Sara Del Piano è una giovane donna italiana che vive in Australia dal settembre 2015 («dal 16 settembre» precisa, a marcare una data fondativa). Nata nella primavera del 1996, vissuta a Milano fino al diploma in scienze umane (puntualmente conseguito nel giugno 2015), da ormai nove anni risiede in Western Australia (il più grande dei sei stati riuniti nella federazione), ora a Scarborough, cittadina a qualche chilometro da Perth, sull’Oceano Indiano. Dopo la consueta (lo è per i giovani e le giovani migranti) trafila di impieghi nell’agricoltura e nella ristorazione, è restaurant manager del Sandbar di Scarborough, un locale accogliente e vivace che conta quattrocento coperti, a pochi metri dalla spiaggia: Sara è responsabile della formazione e supervisione del personale, dell’assegnazione dei compiti, della gestione delle prenotazioni e della risoluzione di eventuali problemi.
La intervisto il 25 febbraio, in loco (suo padre Roberto e io ci siamo recati nell’altro emisfero per farle visita): da vecchia insegnante (ancorché in pensione), sono interessata al fenomeno della migrazione giovanile italiana, e Sara non è la prima che io conosca a espatriare in cerca di una condizione migliore, a propria misura. Già nell’ottobre 2013 (un abisso di tempo è passato) scrivevo per il quotidiano del Lodigiano e Sud Milano un contributo sui Giovani lodigiani in Australia: ragazzi e ragazze, diplomati e laureate, che acquisiscono e impiegano la propria professionalità come manager, aiuto cuoco, video maker… In cerca di dignità e futuro, e non soltanto nel breve periodo.

Quando e per quali ragioni sei arrivata in Western Australia?
Sono arrivata in Australia il 16 settembre 2015, sostanzialmente per seguire il mio fidanzato di allora; lui era arrivato prima di me, me ne aveva parlato, dunque, una volta concluso il liceo, ho deciso di prendermi un anno sabbatico, di viaggiare, di imparare bene l’inglese… E sono ancora qui, anche se per diverso tempo non ho avuto l’idea di rimanere, ogni anno doveva essere l’ultimo. In passato, non ho mai fatto un progetto a lungo termine per prendere la residenza qui, perché non pensavo che fosse possibile e neppure che lo volessi. Dopo la pandemia, però, mi sono stati rifiutati un paio di visti (la seconda volta mi erano stati dati ventotto giorni per lasciare il paese!): per mia fortuna (ho realizzato che non volevo andarmene!) ho trovato un agente di immigrazione che mi ha assicurato che sarebbe riuscito non solo a farmi restare, ma anche a ottenere la residenza permanente e ho iniziato il percorso per averla. Sono ormai venti mesi che aspetto: se la residenza arrivasse, a distanza di un anno potrei chiedere la cittadinanza australiana, e a quel punto sarei libera di scegliere e di muovermi, cosa che ora non posso fare, pena la decadenza della richiesta.
Quali ritieni siano stati gli elementi determinanti nella tua formazione (scolastica e non scolastica) e nel tuo percorso di studi?
A livello lavorativo niente di quello che ho fatto in Italia è stato rilevante; per lavorare nell’ambito della ristorazione, in pratica, non è stata richiesta alcuna qualifica. Mi è stato utile, però, lo studio della lingua inglese. In Italia non ho lavorato, non so quale fosse la situazione a livello lavorativo, è stata una questione personale, sentimentale — come ho detto — a portarmi in Australia; allo stesso tempo, però, non mi sono sentita trattenuta in Italia: non avevo le idee chiare sul mio futuro, per questo ho preso del tempo per pensare, per fare esperienze diverse. Mi sono trasferita in Australia da sola ma non ero da sola: il mio fidanzato di allora si era già stabilito qui, quindi, non ho dovuto fare una vita da ostello, sono andata a vivere con lui, lui mi ha aiutato a trovare lavoro e mi sono inserita nella cerchia delle sue amicizie; con il suo supporto l’inserimento è stato meno difficile.

