La nostra è un’epoca strana. Mentre guardiamo al futuro teniamo i piedi ben ancorati al passato. E questa nostra postura è davvero apprezzabile; o meglio, lo sarebbe nel momento in cui riuscissimo davvero a trarre dai tempi che furono quegli insegnamenti necessari a non commettere gli stessi errori nei tempi che sono e che saranno. Ma, ahimè, mi sembra che nella realtà le cose vadano del tutto diversamente! Così, alcuni individui, magari chi si diletta in grottesche rievocazioni dell’epoca fascista, vengono richiamati al ricordo affinché la smettano con queste castronerie e si rendano conto di quanto siano macchiettistici. L’obiezione, in questo caso, è che questi grotteschi nostalgici hanno, in verità, una memoria molto viva del passato! Viziata, errata, stolta? Sicuramente, ma indiscutibilmente viva.
Il problema è che di esaltati fuori tempo e fuori luogo ne è pieno il mondo. Così, mentre sogniamo di andare su Marte, nel frattempo immaginiamo deportazioni; prevediamo il reato di apologia al fascismo e intanto tacciamo di fronte alle commemorazioni dei “camerati”; introduciamo la legge Codice rosso ma poi guai a chi parla di patriarcato. Insomma, il passato, quello più nefasto e brutale, è il nostro presente solo travestito con abiti nuovi; l’involuzione dietro la patina dorata dell’evoluzione.
A questa attualizzazione edulcorata del nostro vissuto più triste non si sottraggono nemmeno i luoghi del lavoro e il lavoro stesso. Ne è una testimonianza e una conferma Il magazzino. Lavoro e macchine ad Amazon, libro in cui Alessandro Delfanti, ricercatore e professore associato all’Università di Toronto, fa una disamina della brutale realtà lavorativa dei magazzini del colosso americano dell’e-commerce.
Dal 1994 a oggi, l’azienda di Jeff Bezos, nata inizialmente come libreria online, ha ampliato enormemente la propria offerta e i propri servizi, affiancando la vendita di prodotti online con la fornitura di spazi web e di tecnologie per la sorveglianza, supermercati biologici e la piattaforma streaming PrimeVideo. La capacità con cui la compagnia di Seattle è riuscita a colonizzare interi segmenti di mercato e ad allargare la sua presenza a livello mondiale, ne ha fatto un modello a cui guardare e un concorrente con cui le altre aziende cercano costantemente di stare al passo, tentando anche loro di riuscire a rispondere agli eccessi del consumismo moderno con la stessa rapidità ed efficienza.
Per riuscire a conquistare una posizione di monopolio globale e «annullare la distanza tra le sue centinaia di milioni di clienti e le merci di cui hanno bisogno e che desiderano», Amazon si avvale di un sistema di infrastrutture materiali e immateriali particolarmente articolato. Se oggi l’azienda riesce a coprire con i suoi servizi il 97% dei territori del globo ciò si deve ai 300 fullfilment center dislocati nel mondo e al costante flusso di dati che li collega. Ma senza i milioni di lavoratori e di lavoratrici che operano all’interno dei magazzini, le merci in essi depositate rimarrebbero invendute e le informazioni necessarie per la gestione dell’intera filiera di distribuzione conoscenze inservibili. Così Amazon diventa un procacciatore insaziabile di forza lavoro e, nelle città dove permangono alti tassi di disoccupazione, inizia la staffetta per accaparrarsi il prossimo fulfillment center amazoniano. E come accade in ogni regime capitalistico che si rispetti e in tutti i contesti di consumismo sfrenato, a venir meno è la qualità del lavoro e la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici.
Lo sanno bene 1,5 milioni di dipendenti che ogni giorno, sotto lo slogan “Work hard. Have fun. Make history”, si trovano a dover fare i conti con una condizione lavorativa spesso precaria, con forme organizzative algocratiche e con un contesto di automazione dirompente dove le macchine, piuttosto che facilitare il lavoro, contribuiscono a impoverirlo, rendendo obsoleta e altamente sfruttabile la manodopera. D’altronde, se «in Italia i diritti del lavoro conquistati negli anni Sessanta e Settanta garantiscono ai dipendenti assunti direttamente da Amazon l’accesso a un contratto nazionale che assicura uno stipendio minimo e buste paga regolari, contributi previdenziali, sei settimane di ferie all’anno e la tredicesima», allo stesso tempo, contratti come i Mog (Monte Ore Garantito) agevolano e legittimano la precarietà dei lavoratori e delle lavoratrici temporanei di cui Amazon si avvale per gestire i picchi di lavoro in prossimità del Prime Day o di Natale.
