Jeans, Eskimo e omologazione. Parte seconda

L’eskimo è un indumento con cappuccio usato dalle popolazioni Inuit del grande nord canadese (oggi Nunavut), dell’Alaska (USA) e della Groenlandia (Danimarca). Originariamente gli Inuit, gli Aleutini e i Dene utilizzavano vari tipi di giacche impermeabili, dette anorak o parka, spesso chiamate dai bianchi genericamente eskimo, dal soprannome Eskimo (Esquimesi) dato dai Cree ai loro nemici Inuit. L’anorak/parka era fatto in materiale idrorepellente, in genere vescica di foca o di altri mammiferi marini, oppure pelle di foca o renna, resa impermeabile; mentre l’interno era foderato di pelliccia, insieme al cappuccio.

Parka impermeabile inuit ottenuta cucendo vesciche di foca

La fabbricazione di un anorak/parka era un lavoro tipicamente femminile, molto impegnativo e gravato da numerosi tabù. Uno dei più importanti era il fatto che la cucitrice non doveva assolutamente saldare, insieme al rivestimento o alle pellicce, un suo capello: questo avrebbe impedito al cacciatore che indossava l’anorak di colpire la preda. Presso gli Inuit vi è una correlazione magica tra la donna e la preda, come vi è una corrispondenza magica tra la guerra, la caccia e il coito: infatti, in tutti e tre i casi, avviene una penetrazione (della lancia/arpione/freccia e del pene). La donna-moglie e l’animale-preda sono una la metafora dell’altra o, detto in altri termini, sono corrispondenti per magia simpatica: quello che farà la moglie, mentre il marito è a caccia, influenzerà la selvaggina. Se ella mangerà cibi grassi, la preda sarà grassa; se sarà assetata, l’animale (ad esempio, un mammifero marino) andrà verso la foce dei fiumi; se pettinandosi si aggroviglierà i capelli, anche le corde delle fiocine si aggroviglieranno. Se avrà la “sciatteria” di cucire un proprio capello mentre confeziona l’anorak del marito, la preda sfuggirà al cacciatore.

Parka/anorak maschile inuit

Di conseguenza, i parka/anorak maschile e femminile erano confezionati in modo differente. Il parka/anorak maschile utilizzava le pelli d’animale, facendo combaciare la testa e le zampe anteriori con le braccia, mentre la coda e le zampe posteriori erano in basso. L’orlo della parte anteriore era tagliato a punta o era lasciata pendere la coda — evidente metafora del membro maschile. Si utilizzavano, inoltre, intarsi di pellicce di animali, le cui caratteristiche fossero metonimiche con le abilità richieste a un cacciatore (ad esempio, la pelle di volpe dava al cacciatore astuzia e agilità). Il cappuccio maschile rimaneva aderente per non lasciar passare il freddo e l’acqua.

Parka/anorak femminile inuit

Nel caso del parka/anorak femminile le pelli erano cucite in modo opposto: la pelle dei quarti posteriori (e la zona dei genitali dell’animale) era posta in alto e quella della testa e delle zampe anteriori in basso; inoltre, l’orlo della parte inferiore era allargato e tagliato a forma di mezza luna. Anche le pellicce usate erano collegate alle doti richieste a una donna. Completava il parka femminile un cappuccio molto largo che serviva per tenervi il neonato.

Parka/anorak femminile col bimbo dentro il cappuccio

Dalla seconda metà del 1900, il parka/anorak fu adottato dalle truppe americane di stanza in Alaska e in Groenlandia, ma venne realizzato in fibra sintetica impermeabile, come il nylon. Nello stesso periodo, con l’utilizzo del capo di abbigliamento da parte delle forze armate e dei civili non nativi, i termini parka e anorak non divennero più sinonimi: la parola anorak venne usata più specificamente per indicare la giacca impermeabile con la zip frontale fino al petto e un grosso tascone centrale (anche se oggi si tende a usarla anche per le giacche con cappuccio completamente abbottonate davanti); mentre la parola parka/eskimo rimase per il giaccone chiuso con una zip sul davanti in tutta la sua lunghezza.

