America contro Europa. Il numero 3/2025 di Limes. Parte Prima

«La geopolitica sfugge alle tentazioni del normativismo che percorre, dove più e dove meno, le scienze politiche e quelle giuridiche. Non si chiede come vada organizzato il mondo. Lo scruta e basta, accontentandosi di provare a comprenderlo. Non sembri poco. Non è modestia ma calcolo. Infatti, solo l’astensione da giudizi di valore può illuminare la strada della comprensione. Max Weber chiariva allo scienziato una virtù che dovrebbe necessariamente possedere: “La capacità di realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè tra l’adempimento del dovere scientifico di vedere la realtà dei fatti e l’adempimento del dovere pratico di difendere i propri ideali — questo è il principio al quale dobbiamo attenerci più saldamente”[…] Lo esprimeva con un’immagine Norberto Bobbio: “L’avalutatività è la virtù dello scienziato come l’imparzialità è la virtù del giudice”». Così si apre l’articolo della rubrica La storia in carte, a cura di Edoardo Boria, che ci accompagna alla fine di ogni numero di Limes: oggi più che mai serve a orientarci nella comprensione di questi tempi di cambiamenti epocali e travolgenti, in cui gli alleati storici dell’Unione Europea sembrano essere diventati improvvisamente nemici e si comportano in modo apparentemente incomprensibile.

Il mondo di Trump

Il terzo volume del 2025 di Limes, dal titolo America contro Europa, contiene approfondimenti notevoli che, come sempre, esprimono punti di vista diversi (vera forza della rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo); tra questi mi sento di segnalare l’articolo in apertura della prima parte, a firma Federico Petroni Il nuovo credo della rivoluzione americana, un’analisi accurata delle premesse, delle necessità e della mancanza di strategia del governo Trump. Una narrazione fondata sulla conoscenza della realtà americana, scritta con chiarezza e profondità, da consigliare per le lezioni di relazioni internazionali e geopolitica nelle scuole che hanno queste discipline in programma, ma consigliabile anche nei nostri licei, dove una preparazione in queste materie manca da sempre. Una chicca di questo numero è anche l’intervista spiazzante di Lucio Caracciolo e Federico Petroni, tradotta da Giuseppe De Ruvo, a George Friedman, “La Nato non è altro che un mito”: l’eccentrico fondatore e presidente di Geopolitical Futures sostiene, con buona pace della narrazione dominante in Ue, che la Russia abbia perso la guerra e che questo basti a scongiurare il pericolo, recentemente paventato persino dal senatore Monti, di un’invasione russa nel territorio europeo; con ciò ridimensionando il ruolo della Nato. Da Friedman i popoli europei e i loro e le loro governanti sono descritti come scrocconi e profittatori, fermi a una percezione ormai superata della Russia, recentemente rivalutata dalla nuova amministrazione Usa. Afferma lo studioso di geopolitica: «Adesso che (la Federazione Russa n.d.r.) è cambiata, però, quegli stessi europei che criticavano l’America perché era troppo aggressiva, la criticano perché non lo è abbastanza. Far felici gli europei è impossibile».

Antieuropa. L’impero europeo dell’America

Il discorso di Vance a Monaco, che tante reazioni preoccupate ha suscitato in Unione Europea, è approfondito dagli articoli di Sumantra Maitra e Giuseppe De Ruvo. Il primo descrive l’utilità per gli Usa di un’Unione Europea divisa, in cui Polonia e Paesi baltici, ossessionati dalla russofobia, starebbero perdendo terreno, mentre Germania, Italia e Ungheria sarebbero importanti dal punto di vista geografico e materiale. Il secondo, con L’America dopo l’Occidente, evidenzia dal punto di vista storico e antropologico le profonde differenze tra mondo americano e realtà occidentali europee, partendo da molto prima del 1776, dal periodo compreso tra il 1630 e il 1648, quando in Europa volge al termine la Guerra dei Trent’anni e sulle coste del Massachusetts sbarca l’equipaggio dell’Arbella, nave colma di emigranti inglesi capitanati da John Winthrop. Un testo assolutamente da leggere perché, secondo De Ruvo, è proprio da lì che occorre partire se si vuole capire l’apocalisse, come la chiama Peter Thiel, cui stiamo assistendo: la rivelazione della strutturale differenza antropologica tra i popoli degli Stati Uniti e quelli dell’Europa occidentale. «La frontiera americana — scriveva lo storico Frederick Jackson Turner — si distingue nettamente da quella europea, che è una linea di confine fortificata che corre attraverso terre densamente abitate. La cosa più significativa della frontiera americana è che è posta proprio al limite dei territori aperti all’espansione e alla conquista». Da qui occorre partire per capire come le popolazioni di Usa ed Europa siano state costrette a contaminarsi solo durante la Guerra fredda, voluta dalle potenze americane e russe per spartirsi l’Europa e per evitare che quest’ultima finisse nelle mani dell’impero sovietico, scongiurando così l’unificazione. Ma ora che la Guerra fredda è finita, la contaminazione tra Europa e Usa, cioè il concetto di Occidente, è come suggerisce il suo stesso nome al tramonto, anche perché chi l’aveva costruita (i decisori della Guerra fredda, tra cui Kennan, Marshall e Kissinger) ormai «osserva questo mondo impazzito dall’alto dei cieli».

