalità partecipative delle/degli utenti.
Sebbene l’interazione online verificatasi abbia esasperato ulteriormente la tendenza alla spettacolarizzazione del femminicidio, allo stesso tempo le possibilità offerte dalla rete hanno il merito di poter ricondurre l’attenzione sulla vittima, sulla sua storia e di restituirle voce anche dopo il suo assassinio. C’è da chiedersi, tuttavia, se affari come la pubblicazione delle pagine di diario della vittima e delle sue intime confessioni post mortem siano, o meno, eticamente opinabili.
La contaminazione tra il vecchio e nuovo si sostanzia così nell’affiancamento tra logiche di intrattenimento e di produzione tradizionali e modalità partecipative e produttive inedite. Ciò implica una necessaria riflessione «sul potenziale collasso della funzione di gatekeeping da parte dei news professional, sulle possibilità di ridefinizione del campo giornalistico, in cui agiscono nuovi attori» (Rapisarda, Mattarella, Rizzuto, 2024) e, insieme, sulle responsabilità etiche di chi produce o consuma notizie.
Ratificata dall’Italia nel 2013, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), primo documento di diritto internazionale giuridicamente vincolante specificatamente dedicato al tema della violenza di genere interviene, all’articolo 17 del capitolo III (‘Prevenzione’), sul tema del ruolo dei mass media nella prevenzione e nel contrasto alla violenza contro le donne, stabilendo il loro dovere al rispetto della dignità delle vittime.
Ciò presupposto, nel perseguimento dei loro oneri, le professioniste e i professionisti del circuito mediale, e le/i nuovi attori coinvolti, devono impegnarsi nel fornire una rappresentazione del femminicidio che ne metta in luce le sue connotazioni storiche, sociali e politiche, restituendo il carattere sistemico e pervasivo del fenomeno. In questa direzione, è quantomeno doveroso dare voce alle vittime e alle strutture che le sostengono nel loro percorso di affrancamento dalla violenza. Raccontare le loro storie, fatte spesso di denunce inascoltate e di abbandono istituzionale, è l’imperativo etico, ancor prima che informativo, che i giornalisti e le giornaliste devono far proprio. Si tratta di dare visibilità alle sopravvissute prima che diventino delle vittime, di restituire loro voce prima che un uomo le metta a tacere, per sempre.
Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
