Dopo i due racconti vincitori della Sezione C – Narrazioni (li si può leggere nei numeri 320 e 321), iniziamo ora la pubblicazione dei cinque racconti finalisti della XII edizione del Concorso di Toponomastica femminile, Sulle vie della parità, dal tema quest’anno Le donne e le arti. Riportiamo qui il racconto, Il dono della scrittura, di Micaela Calloni, studente di Filologia moderna alla Sapienza di Roma, che ha scelto l’incipit di Adil Bellafqih (in corsivo nel testo). L’ordine di presentazione dei racconti rimane quello, rigorosamente alfabetico, tratto dai cognomi delle autrici.
La giuria ha espresso il proprio giudizio sul racconto nel modo seguente: «Aderente al tema e coerente con l’incipit scelto, il racconto appare discretamente strutturato. Curata la descrizione dell’ambiente e ben schizzati i personaggi. La narrazione, che procede in modo sciolto, si avvale di una prosa corretta».
Il dono della scrittura
di Micaela Calloni
«Sta per scoppiare una tempesta.»
La barca era quasi a riva. Oltre le chiome degli alberi spazzate dal vento, Mary poteva intravedere il profilo di villa Diodati.
«Ho sentito alcuni turisti» disse Percy, continuando a remare. «Dicono che la villa è stregata.»
«Merito della reputazione del tuo amico» disse Mary.
«Non parlare male di lui» squittì Claire, con l’indice a sfiorare l’acqua nera del lago.
«Lord Byron ti piacerà, Mary. È solo… Byron.»
Claire rise. «Dicono che sia un vampiro. Se solo sapessero come sa mordere bene il collo…»
«Claire!»
«Eccoci.»
Percy smontò dalla barca e legò la cima. Claire saltò giù e corse lungo il sentiero, con la gonna svolazzante.
«Claire! Torna qui!»
«Lasciala» disse Percy, prendendola per i fianchi e facendole fare una piroetta, mentre i lampi illuminavano l’orizzonte. «Vedrai, ci divertiremo.»
Mary Shelley gli sorrise e lo baciò. Ancora non sapeva che quella notte, dopo il laudano e la seduta spiritica, avrebbe visto per la prima volta gli occhi gialli del Mostro.
«Buh!» Dalla colonna di fronte al portone d’ingresso apparve improvvisamente un’affascinante chioma riccia e lucente, di colore nero. «Claire! Ci hai spaventati a morte!» esclamò Mary, seguita dallo sguardo curioso di Percy. La villa quella sera era immersa in un’atmosfera tenebrosa, avvolta da una leggera nebbia dalla quale filtrava fioca la luce della luna. Sotto il porticato, il chiarore della sera misto alla luce intermittente dei lampi si rifletteva sul volto di Claire. Lo strano pallore delle sue guance la faceva sembrare un fantasma. «Signori», irruppe Claire, «Ho l’onore di presentarvi l’incantevole, l’immenso, il grandioso George Gordon Noel Byron, il più grande poeta inglese del secolo, nonché mio amante!» Le mani di Claire si mossero in un fiero applauso, mentre i suoi vividi occhi neri si voltarono verso la porta d’ingresso, in attesa che quel misterioso uomo facesse la sua comparsa. Un attimo dopo, dall’ombra della notte si delinearono pian piano i contorni sinuosi di un uomo che — adesso era chiaro — era alto, esile e dal portamento elegante. Lo sguardo sicuro di Byron si posò immediatamente su Mary. «E così voi dovete essere Mary, la sorellastra della mia amata Claire…» «In persona, signore» rispose Mary accennando un timido sorriso «Ed è un tale piacere per me conoscere il compositore di così belle poesie». Byron le fece un cenno con il capo in segno di ringraziamento. Subito dopo Mary fu distratta dall’oscuro ambiente circostante.
«Anche se adesso capisco bene da dove proviene il magico sentimento d’avventura dei vostri componimenti… non avete paura a vivere in un posto del genere?» Mary incrociò lo sguardo di pietra di una statua posta nel giardino della villa, accanto alla fontana, e quasi le sembrò che quella si animasse, provocandole un brivido lungo la schiena.