Il termine algocrazia, come riportato da Delfanti, è stato coniato dal sociologo Aneesh per evidenziare forme organizzative asimmetriche «che gli algoritmi consentono al management di creare e controllare a proprio vantaggio». Il vocabolo si presta perfettamente al caso di Amazon dove le informazioni prodotte dalla forza lavoro vengono processate per via algoritmica per consentire non solo di affinare l’intero processo di lavoro ma anche per permettere alla dirigenza di esercitare il controllo sui e sulle proprie dipendenti. Ogni associate (termine tecnico con cui vengono definiti i lavoratori e le lavoratrici amazoniane) è dotato di uno scanner che serve a registrare le informazioni (quali la collazione di ciascun oggetto presente in magazzino), ad attribuire compiti e a monitorare qualsiasi movimento del personale. In questo modo diventa possibile misurare tempi e ritmi del lavoro di ogni dipendente per poi procedere, laddove venga superata una certa soglia di tempo di inattività, con richiami e ammonimenti. Questo modo di procedere porta con sé discriminazioni di genere rilevanti: poiché vengono conteggiati tra i minuti di stasi anche le pause per andare in bagno, va da sé che una donna incinta sia maggiormente esposta a eventuali sanzioni.
Ma la gestione algoritmica del lavoro non esaurisce qui le sue finalità: integrata con una robotizzazione sempre più massiccia, essa diventa funzionale ad aumentare la produttività della manodopera e a standardizzare sempre più le mansioni di ogni dipendente. In entrambi i casi l’intento è quello di comprimere i tempi affinché le merci (e di conseguenza i guadagni) circolino senza sosta e diminuisca la dipendenza dal lavoro qualificato più difficilmente rimpiazzabile. Lo stoccaggio caotico che vige nei magazzini Amazon, dove è possibile orientarsi solo grazie allo scanner e al software che lo governa, «è una forma di espropriazione da parte delle macchine ai danni della manodopera perché questa viene così deprivata di una caratteristica cruciale del lavoro di magazzino di un tempo: la necessità che i lavoratori e le lavoratrici conoscessero sempre meglio il magazzino, una necessità che li rendeva preziosi e insostituibili». Si tratta di una versione 2.0 del taylorismo di fine Ottocento in cui cronometro e taccuino, gli strumenti con cui il capo reparto registrava l’attività operaia, vengono sostituiti con l’analisi dei dati generati dal lavoro umano.
Strettamente vigilato, il personale amazoniano cerca di stare al passo con i ritmi richiesti dal management spingendo il proprio corpo al limite. Non è un caso che Amazon primeggi su tutte le altre aziende del genere per numero di infortuni e di incidenti, situazione questa che viene aggravata anche dai più recenti robot Kiva di cui la compagnia si sta dotando. Trasformati in merce, i corpi umani ne condividono l’obsolescenza: appena si “romperanno”, essi verranno sostituiti con altre vittime di disoccupazione e prive di alternative.
Scrive Delfanti: «L’automazione è una componente chiave del desiderio capitalista di potere e controllo e molti temono che i magazzini saranno presto completamente automatizzati e che la manodopera verrà del tutto rimpiazzata da robot che non scioperano, non si ammalano, non chiedono soldi in più per gli straordinari e non si rifiutano di fare i turni di notte». Non è questo il caso. Infatti, come conferma il professore: «Amazon non ha alcun problema ad ammettere che ci sarà comunque bisogno di lavoro umano; la manodopera resterà perché costa meno ed è più facile da controllare e scartare rispetto ai robot. Ciò che Amazon sogna in realtà sono nuovi modi per spremere valore dalle lavoratrici e dai lavoratori. Quello che sogna è di trattarli come robot». Ma se c’è una cosa che anche un capitalista plurimiliardario come Jeff Bezos non potrà mai possedere del tutto è proprio la forza lavoro umana. E allora, nonostante la sorveglianza pervasiva di cui la dirigenza si avvale anche per sedare qualsiasi fermento sindacale, i lavoratori e le lavoratrici di Amazon possono ancora far valere la propria voce e, come conclude Delfanti, mimare la rilettura contemporanea che il loro capo fa del passato: se i magazzini amazoniani sono una rivisitazione attuale della fabbrica del passato, allora, per poter trasformare in modo sostanziale le proprie condizioni di lavoro, i lavoratori e le lavoratrici possono assumere quella postura positiva di cui parlavo all’inizio e recuperare dai tempi che furono le vecchie tattiche del movimento operaio che, meglio di noi, seppe fare la rivoluzione!

Alessandro Delfanti
Il magazzino. Lavoro e Macchine ad Amazon
Codice Edizioni, 2023
pp.256
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
