Il guscio

Pubblichiamo in questo numero uno dei due racconti vincitori della Sezione C – Narrazioni, della XII edizione del Concorso di Toponomastica femminile, Sulle vie della parità, dal tema quest’anno Le donne e le arti, conclusosi venerdì 11 aprile con la cerimonia di premiazione in un’aula della facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tre. Ricordiamo che la sezione Narrazioni è riservata agli atenei e vi si possono iscrivere studenti, dottorande e dottorandi, borsiste e borsisti, che partecipano a titolo personale scrivendo un racconto a tema.
Ancora una volta due scrittrici e due scrittori legati al Premio Calvino (Simona Baldelli, Adil Bellafqih, Antonio G. Bortoluzzi, Mariapia Veladiano) hanno ideato per Toponomastica femminile quattro incipit tra i quali ogni concorrente ha potuto scegliere quello da cui prendere le mosse per il proprio racconto.
Tra i 41 racconti pervenuti — in prevalenza dalle università romane La Sapienza e Roma Tre, ma anche dalle università di Catania, di Pavia, di Pisa e dall’Università telematica eCampus — la giuria ha individuato 7 racconti finalisti (di Micaela Calloni, Beatrice Ceccacci, Federica Gatta, Dana Moda, Elisa Nim Rossi, Mira Sathya Sai Cucco, Vittoria Stanzione) tra i quali, infine, sono stati scelti i due vincitori ex aequo: Il guscio di Beatrice Ceccacci e Penelope dei quanti di Vittoria Stanzione.
A tutte le sette autrici finaliste sono stati consegnati i premi di Toponomastica femminile e a entrambe le vincitrici anche quello messo in palio dal Premio Calvino, consistente nella possibilità di iscrizione gratuita alla XXXIX edizione.
Riportiamo qui il primo (in ordine alfabetico) dei due racconti vincitori, Il guscio, che continua l’incipit di Simona Baldelli (in corsivo nel testo). L’autrice, Beatrice Ceccacci, è studente di Lettere alla Sapienza di Roma. Questo il giudizio della giuria: «Lavoro ricco, originale e aderente al tema, appare pienamente coerente con l’incipit, di cui coglie con attenzione i suggerimenti. Molto apprezzata l’idea del finale, della tela che, da elemento di schiavitù, si muta attraverso il fare artistico in strumento di libertà. Espressione corretta, sciolta ed elegante».