Parka dei militari USA negli anni 1950

Sul fronte della moda occidentale anorak/parka ed eskimo hanno debuttato come indumenti militari in pesante cotone antipioggia o in materiale tecnico, grigioverdi, grigi o camouflage. Il modello base del parka deriva da quello dei militari USA degli anni Cinquanta, poi adottato dai Mods britannici negli anni Sessanta, per diventare l’eskimo della rivoluzione studentesca e operaia del 1968 e ritornare di moda nello stile grunge anni Novanta.

Parka/eskimo dei Mods inglesi negli anni 1960

In sintesi l’eskimo è un giaccone impermeabile di semplice fattura con interno in fodera di pelo sintetico (finto montone), di lunghezza variabile da metà coscia a sopra il ginocchio, dotato di cappuccio, chiudibile sul davanti con una coppia di bottoni metallici. L’indumento si chiude con chiusura antivento tramite una cerniera a lampo metallica e bottoni a pressione. La parte interna della pelliccia ha maniche che finiscono ai polsi con una maglia elastica per garantire la tenuta del polsino e impedire l’ingresso di aria fredda. È presente una cintura con fibbia infilata sulla schiena in un lungo passante; presenta anche due tasconi applicati e uno o due coulisse (scanalatura costituita da un lembo di stoffa ripiegato su se stesso e fissato tramite una cucitura che corre parallelamente alla piega per far passare una cintura o un laccio) sul fondo e/o in vita.

L’eskimo degli anni 1960-70

La versione militare dell’eskimo, di colore grigioverde con interno in pelo sintetico biancastro, inizialmente in vendita in negozi di articoli ex militari — nel Veneto i cosiddetti American Strasse (ovvero Stracci Americani) — ben presto trovò spazio nelle botteghe specializzate nella vendita di jeans e nelle bancarelle dei mercati. Divenne poi un indumento di largo uso, soprattutto grazie alle rivolte operaie e studentesche del 1968, come simbolo di proletariato, poiché accessibile alle fasce meno abbienti. Benché meno usati, c’erano anche eskimo di colore blu scuro, marrone e beige.

L’eskimo “rivoluzionario” del 1968

A questo punto una si può chiedere come mai degli indumenti militari fossero diventati talmente comuni e usati da apparire quasi come una uniforme “rivoluzionaria”, ovvero un indumento che sembrerebbe la cosa più lontana possibile dalla «fantasia al potere», citando un fortunato slogan del 1968. E, peggio, perché un capo militare aveva così tanto fascino tra i rivoluzionari e le femministe di quegli anni?
E che anni erano quelli! Erano gli anni della Guerra del Vietnam, che portò in tempo reale la guerra in ogni casa dove ci fosse un televisore; erano gli anni in cui la propaganda sovietica e dei suoi satelliti, i partiti comunisti occidentali, lanciavano l’immagine del piccolo contadino vietnamita che sconfiggeva il gigante americano, riproponendo la storia biblica di Davide e Golia immortalata da innumerevoli artisti europei. L’immagine era evocativa e potente ed era accompagnata dalla strategia sulla propaganda pacifista che Stalin aveva sviscerato fin dal 1928. Infatti, nel testo pubblicato su Leningradskaia Pravda del 14 luglio 1928, Stalin presentava una nuova definizione del pacifismo borghese come «pacifismo imperialista», con la sua Società delle nazioni e i suoi sermoni sulla pace, il divieto di guerra, il discorso sul disarmo.
In questo contesto, Stalin analizzò la socialdemocrazia come «il principale veicolo di pacifismo imperialista nella classe operaia». Forte di quest’analisi e delle esperienze precedenti la Seconda guerra mondiale, Stalin decise di rovesciare l’arma del pacifismo contro i paesi imperialisti occidentali allo scopo di «prendere fiato». Con l’inizio della Guerra fredda, inaugurata col Blocco di Berlino, e il conseguente Ponte aereo (1948-49), in molte nazioni dell’Europa occidentale sorsero i Partigiani della pace: un movimento di opposizione alla nascita del Patto atlantico (Nato), che attuava varie iniziative rivolte contro Paesi del blocco occidentale, anticipando e inaugurando decenni di antioccidentalismo militante.

