Igiene mestruale e contrasto all’inquinamento ambientale

Nelle società arcaiche, soprattutto se imperniate sulla figura della Dea come generatrice della vita, al sangue mestruale era attribuito un carattere di sacralità, dal momento che la sua comparsa coincideva col periodo di fecondità della donna. Con l’avvento delle grandi religioni monoteiste, invece, in tutte le civiltà patriarcali il mestruo ha cominciato a essere considerato una dimostrazione della presunta impurità del corpo femminile e quel sangue che sgorga senza ferite qualcosa di “sporco”, che suscita repulsione. (Ne ha scritto qui Graziella Priulla). 
Del resto non è passato molto tempo da quando abbiamo cominciato a liberarci da una lunga serie di pregiudizi e di superstizioni che affondano le loro radici in una visione negativa del corpo della donna…
Quei cinque giorni al mese erano vissuti quasi come una malattia. Non a caso uno degli eufemismi usati per indicarli era “essere indisposta”. E, soprattutto, non se ne doveva parlare, pena l’accusa di volgarità, oltre che di impudicizia.

Ma sono davvero idee che appartengono al passato? Certamente no, e proprio per questo dobbiamo parlarne. Forse nella nostra società ricca e evoluta le cose cominciano a cambiare, ma non è certo così nel resto del mondo, se una importante organizzazione non-profit come la tedesca Wash United nel 2014 ha deciso di istituire la Giornata mondiale dell’igiene mestruale.
La data scelta è il 28 maggio ed è legata alla durata del ciclo mestruale che in media dura 28 giorni, per 5 giorni ogni mese, e maggio è proprio il 5° mese dell’anno.

Quello della povertà mestruale è un problema molto serio: durante il ciclo, troppe donne in tutto il mondo non possono permettersi l’occorrente per gestire le mestruazioni nel modo migliore e per garantire a sé stesse la necessaria igiene mestruale.
Una ricerca realizzata dall’Unicef in occasione della Giornata mondiale dell’igiene mestruale del 2024 in molti paesi del terzo mondo analizza per la prima volta i dati nazionali emergenti a questo riguardo. I risultati di questa indagine dimostrano che quella che dovrebbe essere una manifestazione del corretto funzionamento del corpo, da vivere con la massima naturalezza, è invece per molte donne l’ennesima fonte di ingiustizia, perfino a scuola e al lavoro, quando quei luoghi non sono attrezzati per rispondere ai loro bisogni nei giorni del ciclo. 
Questo si traduce non solo in un ovvio problema sanitario, perché aumenta il rischio di infezioni per donne e ragazze, ma provoca limitazioni alla loro partecipazione a scuola, al lavoro e alle attività sociali. Quelle donne, soprattutto se giovani, vivono questo disagio in grande solitudine, a causa dei tabù che, vietando di parlarne, impediscono di ricevere aiuto perfino dai genitori o dagli insegnanti.
A tutto questo spesso si aggiunge una vera e propria forma di stigma sociale: in alcune zone dell’Asia, ad esempio, ogni mese donne e ragazze sono, letteralmente, cacciate di casa e costrette a vivere in capanne durante tutto il periodo mestruale.

E in Italia? Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, purtroppo anche qui da noi si deve parlare di povertà mestruale. Su questo argomento, la onlus italiana WeWorld ha realizzato, assieme a Ipsos, un’indagine statistica approfondita su un campione di 1.400 persone, di cui 700 donne e 700 uomini, tra i 16-60 anni, rappresentativo dell’intera popolazione italiana.
Il risultato di questa ricerca dimostra chiaramente che il problema esiste anche nel nostro paese: quasi una donna italiana su sei dichiara di non potersi permettere l’acquisto di prodotti mestruali ed è costretta a sostituirli con la carta igienica.
Si scopre anche che spesso è complicato accedere a spazi adatti in cui gestire una corretta igiene mestruale nei luoghi di lavoro o di studio, che mancano informazioni adeguate all’arrivo del menarca (4 donne su 10) e infine che non viene riconosciuto il diritto alla cura, nel caso di mestruazioni particolarmente dolorose (dismenorrea): le persone intervistate dichiarano di perdere, mediamente, 6,2 giorni di scuola e 5,6 di lavoro in un anno a causa delle mestruazioni e del dolore provocato.
Sulla base dei risultati di questa indagine è stato lanciato un Manifesto per la giustizia mestruale, in sei punti, allo scopo di sottoporre questo tema all’attenzione delle istituzioni. In particolare si chiede l’abbattimento della cosiddetta tampon tax (l’aliquota Iva al 10% sugli assorbenti, reintrodotta all’inizio del 2024), la distribuzione gratuita dei prodotti mestruali in tutti gli edifici pubblici e l’istituzione del congedo mestruale per le donne che soffrono di dismenorrea primaria.