Sei vissuta per qualche tempo a Perth, ora vivi a Scarborough, Western Australia. Hai subìto discriminazioni in quanto donna e migrante, ovvero cittadina straniera?
Non che io mi ricordi, né come donna né come straniera, certo non a livello lavorativo, perché la ristorazione è un settore in cui lavorano molte persone immigrate, donne e uomini, e poche australiane: succede così… Per chi è straniero, il riconoscimento del titolo di studio non è immediato, accedere a questo tipo di occupazione, invece, è agevole. Dunque, in ambito lavorativo, nessuna discriminazione, anzi, le persone straniere sono piuttosto benvolute. Quando ho lavorato nelle farm, però… Cosa sono le farm? Quando si viene in Australia con un visto di lavoro e vacanza (working-holiday visa), che dura un anno, per rinnovarlo è necessario lavorare per tre mesi, oppure ottantotto giorni, nelle farm, le fattorie, per esempio nella raccolta della frutta. Questo è un lavoro nel quale chi è straniero viene molto sfruttato, perché gli australiani occupati nel settore sono davvero pochi: si fa molto affidamento sui backpackers (backpacker è lo zaino, i backpackers sono i giovani che viaggiano con lo zaino); rispetto a quando sono arrivata, la norma è cambiata, se si chiede il rinnovo per il terzo anno occorre lavorare nelle farm complessivamente sei mesi (tre mesi per rinnovare per il secondo anno e altri tre mesi per il terzo), anche se ora non necessariamente il lavoro si svolge nelle fattorie, ma anche in altri settori delle zone rurali. Il primo lavoro nelle farm l’ho trovato in un distretto piccolissimo, Donnybrook, in una grande azienda agricola che produce mele, fornitrice di una catena di supermercati: i datori di lavoro erano, come dire, spietati, perché prima del 2020 in Australia c’erano tantissimi stranieri, dunque molta domanda di lavoro: se non eri abbastanza brava e veloce ti licenziavano su due piedi, non c’era nessun tipo di riguardo e lo stipendio era molto basso. Non so come, sono riuscita a rimanere in quella farm per un mese e me ne sono andata per mia scelta; facevo packing, imballaggio, era molto pesante: ci sono nastri trasportatori ad altezza del busto su cui si trovano le mele, che vanno inserite a diversi livelli, il grade one (ove va la frutta migliore), il grade two (la seconda scelta), il grade juice (la frutta peggiore, utilizzata per la produzione dei succhi). Dovevo essere veloce e precisa nello scegliere e riporre al posto giusto, perché c’era chi controllava il mio lavoro: chi faceva errori veniva licenziato e avanti il prossimo. Poi, ho trovato un lavoro migliore, in cui facevo picking, raccolta di mele; comunque la frutta va raccolta, e mi sono trovata a lavorare anche nove ore al giorno, sotto il sole o la pioggia… Non che raccogliere angurie sia molto meglio… Questo lavoro è finito quando è finita la raccolta delle mele; mi mancavano soltanto pochi giorni per completare il periodo previsto, perciò ho dovuto cercare un terzo lavoro, che ho trovato in una compagnia di packing, imballaggio; lavoravo tre giorni a settimana, dunque ho impiegato diverso tempo per arrivare ai fatidici ottantotto giorni. Va be’, è stata un’esperienza, qui la fanno tutti… Ora i backpackers sono molto orientati a lavorare nell’ambito delle mines, le miniere, nella parte settentrionale del Western Australia, non soltanto come minatori, ma anche nell’indotto; è un lavoro molto ben pagato, che comprende vitto e alloggio gratuiti: si fanno due settimane on (dodici ore al giorno, senza giorni liberi) e due off (di completo riposo, senza stipendio).

Sei restaurant manager, un lavoro che richiede professionalità; come sei arrivata a costruirla?
Dopo qualche breve esperienza lavorativa nel settore, ho trovato lavoro al Sandbar di Scarborough: ho iniziato come cameriera, vivevo nella zona e nella zona frequentavo un corso di inglese. Mi sono trovata bene: è un ambiente simpatico, ero interessata a ottenere una promozione e ad assumere maggiore responsabilità; dopo un anno e mezzo mi si è presentata l’occasione, perché altri, altre manager se ne erano andate. Devi essere brava, l’esperienza è importante ma non fondamentale, ci vuole attitudine: lavoro al Sandbar da sette anni, nel mio caso la professionalità proviene anche dall’esperienza. Mi occupo di training, cioè della formazione, di tutto il personale, sia dello staff, sia dei e delle manager; sono responsabile per la liquor license, la documentazione da inviare periodicamente necessaria per la vendita di bevande alcoliche; risolvo le problematicità che possono verificarsi; mi occupo del booking, il sistema delle prenotazioni.
Qual è la percentuale di donne e uomini nel tuo luogo di lavoro?
Dipende… A volte ci sono più uomini, a volte più donne. Ho notato che a volte tendono a esserci più uomini al bar e più donne al floor, il servizio in sala (qui sono distinti), però dipende…