Immagine del Ponte Aereo di Berlino

Nel maggio del 1949, contro l’adesione dell’Italia alla Nato (in discussione in Parlamento) il movimento dei Partigiani della pace promosse una petizione nazionale che raccolse più di sei milioni di firme. Nei primi mesi del 1950 la lotta dei Partigiani della pace in Europa si concretizzò nella protesta contro lo sbarco delle armi americane destinate ai paesi della Nato.
Miriam Mafai, nel suo libro L’uomo che sognava la lotta armata, scrisse che un ruolo fondamentale nella organizzazione dei Partigiani della pace era rivestito dal vice segretario del Partito comunista italiano, Pietro Secchia: «il ritorno di Secchia da Mosca serve a imprimere un nuovo slancio al movimento dei Partigiani della Pace, che si mobilitano in una campagna a tappeto contro l’intervento americano in Corea».
In realtà, nella visione di Stalin, i movimenti per la pace fomentati e finanziati in Occidente servivano a indebolire il fronte interno in vista di un’eventuale guerra e a reclutare eventuali spie. Gli intellettuali borghesi non organici (in senso gramsciano) che vi aderivano erano visti come «utili idioti». L’espressione girava da anni. Essa è stata attribuita a Lenin che si dice avesse usato la frase «utili idioti dell’Occidente», per descrivere quei/quelle giornaliste e viaggiatrici occidentali che sostenevano l’Unione Sovietica e le sue politiche in Occidente. Pare, tuttavia, che negli scritti di Lenin non ve ne sia traccia, anche se nulla impedisce che l’abbia effettivamente usata in qualche sede. Altri affermano che sia stata coniata da Stalin, riferendosi a coloro che, per ingenuità, finivano col fare gli interessi dei partiti di sinistra (e specialmente del Partito comunista), pur non militandovi. Sia come sia, nel 1948, la frase fu usata in un articolo del New York Times, citando un articolo del quotidiano L’Umanità (quotidiano politico del Psdi di Saragat), in relazione alla politica italiana.

Gli anni della Contestazione e l’eskimo “divisa”

L’espressione «utili idioti» — di chiunque sia il copyright — attecchì nell’immaginario sia di destra che di sinistra, dato che molti di noi militanti di sinistra “duri e puri” vedevamo, appunto, come degli “utili idioti” un po’ noiosi e piagnucolosi tutti quelli che non erano, appunto, “duri” e “puri”, ignorando purtroppo l’altra massima, ovvero che «c’è sempre uno più puro di te che ti epura» (cit. Pietro Nenni).
Così mentre ufficialmente si organizzavano marce per la pace a favore del Vietnam, i leader e i militanti della sinistra rivoluzionaria sognavano la rivoluzione che sì «a volte deve passare sotto la pancia di un cavallo cosacco» (cit. Trockij), ma che notoriamente «non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra» (cit. Mao Zedong).

Guardie Rosse della Rivoluzione culturale col Libretto Rosso di Mao Zedong

Erano infatti anche gli anni della Rivoluzione culturale cinese, di cui a noi arrivavano solo le immagini degli studenti tutti vestiti con la stessa povera divisa verde o azzurra, immortale esempio di raggiunta uguaglianza di classe. Così nel mentre si chiedeva in piazza la pace in Vietnam e in Palestina, nelle aule e nelle sedi di partiti e gruppi extraparlamentari, brandendo il Libretto Rosso. Ci si eccitava con frasi del tipo «ogni comunista deve comprendere questa verità: “il potere politico nasce dalla canna del fucile”» (cit. Mao Zedong). E nell’attesa dell’auspicato giorno della presa del Palazzo d’Inverno (anche se non c’era in Italia un Palazzo d’Inverno da prendere) ci si vestiva in un modo che richiamasse la lotta armata vagheggiata e desiderata.
Così l’eskimo, indumento militare, divenne l’uniforme del movimento studentesco e operaio del 1968. Esso era, appunto, uniformante, cancellava le differenze di classe, era economico, pratico, ammiccante alla lotta armata e alla rivoluzione, simile ai giubbotti dell’esercito tedesco, che facevano bella mostra di sé nelle foto dei partigiani scesi in città il 25 aprile.

Il “pigiama nero” uniforme del Vietcong

Ci si può chiedere perché si sia scelto l’eskimo americano invece del “pigiama nero” del vietcong. La risposta è semplice: l’eskimo era quanto di più simile si poteva trovare alla divisa delle guardie rosse cinesi. Era simbolo di ribellione, grazie ai Mods, e, soprattutto, l’industria del pret-à-porter già sfornava eskimi per le truppe, per cui diventava facile venderli anche ai civili. E non dimentichiamo che l’eskimo era adatto per i climi rigidi del nord e il pigiama tropicale non aveva futuro con i primi freddi d’autunno.

