Sara e Ilaria erano ragazze come me. Erano appena entrate nei loro vent’anni, esattamente come me. Studiavano in un’altra città, esattamente come me. Una di loro frequentava perfino la mia stessa università. Avevano una famiglia che voleva loro bene, esattamente come me. Stavano per laurearsi, esattamente come me. Nei giorni scorsi mi è capitato spesso di pensare alle cose che stavo facendo, rendendomi conto che queste due ragazze, come tante altre, invece non potranno più farle.
Sara e Ilaria non potranno più mangiare il loro piatto preferito, andare nel loro ristorante di fiducia.
Sara e Ilaria non potranno mai più festeggiare il loro compleanno, Capodanno, Natale o Pasqua. Sara e Ilaria non potranno più andare a una festa.
Sara e Ilaria non passeranno mai più una domenica in famiglia, a casa della nonna. Sara e Ilaria non ricambieranno mai più un sorriso a qualcuno/a.
Sara e Ilaria non potranno più divertirsi con le amiche.
Sara e Ilaria non potranno più innamorarsi. Non potranno più viaggiare, provare esperienze, scalare una montagna o fare attività fisica all’aperto. Non potranno più godere del sole sul loro viso o di una fresca serata primaverile. Non potranno più studiare qualcosa che le appassiona. Non potranno mai più guardare un film o andare al concerto del loro cantante del cuore. Sara e Ilaria non potranno più sognare.
Fa rabbia pensare come tutto questo sia stato tolto, a Sara e Ilaria. Fa male essere spettatori e spettatrici di tutto questo odio. E ancor di più, mi fa ancora più male ritenermi “fortunata” perché io queste esperienze posso ancora viverle. Ma quanta speranza c’è se molto spesso le mani che hanno accarezzato i volti di giovani donne sono state le stesse che hanno impugnato un coltello contro di loro? Quanta speranza c’è se gli stessi uomini che hanno detto di amarle alla fine hanno chiuso i loro corpi in delle valigie?
Quanta speranza c’è se lo Stato che dovrebbe tutelare indistintamente cittadini e cittadine alla fine si gira sempre dall’altra parte?
Continuo a pensare a come si saranno sentite, nel momento in cui hanno realizzato che il peggio era avvenuto. Si saranno sentite sole? Si saranno sentite abbandonate? A cosa avranno pensato? Momenti di interminabile silenzio. Sara e Ilaria potevo essere io. Poteva essere qualsiasi altra donna.
E mentre ancora vengono celebrati i loro funerali, altre donne vengono uccise, gettate giù da un ponte o picchiate nelle loro stesse case. Come se fossero oggetti, come se fossero nulla.
Sui giornali si parla ancora di «mostri», si parla di «raptus improvvisi» e «uomini gelosi», nascondendo un dato fondamentale, ovvero il fatto che il femminicidio è chiamato tale perché con un movente ben preciso: la voglia e l’esigenza da parte dell’uomo di ristabilire una gerarchia, dove il suo ruolo è quello di decidere sulla vita e sulla morte della donna. «Erano bravi ragazzi», a detta delle loro mamme, «introversi», continuano. Le prime pagine ci tengono a sottolineare il passato degli assassini, menzionando i biscotti fatti in casa, la passione per la danza o le colazioni portate a letto. Vengono perfino fatti aggiornamenti dal carcere: «non mangia, digiuna da giorni», «è pentito», «è sconvolto per quello che ha fatto», eppure… Eppure, hanno avuto la lucidità e la meticolosità di un serial killer: l’uno a ripulire il sangue nella stanza e l’altro a fuggire da Messina. E se femminicidi così simili accadono nell’arco di due giorni, allora c’è un problema. Se un ragazzo “perbene” arriva ad uccidere una donna soltanto per un “no”, allora il problema è strutturale. Questi due assassini sono figli sani del patriarcato, citando Elena Cecchettin: vuol dire che l’ambiente che li ha cresciuti ha permesso loro di arrivare a compiere questo gesto, ha permesso che l’idea del femminicidio entrasse nella loro mente, poiché presentata come soluzione possibile per fermare l’autodeterminazione della donna che volevano controllare. La società è in gran parte colpevole nella creazione dei femminicidi. Perché non si tratta di omicidi: la differenza sta nella motivazione del gesto. Non tutte le violenze sono uguali e la violenza di genere è diversa rispetto alla violenza in generale. Qualsiasi uomo che crea violenza di genere (sia essa psicologica, verbale o fisica) può arrivare potenzialmente a commettere un femminicidio. Si tratta di uomini “normali”, cresciuti in una cultura patriarcale che ha legittimato la possessione della vita di una donna e ha giustificato qualsiasi uso del suo corpo. Questi assassini sono diventati tali nel momento in cui si sono resi conto che quella vita non poteva più essere controllata. E no, non si tratta di «delitti passionali» o di «amore malato»: il femminicidio non è un sintomo d’amore.