Quali sono le difficoltà di carattere amministrativo che hai incontrato e incontri nella tua permanenza in Australia?
Qui la burocrazia è molto… La questione dei visti è molto delicata, insomma… I visti sono molto difficili da ottenere, io sono qui da oltre nove anni e ancora non sono riuscita a ottenere la residenza permanente, un po’ per colpa mia, che ho temporeggiato, un po’ perché il percorso è davvero difficile e costoso, le leggi cambiano in continuazione, i tempi di attesa sono lunghissimi, non c’è alcuna garanzia che una volta richiesto il visto e pagato quanto stabilito l’istanza venga approvata (e se non viene approvata non c’è nessun rimborso). Sì, si può fare appello, ma anche quello è costoso e richiede ancora più tempo, e nel momento in cui il caso viene riesaminato, se le circostanze sono cambiate, si è daccapo, come è successo a me. Ci sono modi più facili, per esempio sposare un australiano (una garanzia!), ma anche in questo caso la concessione non è immediata, ci vogliono comunque tre anni. In passato, nei primi anni, grossi problemi non ne ho avuti, perché ho fatto il visto lavorativo per due anni, poi ho fatto il visto studentesco, ma non potevo lavorare più di ventiquattro ore la settimana: era difficile mantenermi, perché il visto costa tanto, la scuola costa tanto, e si può lavorare poco. Dopo qualche anno, per la prima volta (e per due volte), mi è stato rifiutato il visto, ed è iniziata l’era degli appelli; come ho già detto, ho avuto la fortuna di essere assistita da un agente di immigrazione capace (a pagamento, ovviamente, e non per poco), che è riuscito a ribaltare la situazione e a farmi ‘applicare’ per la residenza, ovvero mettermi nella condizione di richiederla, avendo tutti i requisiti necessari (abitazione e lavoro, documenti e ottime competenze in lingua inglese). E se tutto andrà bene…

Progetti per il futuro?
Progetti per il futuro… Avendo passato gli ultimi cinque anni tra appelli e visti precari, non mi sono azzardata a farne, perché non sapevo se e quanto mi sarei potuta fermare. Ottenere la residenza permanente mi consentirà di essere libera di scegliere.
Tu sei una delle tante e tanti giovani espatriati dall’Italia: la cosiddetta ‘Italia fuori dai confini’ è l’unica in crescita demografica. Dal Rapporto italiani nel mondo 2024 della Fondazione Migrantes si evince che le persone con cittadinanza italiana nel mondo sono 6 milioni e 134mila, con una crescita di 89.462 unità rispetto al 2023, che si avvicina ai livelli di crescita pre-pandemia.
Le regioni di maggiore provenienza sono Sicilia, Lombardia, Veneto; la prima provincia è Milano (e tu vieni proprio da Milano); una quota consistente è proprio costituita dalle giovani generazioni, infatti il 21,7% degli italiani e delle italiane all’estero ha tra i 18 e i 34 anni; la maggior parte delle persone emigrate dall’Italia vive in Europa o nelle Americhe; una piccola quota, il 2,7% (pari a circa 167mila), in Oceania; la maggior parte ha un titolo di studio medio alto e non ha intenzione di rientrare.
Tu sei in pieno target: sei una giovane donna, istruita e qualificata, che si è costruita una sua professionalità. Cosa pensi di questo fenomeno? Ti senti parte di un movimento migratorio? So, per esempio, che condividi la casa con un’altra giovane donna italiana, Emma, chef venticinquenne milanese…
La ragione che mi ha spinto a venire in Australia è forse un po’ diversa da quella che muove la maggior parte delle mie coetanee e coetanei, cioè la precarietà del lavoro e il livello inadeguato delle retribuzioni. Avendo lasciato l’Italia molto giovane e non avendo sperimentato alcun lavoro in Italia, sono partita più con l’idea di voler viaggiare, o di voler seguire il mio cuore, ma so che la ragione principale per cui le/i giovani italiani se ne vanno è rappresentata dalle opportunità, dalle condizioni lavorative, dagli stipendi che qui sono migliori. C’è anche chi parte per il gusto di viaggiare e poi si trova in un paese in cui vive bene e decide di restare, che è quello che è successo a me.
In Italia il lavoro, in particolare giovanile, è precario e malpagato. In diverse occasioni il governo italiano ha sostenuto che sono le/i giovani a preferire la precarietà. Sei d’accordo?
A me fa un po’ ridere… È facile nascondersi dietro un dito dicendo che lo si fa per il piacere altrui. Non è per niente, a parer mio, il caso…

