Razzismo ai tempi dei social

«Ne usciremo migliori». Questa è la bugia a cui abbiamo voluto credere per tutto il lungo periodo della pandemia: nell’immaginario collettivo, nella narrazione che ci siamo raccontate/i, il Covid-19 avrebbe dovuto essere una sorta di spugna miracolosa in grado di cancellare la cattiveria dal mondo a suon di canzoni e cori dai balconi. La realtà dei fatti è invece assai diversa, ed è sotto gli occhi di tutte e tutti noi.
Certo, sarebbe un disservizio ignorare le reti di solidarietà che si sono formate negli anni del lockdown come i gruppi di quartiere e tutte quelle iniziative nate per poter ricreare l’illusione della normalità in tempi dove l’Altro rappresentava un potenziale pericolo in quanto possibile portatore di un virus letale. Opere assolutamente encomiabili e che devono essere ricordate e celebrate. Tuttavia, quando si vanno poi ad analizzare i dati e le esperienze quotidiane concrete, l’impressione è che siamo diventate tutte e tutti un po’ più crudeli, un po’ più disilluse e disillusi, un po’ più ciniche e cinici.

Prendiamo l’esempio del calcio maschile, lo sport nazionale italiano per eccellenza: ricordo perfettamente le decine e decine di campagne di solidarietà fatte dalle associazioni calcistiche per combattere i fenomeni di discriminazione, in particolare del razzismo, forme di violenza diffuse capillarmente tra le tifoserie e di frequente tra i calciatori stessi relegate alla “goliardia”, allo “scherzo,” alla “battuta di spirito” che la vittima, poverina, non era in grado di comprendere — sottintendendo spesso e volentieri una sua presunta rigidità o stupidità — accusandola di esagerare se si arrabbia per il trattamento ricevuto. Ricordo molto bene Totti, Del Piero, Inzaghi, Vieri, Cannavaro e tanti altri nomi importanti appellarsi alle tifoserie chiedendo di porre fine al razzismo all’interno del calcio, uno sport che secondo loro doveva promuovere l’uguaglianza, l’amicizia e il rispetto, come se la passione per il pallone fosse l’antidoto a secoli di strutture e sovrastrutture razziste e discriminatorie. All’epoca avevo all’incirca dieci anni, e osservavo quel mondo da lontano, guardando mio padre e i miei fratelli fare il tifo per la Roma e per la Nazionale. Oggi di anni ne ho quasi trentadue, sono rimasta un’osservatrice esterna al mondo calcistico, affascinata e un po’ disturbata dalle tante vicende umane in grado di intrecciarsi attorno a una palla, e la mia netta percezione è che la situazione, specie dopo la pandemia, sia peggiorata e non di poco.

Soffermandoci sul solo fenomeno del razzismo: i dati sono inclementi. Il Swg, nel 2024, rilevò che all’incirca per il 50% dei tifosi e delle tifose fosse perfettamente legittimo usare insulti discriminatori per attaccare o intimidire i giocatori della squadra avversaria, una notizia che venne riportata su più testate giornalistiche. In particolare, sulla Gazzetta dello Sport nell’ articolo in questione è possibile leggere un elevato numero di commenti che cercano di argomentare la legittimità del razzismo all’interno della tifoseria, come se fosse una tradizione da preservare, un dato di fatto incontrovertibile.

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L’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), sempre l’anno scorso, ha rilevato che il calcio è uno degli ambiti in cui il razzismo è più sdoganato: ancora la Gazzetta dello Sport riassume i dati della ricerca, sottolineando come le segnalazioni di casi di discriminazione siano in aumento a partire dal 2022 e che non sembra ci sia segno di una loro diminuzione. È forse per questo motivo che l’Oscad ha deciso di entrare a far parte della campagna Keep Racism Out nel 2024, organizzata ogni anno dalla Lega Serie A e dell’Unar (l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) — evento rinnovato anche nel 2025. Moltissimi buoni propositi, indubbiamente, ma che poco possono contro un fenomeno che ha radici profonde all’interno della società italiana, profonde a tal punto che per la maggior parte della popolazione neanche sono visibili.