Il mostro, il folle, il pazzo maniaco è l’eccezione della società. Definire questi individui “crudeli” non fa altro che deresponsabilizzare tale tipo di dinamica, radicata profondamente nella nostra cultura e nella nostra società. Complici sono tutti coloro che hanno anche soltanto assistito a un atteggiamento sessista da parte di qualcuno e sono rimasti in silenzio; tutti quegli uomini che hanno riso a una frase ironica sullo stupro, che hanno giudicato una donna solo perché sessualmente attiva. Tutti gli uomini sono complici fino a quando non riconoscono determinati atteggiamenti patriarcali e non decidono di decostruire loro stessi e il loro ruolo. Sono complici tutti coloro che assumono un atteggiamento difensivo, gridando al «sì, ma non tutti gli uomini», quando una donna cerca di spiegare loro il suo disagio di fronte al sistema sociale patriarcale odierno.
Il fatto che oggi siamo continuamente bombardati di notizie di femminicidi non vuol dire che precedentemente il problema non esistesse: solo in Italia una donna viene uccisa perché donna in media ogni 72 ore. Non si tratta di una fatalità o di una situazione puramente eccezionale, ma della quotidianità. Siamo stanche. Non è normale dover uscire di casa armate di spray al peperoncino o di un coltellino appeso alle chiavi per paura di essere violentate. Non è normale dover mandare la posizione in tempo reale alle amiche o alle proprie madri o padri quando si esce con un ragazzo. Non è normale dover scegliere cosa indossare per paura di sguardi indiscreti o, peggio, di una reazione animalesca da parte di un uomo che «non riesce a controllarsi». Non è normale rimanere costantemente vigili mentre si cammina in giro per la città da sole. Non è normale assumere tutte queste precauzioni, ma noi ragazze continueremo a farlo fino a quando non ci sentiremo libere, dagli sguardi, dalle molestie per strada, da individui che decidono di seguirci fino a casa… E quando questo accadrà? Quando la coscienza collettiva maschile si farà carico delle proprie colpe e finalmente si renderà conto di come la violenza di genere risieda anche negli atteggiamenti che sembrano più banali e insignificanti. L’educazione sentimentale è il primo passo. Tuttavia, ora rimane una profonda rabbia: è triste pensare che, in effetti, non tutti gli uomini siano arrabbiati come invece lo siamo tutte noi donne.
In copertina: manifestazione Non una di meno, 25 novembre 2024. Foto di Alice Lippolis.
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Articolo di Alice Lippolis

Sono laureata in Lettere Moderne presso l’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi dal titolo Nomi di mestiere: Sessismo Linguistico tra Sincronia e Diacronia. Attualmente sto frequentando il corso di laurea magistrale di Editoria e Scrittura presso la medesima università. Amo viaggiare, tanto quanto amo leggere sotto l’ombrellone in spiaggia (ma anche un po’ dove capita).