(archivio Sara Del Piano)
E in Western Australia? Al di là delle farm e delle mines (le prime le hai provate, le seconde no), cosa puoi dire delle condizioni lavorative? Sono tali da garantire una vita dignitosa?
Per quanto mi riguarda, dove mi trovo ora, non mi posso lamentare. In Australia c’è un’istituzione statale denominata Fair Work, lavoro equo, alla quale ci si può rivolgere nel caso di condizioni lavorative illegali o ingiuste; c’è un salario minimo legale per la maggior parte dei lavori, se si lavora nei week end o nei giorni di festa lavorativa pubblica si viene pagate di più. Ci sono poi due tipi di contratto: casual (precario) o full time (tempo pieno), il primo meno garantito, ovviamente. Io, per scelta, sono casual: sono pagata di più, non mi sono pagate malattie e ferie, ma posso lavorare quanto voglio. Oltre le quaranta ore settimanali sono pagati gli straordinari e dopo sei mesi con contratto casual si è difficilmente licenziabili: per esserlo occorre ricevere tre warnings, richiami in forma scritta motivati; inoltre, dopo sette anni, anche se non si è mai stati full time, si ha diritto alle long service weeks, settimane di lavoro pagate, ferie pagate.
Quali consigli daresti a una giovane che dopo il diploma desiderasse ‘cercare fortuna’ in Australia?
Io penso che l’Australia sia un bellissimo paese, ricco di opportunità, sia per chi vuole guadagnare e risparmiare, sia per chi desidera viaggiare e lavorare quel tanto che basta per permettersi di farlo… A livello di residenza permanente un po’ meno… Il Western Australia è lo stato che ha gli stipendi più alti e, in confronto, il costo della vita più basso… Consiglierei a chi pensa di partire di avere almeno una base di inglese, perché serve, anche se la lingua è facile da imparare vivendo qui, viaggiando e conoscendo tante persone da tutte le parti del mondo, ma una base serve. Poi consiglierei di arrivare con dei risparmi, perché all’inizio può richiedere del tempo trovare un posto in cui stare (gli ostelli non sono economici) e trovare lavoro. E anche di fare un po’ di ricerca su come organizzarsi, come muoversi, come funziona il mondo qui. A livello lavorativo, è molto facile trovare occupazione; se sei un po’ sveglia, con un minimo di esperienza e hai familiarità con l’inglese, ci sono tantissime opportunità, magari non il lavoro dei tuoi sogni, ma puoi iniziare a costruire la tua vita. E poi è meglio avere la patente, perché io non l’ho fatta in Italia e qui potrò pensare di ottenerla soltanto quando avrò il visto di residenza permanente. Sì, tante persone vengono qui in viaggio e poi si fermano, perché si sta bene, la qualità della vita è molto diversa: non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere.

Il 12 marzo, pochi giorni dopo la nostra partenza dalla Terra Australis Incognita, Sara ha ottenuto il visto di residenza permanente (richiesto il 27 giugno 2023, oltre venti mesi prima): per giorni, ci ha detto, dal cellulare ha aperto la pagina web con la comunicazione a lungo attesa, a lungo sospirata, perché non riusciva a crederci… Poi si è comprata un portatile e ha iniziato a studiare per la patente. E questa estate tornerà in Italia per vedere persone care e amiche.
Davvero in Italia il futuro appare tanto privo di possibilità da costringere, o quanto meno invogliare, una giovane donna intraprendente a espatriare? Da renderla capace di affrontare difficoltà e umiliazioni, lavoro duro e incertezza esistenziale? Sì, purtroppo. L’analisi Istat sulla vita e il reddito delle famiglie tra il 2023 e il 2024 rivela che un italiano (o italiana) su quattro vive di lavoro povero: 13,5 milioni di persone sono infatti a rischio povertà o esclusione sociale, con un reddito netto da lavoro inferiore al 60% di quello mediano: in questa categoria rientrano oggi le donne, i giovani con meno di 35 anni e i cittadini stranieri. Il lavoro è sempre più precario e sottopagato, all’interno di un sistema produttivo, quello italiano, che vive di bassi salari e sussidi alle imprese, generando la quota dei profitti più alta dell’Europa occidentale e accentuando le disuguaglianze: in Italia, infatti, il reddito del quinto più abbiente è 5,5 volte quello del quinto più povero.
Perché Sara dovrebbe tornare in Italia?
***
Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