«Oh, Mary, ti prego» Claire la riportò alla realtà «George non potrebbe vivere se gli si togliessero queste avventure soprannaturali!» Improvvisamente un tuono fece trasalire tutti quanti, e la pioggia battente li costrinse a cercare riparo sotto al porticato. Byron guardava il cielo con una sorta di ammirazione, distratto dalla magnificenza di quel fenomeno naturale.
«Beh, signori» esclamò compiaciuto Byron riportando gli occhi sui suoi amici «Claire ha ragione, e io non posso che invitarvi a entrare… vivrete una notte da brividi!»
Byron spinse la porta d’ingresso in legno scuro e Mary poté osservare la villa al suo interno. Il salone, scuro anch’esso nei suoi mobili, era illuminato da candele disposte qua e là, a costruire un sentiero che culminava nell’oggetto principale di quella sera. Sul tavolo da pranzo Byron aveva disposto una tavoletta di legno che somigliava a un gioco da tavolo, sulla quale, con la luce fioca del salone, si potevano intravedere numeri e lettere incise e marchiate d’oro.
«Che cos’è?» chiese Mary a Percy, che alla domanda accennò un sorriso.
«Serve per le sedute spiritiche… quando ho detto che la casa è stregata non stavo scherzando.» «Su, su, iniziamo il nostro gioco!» li sorprese Byron alle spalle con un gesto che indicava agli ospiti di sedersi al tavolo.
Dalla cucina adiacente Claire comparve con una bottiglia di vino che aprì e versò in uno dei calici disposti sul tavolo. Subito dopo lo passò a Mary, che osservò dubbiosa il liquido bruno.
«Bevilo lentamente, Mary» le disse Claire, come se le avesse letto nel pensiero «C’è del laudano dentro». I suoi occhi maliziosi incoraggiarono Mary ad assaggiarlo. Claire avvicinò il bicchiere alle labbra, Mary la imitò sorseggiando il vino, e così Percy, mentre Byron ebbe una delle sue originali idee. «Potremmo scrivere dei racconti di paura. Uno a testa: ci isoleremo nelle nostre stanze per tutta la notte e all’alba colui che avrà scritto il racconto migliore vincerà…» «Oh George, apprezzo la tua fiducia, ma non credo che io e Mary potremmo mai reggere il confronto con due scrittori come voi. Non è una gara equa!» Claire ridacchiò.
«Ci sto» la interruppe Mary sicura di sé «Scriverò la storia migliore di tutti». Claire si voltò verso di lei, sorpresa.
«Vedremo» rispose Byron scrutando l’espressione di Mary «Ognuno nella propria stanza!».
Salite le scale, Mary si fermò alla prima porta, osservando Byron che proseguiva con un’andatura lenta lungo il corridoio. Non appena appoggiò le dita sulla maniglia, Byron sollevò il capo, e i suoi intensi occhi celesti incrociarono quelli di Mary in segno di intesa. Mary, dal canto suo, aveva la mente offuscata.
Entrò nella stanza e sedette sul letto. La luna filtrava attraverso i vetri della finestra, andando a illuminare, sulla scrivania di fronte a Mary, i fogli di carta ruvidi e giallognoli, sulla quale ella, qualche ora dopo, avrebbe dato vita al Mostro. Le pagine bianche, silenziose, immobili, attendevano il primo segno d’inchiostro. Di fianco a esse, il pennino imbevuto di tinta nera e densa, che pure sembrava attendere di essere avvolto dalla mano di Mary. L’oggetto gridava «Stringimi! Fammi scorrere sul foglio! Serviti di me per l’arte per la quale sei nata, l’arte di scrivere. Questa dote è tua, Mary, tua più di quanto non sia mai stata di qualunque altro!»
Mary si adagiò sul letto e chiuse gli occhi, mentre la Terra attorno a lei girava come in un vortice. Le sembrava di vedere un colore giallo ocra che andava a depositarsi in uno spazio circolare, attorno a due fessure nere. Adesso parevano qualcosa di familiare, forse degli occhi, sì, proprio degli occhi, fissi sul soffitto proprio come lo erano stati i suoi qualche attimo prima. Poi una fronte, certo strana, come se fosse cucita a pezzi, sulla quale, a ben vedere, erano cresciuti degli ispidi capelli neri. Sembrava un mostro. Quello strano soggetto della sua visione emetteva dei lamenti infelici, dolorosi, mentre sopra di lui un medico era impegnato con arnesi in metallo a cucire e ricucire.