Il guscio
di Beatrice Ceccacci
Si era seduta al telaio all’alba, con una smania di cui non comprendeva il motivo. Il sole si allargava sulla città; Argo era accoccolato accanto all’ingresso come sempre, da quando era partito il padrone. I Proci dormicchiavano sparpagliati fra la casa e il giardino, in cerca di un po’ frescura. Nulla era cambiato fra le mura domestiche e la campagna circostante. Eppure. Che fosse mutato qualcosa in lei? Osservò la tela, in gran parte disfatta durante la notte e ora da ricostruire affinché Antinoo e i compari non si accorgessero dell’inganno. Aveva ottenuto di rimandare le nozze con uno di loro fino a quando avesse terminato l’arazzo in cui avvolgere, al momento della morte, il corpo di Laerte, il suocero. Che il marito fosse già deceduto, ne erano convinti tutti, tranne lei. Compresse col pettine le trame e indietreggiò con le spalle per osservare meglio la tela. Com’era bella, la più bella che avrebbe mai intessuto, se solo l’avesse portata a termine. Una meraviglia di colori, disegno, fili di seta, sapienza delle mani. Un’opera destinata a rimanere incompiuta. Sentì una fitta al costato, un dolore sordo. La mancanza di qualcosa che avrebbe potuto essere, ma non ci sarebbe mai stata. Che sciupio d’intelligenza e arte. Si scoprì a chiedersi se ne valeva la pena. Da quanto tempo lo aspettava? Molti anni, venti.
Penelope volse lo sguardo su Argo, il lungo pelo grigio imbiancato qua e là da evidenti segni di vecchiaia. “Anche tu”, pensò, “sei rimasto impigliato in questa casa”. Gli si avvicinò lentamente, per non disturbagli il sonno. Posò con delicatezza una mano fra le sue orecchie e lo accarezzò. Ormai erano rimasti solo loro due ad aspettare. Penelope tornò al telaio e si rimise al lavoro. Le sue mani erano veloci ed esperte, ed intrecciavano meccanicamente i fili di seta morbida.
Da qualche notte, però, Penelope era inquieta. Faceva lo stesso sogno ricorrente, ogni singola notte. Sognava di trovarsi in mezzo al mare, in una notte di tempesta. Da sola, nelle acque nere e gelide. Provava un forte dolore ad una gamba, ed era terrorizzata. D’un tratto, un’onda più grande la sommergeva del tutto. Allora Penelope tratteneva il respiro sott’acqua, le lacrime che si confondevano con la distesa marina. Ma all’improvviso, dalle profondità nere, intravedeva qualcosa venire verso di lei, lentamente e con movimenti ampi. Una gigantesca tartaruga stava emergendo dall’oscurità, con una lentezza sacrale. Le grandi zampe palmate disegnavano cerchi perfetti nell’acqua, e il carapace era ricoperto di muschi e coralli dai colori vivaci. Piccoli pesci lucenti accompagnavano la creatura, che guardava con grandi occhi neri la donna. Penelope era immobile, ipnotizzata da quella visione magnifica e spaventosa. Lei rimaneva immobile anche quando, lentamente, la tartaruga spalancava la sua gigantesca bocca, e un turbine d’acqua la risucchiava con forza dentro la creatura. All’inizio, Penelope era circondata dal buio più totale. Poi, una fioca luce cominciava a farsi strada nell’oscurità, una luce calda e rassicurante. D’improvviso, Penelope si rendeva conto di non avere più dolore alla gamba, aveva smesso di tremare, e il suo cuore era calmo e sereno.
«Qual è il tuo nome?», chiedeva allora alla tartaruga. Una voce profonda e vibrante le rispondeva con dolcezza «Diotima». Si risvegliava ogni volta con un senso di scomodità nel cuore, come se nel sonno qualcuno fosse entrato nel suo petto a scompigliarle il ritmo dei battiti.
Penelope sospirò, mentre le mani meccanicamente continuavano a tessere la tela morbida. Un fascio di luce entrava ormai dalla finestra, e lei cominciava a sentire le voci fioche dei Proci che venivano dal giardino. Si erano svegliati. Nonostante fossero passati così tanti anni, Penelope non riusciva ad abituarsi alla sensazione di avere degli intrusi nella sua casa. Quelle mura, che aveva tanto amato, erano ora divenute solo un’ombra di quello che erano state. I giochi dei Proci avevano sozzato e crepato gli affreschi delicati, il legno intagliato delle travi portanti era scheggiato in ogni parte e le tende bruciacchiate dagli incensi. Penelope guardava a quegli uomini pingui e scurrili con disgusto. Le sembravano insetti, parassiti che infestavano la sua casa. Faceva finta di non sentire i commenti violenti che le rivolgevano, le parole maliziose e volgari che l’accompagnavano quando si allontanava da una stanza. Di notte, aveva cominciato ad aver paura degli angoli bui della sua casa, temeva di trovare uno di quei parassiti inebriato dal vino ad aspettarla. Il luogo che aveva amato e che l’aveva fatta sentire così al sicuro era ormai la sua prigione.
Passarono ore prima che Penelope alzasse gli occhi dal telaio. Le mani le cominciavano a dolere, allora si alzò e si avvicinò alla finestra. Dalla piccola stanza dove si era ritirata da quando Ulisse era partito, nelle giornate più limpide si riusciva a scorgere il mare. Lei aveva immaginato più volte di dirigersi fin laggiù, oltre le mura della città, oltre la spiaggia di sassi e le zattere dei pescatori. Si chiedeva che sensazione le avrebbero potuto dare il sale sulla pelle e le vesti leggere scosse dalla brezza marina.
“Smettila”, scacciò il pensiero dalla sua testa con violenza. “Non spetta a una donna il privilegio di sognare, nemmeno a una regina”. Tornò alla tela, e passarono veloci le ore.