L’espansione a Ovest

Le differenze tra Europa e Stati Uniti emergono soprattutto dal discorso di insediamento di Trump, che richiama lo spirito dei pionieri, eliminando ogni riferimento ai legami col Vecchio Continente: «Siamo un paese di persone che fanno, sognano, lottano e sopravvivono. I nostri antenati hanno attraversato un vasto oceano, si sono addentrati in terre selvagge, sconosciute e hanno costruito le loro fortune sulla roccia e dal suolo di una frontiera molto pericolosa». Gli americani sono doers, dreamers, fighters e survivors, mentre gli europei in questa narrazione sono dei parassiti. Possiamo indignarci e stupirci, proprio noi che siamo stati colonizzati dalla letteratura e dal cinema americani e sedotti dall’American Dream. Dal 1991 l’Occidente culturale non esiste più, afferma De Ruvo, e chi governa oggi gli States non si cura minimamente di essere coerente e logico, smentendo il giorno dopo i giudizi o le decisioni prese il giorno prima, come ben messo in luce e con abbondanza di citazioni a pagina 77 della rivista. Che cosa fa l’Unione Europea di fronte a questa giravolta inaspettata dell’alleato storico? Si riarma sperando di diventare presto quell’Unione Federale auspicata da Spinelli e mai realizzata dagli anni della sua costituzione. L’ultimo errore di valutazione della mutata realtà di un aggregato di Stati e popoli ormai arrivato al capolinea, che non vuole tramontare e non ha ancora capito che l’America di Trump, nonostante la narrazione di molti opinionisti/e, non agisce contro l’Occidente ma «in assenza di Occidente».

Che cosa si giocano gli Usa con i dazi

Da suggerire agli studiosi e agli studenti di economia politica il bellissimo saggio di Fabrizio Maronta, I dazi come specchio dei tempi; mentre chi vuole capire meglio la Russia potrà leggere Patti chiari e amicizie lunghe di Orietta Moscatelli, che ci descrive un Putin molto diverso da quello della narrazione dominante, che profitterà della faglia euroatlantica spalancata dal ritorno di Trump alla Casa Bianca non solo per chiudere la guerra con l’Ucraina entro l’anno, ma per ricostruire su basi di reciproca convenienza il dialogo con gli Usa, impedito e giunto al punto più pericoloso dalle rigidità di Biden e Zelensky, (chissà se superato dal colloquio svoltosi in occasione del funerale di Papa Bergoglio n.d.r.). Linea confermata anche dall’intervista che Moscatelli ha avuto con Fëdor Luk’janov, direttore di Russia in Global Affairs, che si sofferma in particolare sulla «permissività occidentale» nei confronti di Zelensky, cioè sulla impossibilità a contraddirlo in questi ultimi tre anni e sulla cosiddetta Europa che rischia di essere la vera perdente di tutti gli sconvolgimenti avvenuti negli ultimi anni.

Il voto Onu

Ormai ovunque si parla del tentativo di avvicinamento americano alla Russia per allontanarla dal vero nemico, la Cina. Il punto di vista cinese su questa questione è affidato a Hou Aijun, nel suo approfondimento L’America al crepuscolo non dividerà Cina e Russia, con la traduzione di Chiara Lepri, da cui mi piace trarre e condividere la seguente riflessione: «La logica dell’egemonia vuole che il mondo sia governato da un unico padrone. Le potenze egemoniche impongono ad altri paesi l’adozione dei cosiddetti principi della democrazia e del pluralismo. Eppure, diversamente da Cina e Russia (sostenitrici del multipolarismo), non accettano né permettono la democratizzazione e la diversificazione della politica internazionale. Anzi, insistono su un sistema unipolare e monolitico…». Un articolo da leggere con grande attenzione in tutte le sue parti.
Finisce qui la “recensione divulgativa” della prima sezione del volume di aprile di Limes, con la speranza che gli spunti e le segnalazioni fornite spingano a leggere in profondità i tanti contributi che ci aiutano a capire il presente, provando a metterci «nelle scarpe degli altri».

(continua)

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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