Mary si alzò di scatto, pervasa di sudore, mentre un lungo brivido le percorreva il corpo. Si sedette alla scrivania, impugnò la penna, incerta, come se le idee dovessero cercare il loro posto tra il pensiero e il foglio. Piano piano si lasciò trasportare dalle immagini del suo incubo. Le parole, partorite con assoluta naturalezza dal suo intelletto, passavano sussurrate sulle labbra, le attraversavano il petto per poi prendere forma tramite il movimento della punta delle sue candide dita. Le sembrava come se niente le fosse mai riuscito così bene come scrivere, dare corpo alle immagini create dalla sua mente quella sera. Adesso ricordava i termini scientifici che le aveva insegnato suo padre, gli scenari immaginari e fantastici dei racconti gotici che leggeva con Percy, le letture di quando era bambina. Era come se tutti i suoi studi passati, tutto il suo genio creativo avesse raggiunto il compimento necessario con quel racconto, così denso di immagini e tecnicamente perfetto. Man mano che il racconto si componeva, Mary scopriva ciò che era già lì, nascosto sotto la superficie: il dono della scrittura. La mano non accennava a fermarsi, e adesso Mary non scriveva più per gioco, non più per battere Byron nella sfida di quella notte, ma scriveva per sé stessa. Scriveva per dimostrare a Claire che ne era perfettamente capace e che, se avesse voluto, anche lei avrebbe potuto esserlo. E quindi forse non scriveva più solo per sé stessa, ma anche per tutte le altre donne, per chi, nel futuro, lo avesse voluto, proprio come lei in quel momento.
All’alba, sulla scrivania, viveva e respirava con le sue parole un insieme di pagine inchiostrate. Mary, oltre al suo Mostro, aveva creato qualcosa di ben più grande, un capolavoro di narrativa.
Con un tocco gentile, Percy bussò alla porta, e insieme raggiunsero gli altri.
Il caminetto era ancora acceso, e la fiamma lucente risvegliò Mary dal torpore misterioso di quella notte. Claire e Byron erano già seduti sul divano. «Quanto sono curiosa di sentire la tua storia, Mary!» esordì Claire con la sua voce squillante. Percy si fece avanti: «Se posso, signori, inizierei io.» «Con piacere, mio caro amico» disse Byron.
La storia di Percy era notevole, raccontava di cimiteri e fantasmi, oscuri spettri che si aggiravano sul lago di Ginevra. Mary lo guardava con ammirazione per il grande potere evocativo del suo racconto.
Poi venne il turno di Byron: la sua storia era così ben scritta, così articolata ed espressiva, che a un certo punto a Mary parve di vedere il vampiro oggetto del racconto proprio accanto a sé.
«Mary… la scena è tutta tua» esclamò Byron.
Mary si alzò, timidamente, si andò a collocare al centro del tappeto orientale posto davanti al divano e si schiarì la voce. Tutti la osservavano in attesa che iniziasse.
Mary pronunciò la prima parola, poi le altre, prima piano, quasi sussurrando, poi in crescendo, fino a dare la giusta enfasi alla storia del Mostro e di Victor Frankenstein, colui che l’aveva creato. Claire si portò una mano alla bocca dall’orrore che le ispiravano gli esperimenti di Victor Frankenstein, Percy quasi sobbalzava, Byron teneva lo sguardo fisso sul manoscritto, visibilmente turbato.
Quando Mary girò l’ultimo foglio e lesse la parola “fine”, anche la pioggia diminuì pian piano la sua intensità, fino a lasciare spazio al cupo silenzio della villa. Fu una tale emozione per tutti che si accettò di rimandare il racconto di Claire alla sera successiva. Gli sguardi rimanevano fissi su Mary, increduli, ancora scossi, compiaciuti.
Il giorno dopo, passeggiando sotto il cielo grigio, Percy sembrava pensieroso.
«C’è qualcosa che non va?» gli chiese Mary preoccupata. Percy si fermò, le prese le mani e i suoi occhi sinceri incontrarono quelli dell’amata. «Devi farne un romanzo, Mary. La tua opera merita di essere letta».
***
Articolo di Loretta Junck

Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).