Anche quella notte, la tartaruga venne a trovarla nel sonno. Penelope si fece cullare nell’usuale abbraccio caldo della sua bocca, e curare dalla luce fioca al suo interno. Ma, proprio quando Penelope stava lentamente giungendo al risveglio, Diotima le sussurrò: “ἰοίης” (“Che tu possa andare oltre”, ripreso liberamente dal frammento 182 di Saffo), come un messaggio fugace prima di renderla al giorno. Penelope si svegliò di soprassalto, un sudore freddo le imperlava la fronte. I suoi occhi si volsero alla stanza che la circondava, e d’improvviso le sembrò che la stesse schiacciando. Il mobile di legno col catino decorato s’era fatto d’un tratto più vicino, la cassapanca le pareva avanzare verso il letto, le tende erano diventate pesanti e buie. Il suo sguardo si fermò sul telaio e sulla tela incompiuta che solo poche ore prima aveva disfatto per mantenere l’inganno. Si soffermò sulla trama elegante e sinuosa, che raffigurava con dettagli minuziosi la città di Itaca. Il blu cobalto, l’oro ed il verde si univano armoniosamente come le correnti di un fiume in piena. “Come sei bella”, pensò, “bella ma così imperfetta”. Forse anche lei era così, elogiata per la sua bellezza e la sua virtù, ma infinitamente mancante di ciò che l’avrebbe resa perfetta e completa. Ulisse. Si alzò dal letto e si diresse verso lo specchio. La donna che le restituì lo sguardo aveva un’espressione accigliata. Il viso, ormai non più giovane, era incorniciato da lunghi capelli color mogano interrotti qua e là da lucenti ciocche bianche. Le sfiorò con le dita e guardò Argo, che sonnecchiava all’angolo della porta. “Guarda, vecchio mio, sono come te”, e fece un sorriso amaro. Vent’anni. Erano passati vent’anni. Fino a quel momento non aveva fatto caso alle prime rughe che avevano cominciato a solcarle il viso. Quando le erano venute? Da quanto se ne stavano lì, senza che lei sapesse nulla? Si stava passando le dita sul viso quando d’un tratto, con la coda dell’’occhio, vide riflesso dietro di lei, sul comodino accanto al letto, qualcosa che prima non c’era. Si avvicinò a passi lenti, confusa. Quando giunse abbastanza vicino, sentì di nuovo quello sfarfallio al cuore che l’accompagnava sempre al risveglio dal suo sonno. Sul comodino c’era un sasso, non più grande di un palmo della mano. La superficie liscia era innervata da striature grigie e bianche. “Cosa ci fa qui”, disse a voce alta, “un sasso della spiaggia?”. Il cuore le cominciò a galoppare nel petto, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla pietra. “Che tu possa andare oltre, che tu possa andare oltre …”, le parole di Diotima le martellavano la testa. Oltre?… Penelope guardò ancora la tela, la bellissima tela che era stata la sua vita per gli ultimi vent’anni. “Forse”, pensò, “forse, possiamo essere finalmente complete”. Strinse al petto la pietra. Nessuno vide la regina di Itaca per giorni. Chiusa nella sua stanza, con un’ossessione febbrile sedeva al telaio e le sue mani lavoravano veloci e precise, intrecciando fili e ricami. Argo a volte le si avvicinava, poggiando il muso caldo sulle sue ginocchia. Ma Penelope non gli prestava attenzione, doveva finire, e doveva farlo in fretta. Lavorò con così tanto zelo che le dita cominciarono a sanguinarle. Lavorò fino a non sentire più le braccia, lavorò con tutto l’amore di cui era capace. Finché un giorno, all’alba, finalmente finì. Con un sorriso stanco si alzò dal telaio e indietreggiò di qualche passo per ammirare la sua opera più grande, il suo capolavoro. Argo le trotterellava ansioso attorno alle gambe, e lei si prese appena un attimo di respiro. Poi, si mise il mantello sulle spalle, arrotolò il suo lavoro, se lo mise sottobraccio e uscì defilata dalla stanza. Veloce e silenziosa sgattaiolò fra le camere del castello, dove i Proci dormivano profondamente, ancora ebbri dalla notte precedente. Una volta varcato il pesante portone d’ingresso, Penelope camminò lungo la strada acciottolata che dal palazzo attraversava la città. Si calò il cappuccio sugli occhi per non farsi riconoscere dai pescatori che trasportavano il pesce al mercato mattutino, e svelta si dileguò giù su una discesa ripida che passava accanto al bosco di pini. Dopo qualche minuto di cammino, abbandonò il percorso principale e si addentrò nel folto del bosco. Conosceva bene la strada, da bambina ci si avventurava sempre.
Il sole aveva cominciato a imporporare con più forza il cielo quando giunse finalmente alla sua meta. La strada tortuosa e piena di rovi si aprì all’improvviso in una piccola spiaggia di ciottoli lisci e scuri, con nervature grigie. Il mare calmo si allungava placidamente sui sassi lucenti, e una piccola imbarcazione di legno era poggiata sotto il riparo di una quercia lì accanto. Penelope spinse l’imbarcazione sul bagnasciuga e sistemò i remi. Poi, sul piccolo albero torreggiante al centro dell’imbarcazione, montò la sua vela, così come una volta le aveva insegnato Ulisse. Una brezza leggera gonfiò il tessuto, e il capolavoro di Penelope brillò alla luce del sole. Fili d’argento e d’oro si intrecciavano finemente a formare il disegno di una grande tartaruga, con il carapace ricoperto di muschi e coralli splendenti. Piccole pietruzze blu impreziosivano la trama, come bolle nell’acqua. Penelope sorrise, mentre gli occhi le si velavano di lacrime. “Siamo finalmente perfette”, pensò. Stava spingendo l’imbarcazione in acqua quando, all’improvviso, sentì un rumore alle sue spalle. Si girò di scatto, per trovare lo sguardo umido di Argo. L’aveva seguita fin lì, e le si stava avvicinando a passi tremolanti e incerti. Le lacrime solcavano il viso sorridente di Penelope, che lo aspettava pazientemente accanto alla barca. Quando Argo le fu davanti, Penelope si chinò ad accarezzarlo fra le orecchie. “Amico mio,” gli disse, “al suo ritorno, salutalo per me”.
Argo rimase sulla spiaggia di ciottoli grigi a guardare l’imbarcazione farsi sempre più piccola all’orizzonte, e per un attimo il luccichio della vela gli parve un secondo piccolo sole che, intrepido, solcava il mare.

Un momento della premiazione. Da sinistra Paola Malacarne, Maria Pia Ercolini, Loretta Junck
Danila Baldo, Beatrice Ceccacci, Vittoria Stanzione. Foto di Federica Gatta

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Articolo di Loretta Junck

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Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).

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