Vox, l’Osservatorio italiano sui diritti, nella sua settima mappatura dell’odio sui social, mostrava una realtà sconfortante già nel 2022: «L’odio online si radicalizza, si fa più intenso, più polarizzato. Appare evidente il ruolo di alcuni mass media tradizionali nell’orientare lo scoppio di “epidemie” di intolleranza». Analizzando i post sulla piattaforma social X (ex-Twitter) Vox rivelava che: «Nel 2022 al primo posto svettano le donne (43,21%), seguite da persone con disabilità (33,95%), persone omosessuali (8,78%), migranti (7,33%), ebrei (6,58%) e islamici (0,15%). A fronte di un 2021, che vedeva una diversa distribuzione: donne (43,70%,), seguite da islamici (19,57%), persone con disabilità (16,43%), ebrei (7,60%), persone omosessuali (7,09%) e migranti (5,61%). Analizzando i dati dei singoli cluster, un altro elemento significativo che emerge è che, come accennato, in tutti i cluster la percentuale di tweet negativi è più alta rispetto alla percentuale di tweet positivi (disabili: 98,8% negativi vs. 1,2% positivi; omosessuali: 94,1% negativi vs. 5,9% positivi; ebrei: 97,7% negativi vs. 2,3% positivi; donne: 89,9% negativi vs. 10,1% positivi; islamici: 99,9% negativi vs. 0,1% positivi; xenofobia: 79,2% negativi vs. 20,8% positivi)».

Il 2025 è iniziato da poco meno di tre mesi e già il razzismo sta dando il meglio di sé tra video di eruzioni del Vesuvio generate con l’intelligenza artificiale e l’ennesimo caso — ai danni del giocatore Meise Kean — di insulti e minacce all’interno degli stadi. Per non parlare poi dei commenti discriminatori che ricevono regolarmente sportivi e sportive italiane di seconda e terza generazione — si pensi alle pallavoliste e campionesse olimpiche Paola Egonu e Myriam Sylla — quando osano dire che il popolo italiano non è composto solo ed esclusivamente da “brava gente”. La recente campagna della Polizia di Stato per promuovere la sicurezza dei cantieri stradali ha attirato odiatori e odiatrici da ogni dove per aver avuto l’ardire di mettere nella pubblicizzazione una donna nera e il suo bambino. E ancora: le decine e decine di video che appaiono regolarmente virali su internet che mostrano episodi esplicitamente razzisti ma ridotti a semplice “scherzo”, da due ragazze che ridono imitando l’accento di due turiste cinesi alla signora che ha sbraitato contro una giovane pallavolista nera chiamandola “scimmia”, andando nel panico quando la pallavolista ha reagito raggiungendola sugli spalti per confrontarla.
I social sono da questo punto di vista un’arma a doppio taglio: da una parte sono una preziosa fonte di denuncia, dall’altro attirano persone che, vuoi per spirito di far il bastian contrario a tutti i costi o perché sinceramente razziste, difendono l’indifendibile. Si prenda il caso di Willy Monteiro, il giovane massacrato di botte dai fratelli Gabriele e Marco Bianchi: la madre di questi ultimi in una intercettazione è stata sentita pronunciare parole a dir poco insensibili riguardo alla tragedia («Manco fosse morta la regina!»), i due Bianchi ci hanno tenuto a dichiarare che non sono dei mostri più che a dimostrare sincero pentimento, e molti commenti social hanno ridotto l’omicidio a una “bravata” che ha rovinato tre vite.

Davanti a questo quadro sconfortante viene da chiedersi cosa si possa fare per arginare un fenomeno che ha tutta la portata di un vero e proprio tsunami. La risposta non è semplice: i social offrono un velo di anonimato che invoglia chi non ha buone intenzioni a dare il peggio di sé, nella convinzione che non ci sia modo di risalire alla sua identità — salvo i casi in cui invece si riesce a risalire a loro: allora iniziano i: «Non ero io», «Mi hanno hackerato l’account», «Non ero in me» e altre scuse di simile natura; degni di nota sono gli uomini che fanno parlare con la vittima la loro madre o moglie, forse nella convinzione che l’intercessione di una figura femminile possa salvarli dal pagare multe salate o dal doxxing, la pratica che consiste nel pubblicare su internet le informazioni private di una persona con lo scopo di metterla in imbarazzo nella vita reale. Altre volte, purtroppo, non è possibile risalire a chi sono davvero queste persone, che continuano così ad agire indisturbate. A parte la denuncia e al bloccare gli account, le vittime non hanno reali armi per contrastare le ondate di odio.

Iniziative come la Settimana contro il razzismo dell’Unar, le compagne atte a informare, una buona educazione fino dall’infanzia, sono tutti strumenti indispensabili per la lotta contro le discriminazioni. La cultura, però, non è un anticorpo sufficiente: è necessario un cambiamento a livello legislativo che punisca con pene severe questi atteggiamenti e, ancora più importante, una svolta nella mentalità del Paese, che tende a sminuire l’accaduto pur di difendere la propria “pace” e non mettere in discussione il sistema, per poter finalmente iniziare a contrastare un fenomeno odioso come il razzismo.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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