Ma c’è un altro aspetto della questione di fondamentale importanza, quello del rispetto dell’ambiente, perché — oltre a essere costosi — assorbenti e tamponi sono realizzati in cotone (solitamente sbiancato con il cloro) e materiali sintetici come le polveri super assorbenti (Sap), derivati chimici del petrolio che trasformano i liquidi in gel aumentando l’assorbenza. In media, ogni donna, durante la sua vita fertile adopera 12.000 prodotti sanitari, una massa di almeno 10 kg di materiale non compostabile che finisce in discarica e impiega un tempo di 500 anni per decomporsi.
Nonostante ciò, nel 2018, la Commissione Europea ha eliminato gli assorbenti dalla lista di prodotti inquinanti usa e getta, ritenendo impossibile limitarne l’uso. Eppure esistono dispositivi, quelli lavabili, che, essendo riutilizzabili, permetterebbero di salvaguardare l’ambiente, oltre a essere economicamente vantaggiosi: la coppetta mestruale innanzi tutto, che può essere svuotata e reinserita molto facilmente dopo essere stata lavata con acqua e sapone, ma anche mutandine mestruali, molto più semplici da gestire di quello che si pensa.
Il vero problema è che questi dispositivi non sono sufficientemente diffusi: è dunque necessario fare informazione e diffondere consapevolezza su questo tema attraverso ogni possibile canale, sia nel campo dell’istruzione, mediante interventi mirati nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle comunità, sia con l’uso dei mezzi di comunicazione di massa.
Per questo motivo, abbiamo chiesto a una delle nostre associate, Marianna Milano, di “testare” l’uso delle mutandine mestruali e di raccontarci la sua esperienza:

Qual è stata la prima volta che hai sentito parlare di slip da ciclo lavabili o period panties?
«Per caso da una commessa, circa tre anni fa, mentre facevo acquisti assolutamente non correlati a tale prodotto. All’epoca erano praticamente sconosciute e forse è per questo motivo, o per timidezza, che ne comprai solo due paia che duravano “appena” otto ore. Le mutandine da ciclo erano una grande innovazione, pure comode e ipoallergeniche. Tuttavia, la scarsa conoscenza della materia e la mia pigrizia riguardo al metodo di lavaggio hanno avuto la meglio e ammetto che non le ho più utilizzate per molto tempo. Qualche anno fa, non avevo nessuno a cui chiedere spiegazioni o pareri nel caso in cui ne avessi avuto bisogno, a causa soprattutto del tabù intorno a qualunque cosa riguardi le mestruazioni. Ma più di recente, informandomi meglio, ho scoperto di aver commesso qualche errore in precedenza».

Quale?
«Innanzitutto, ne ho comprate troppo poche, infatti due paia di mutandine da ciclo non bastano. Le avevo pure comprate “a caso” senza controllare bene il tipo, che varia sia in base al flusso di una persona, che alla durata di protezione espressa in ore. È meglio comprare quattro o sei paia di slip, ovvero la durata media di un ciclo mestruale in giorni. Per di più, sarebbe più comodo comprare quelle che durano dodici ore (anche quelle da otto vanno bene, tuttavia andrebbero cambiate e lavate subito appena tornate a casa dopo la scuola o dopo il lavoro)».

Sono costose?
«Il prezzo di un paio di “period panties” è intorno ai 15 € circa, ma anche se sembra elevato, si dovrebbe tenere in considerazione che anche solo un paio di questo tipo di mutandine è riutilizzabile per almeno cinque anni. Pertanto si può evitare di comprare gli assorbenti usa e getta (che hanno ancora l’Iva al 22%) quasi ogni mese spendendo una certa cifra una volta ogni cinque anni. Inoltre, ne trarrebbe beneficio anche il pianeta, grazie alla riduzione della plastica nell’ambiente. Non solamente una soluzione a lungo termine economica, ma anche ecologica».

E doverle lavare, non è troppo scomodo?
Il “problema” del lavaggio, come ho accennato in precedenza, è stato il motivo per cui ho rinunciato la prima volta, trovando scomodo doverle sciacquare a parte e a mano, per poi metterle in lavatrice. Le “esperte” cui ho chiesto mi hanno svelato un paio di metodi un po’ più veloci per averle pulite (oltre a comprarne più di due paia). 
Le istruzioni sul retro della confezione per una corretta “manutenzione” non sono del tutto esaurienti. È vero che vanno sciacquate dopo ogni utilizzo, ma con del detersivo o con del sapone, così da poterle riutilizzare appena asciutte e solo alla fine del ciclo devono essere risciacquate e messe in lavatrice. Per esempio si possono risciacquare mentre si regola l’acqua della doccia, per evitare ulteriori sprechi. 
Lavarle a parte può sembrare un compito noioso e non solo le persone adulte, ma anche le ragazzine dovranno imparare a farlo, ma sono però certa che ci si possa abituare, soprattutto dati gli innegabili benefici. Molti altri capi di abbigliamento vanno messi a mollo prima di un lavaggio, pertanto sciacquare gli slip a parte sarebbe un’aggiunta a una pratica già diffusa. Sapersi lavare gli abiti, inoltre, è un requisito fondamentale per la propria indipendenza, sia per le donne che per gli uomini, quindi mettere nella routine quotidiana il lavaggio dei period panties, potrebbe essere un buon primo passo verso l’autonomia per le giovani».

In conclusione?
«Per quanto mi riguarda, cercherò di dare il buon esempio tornando quindi a utilizzare le slip e a lavarle cercando di combattere la mia pigrizia, che si è dimostrata deleteria anche in questo caso».

Anche incoraggiata dall’esperienza di Marianna, la nostra associazione, in collaborazione col Comitato Se non ora, quando? Snoq Lodi, ha ideato il progetto ’Mutandine mestruali’, un’azione civica, sociale e ambientale che si prefigge di donare una mutandina mestruale a ciascuna studente di prima superiore (considerato il target ideale per un’azione educativa).
Lodi è il primo comune d’Italia impegnato in una campagna sociale, ambientale e di genere di questo livello su un tema che riguarda qualsiasi donna in età fertile, sostenendo concretamente la distribuzione delle mutandine mestruali nelle scuole e l’educazione sul loro uso. Il progetto è stato anche inserito nel Piano della salute Locale 2025 dell’Organismo di partecipazione tutela della salute del Comune di Lodi. 
Oltre al Comune di Lodi, il progetto ha coinvolto la locale Azienda Farmacie Comunali. Ente e azienda, insieme, hanno sposato questa “causa” e si sono impegnati a finanziarla in parte. 
L’iniziativa prevede la raccolta di fondi tramite crowdfunding per donare mutandine mestruali alle studenti di prima superiore, con il coinvolgimento di associazioni femministe e ambientaliste, scuole, enti e aziende sponsor. Con un contributo minimo di 15 euro, chiunque può sostenere il progetto, investendo nel benessere mestruale, nell’educazione e nella sostenibilità.
Qui si possono trovare tutte le informazioni per aderire.

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Articolo di Maria Grazia Vitale

Laureata in fisica, ha insegnato per oltre trent’anni nelle scuole superiori. Dal 2015 è dirigente scolastica. Dal 2008 è iscritta all’Associazione per l’Insegnamento della Fisica (AIF) e componente del gruppo di Storia della Fisica. Particolarmente interessata alla promozione della cultura scientifica, ritiene importanti le metodologie della didattica laboratoriale e del “problem solving” nell’insegnamento della fisica.

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