Femministe del Centro femminista di Padova nel 1975 con il classico eskimo

E noi femministe? Noi femministe sentivamo con forza il fascino di quella narrazione, perché la nostra provenienza, soprattutto quella delle leader, era esattamente quella. Inoltre, la violenza maschile nelle manifestazioni ci obbligava a prendere in considerazione, a nostra volta, tale tema. A tal proposito, non si può trascurare chi, per sua essenza, usa la violenza: le forze armate, i militari e il loro equipaggiamento.

La gonna lunga a portafoglio in batik di cotone indiano (sarong) delle hippie

Tuttavia all’eskimo e ai jeans, dal 1973 in opposizione alla minigonna — da molte femministe vissuta come un indumento maschilista — cominciò ad arrivare la moda del sarong, la gonna lunga lanciata dalle donne dei movimenti hippie delle comuni della California. Così l’abito della femminista rivoluzionaria divenne un ossimoro: in alto il militaresco eskimo e in basso la lunga gonna a fiori o con sgargianti disegni a batik, in cotone indiano, tipica delle comuni hippie e dei movimenti pacifisti, che si ispiravano all’ahimsa, alla non violenza gandhiana, e al viaggio in India per ritrovare, insieme ai Beatles, la spiritualità perduta. Poco importava che la gonna a portafoglio indiana nascesse in autentiche fabbriche del sudore e dello sfruttamento del Terzo Mondo: costava poco e, nella sua esoticità, ammiccava alle lotte di liberazione anticolonialiste.
La gonna lunga piaceva molto anche a coloro che predicavano che le donne fossero naturalmente pacifiche, non violente, in quanto custodi del lavoro di cura della prole e della comunità — in opposizione al maschio bellicoso, aggressivo ed egoista. Così, tramite un capo di vestiario, si riproponeva subliminalmente il vecchio adagio della donna “angelo della casa”, riproposto come natura e non come cultura (si affacciava in quegli anni l’ecologismo “rosso”, che fin dalla nascita era invece stato “bruno”), ovvero il tradizionale ruolo di riproduttrice della forza lavoro, che il femminismo militante aveva denunciato e combattuto, ma che la sinistra di partiti e sindacati aveva dimenticato abbracciandolo senza riserve come “destino” femminile.

Le dee guerriere dell’età del Bronzo: Sekhmet, Ishtar, Athena, Freya, Durga

Eppure questa immagine della donna pacifica, dedita «al fuso e alla conocchia», moglie e madre esemplare che rifuggiva per natura dalla violenza e dalla guerra, faceva a cazzotti con tutte le dee guerriere dell’Età del Bronzo-Ferro: da Sekhmet, la dea della guerra dalla testa di leonessa degli Egizi, a Ishtar dei Babilonesi, ad Athena, la dea della guerra greca e Artemide, anch’essa dea della caccia e della guerra, a Freya che cavalca i campi di battaglia e che ha diritto alle anime di metà dei caduti, a Durga (identificata nel suo aspetto irato nella dea Kali), che cavalca una tigre (o un leone) e le cui numerose braccia impugnano armi. Evidentemente all’epoca non avevano un’idea così pacifica delle donne, dato che le loro divinità dell’amore, dell’erotismo, della fertilità erano tutte dee bellicose. Poi il modello di queste divinità femminili scomparve, le donne vennero rinchiuse in casa, oppresse e senza potere. In molti miti fondatori gli eroi divenivano tali sconfiggendo le donne guerriere, come ci testimoniano le innumerevoli Amazzonomachie. Il che ritorna nell’ordine delle cose: a chi hai reso schiava, non dai armi. Questa è la regola numero uno.

Sarong in cotone con i tipici disegni indù stampati a batik.

Entrambi i capi (gonna lunga ed eskimo) erano due capisaldi del pret-à-porter e furono declinati dai grandi stilisti in ogni possibile modo. Poi, con la crisi petrolifera del 1973, le gonne dovevano tornare lunghe… è l’economia, ragazze.

***

Articolo di Flavia Busatta

Laurea in Chimica. Tra le fondatrici di Lotta femminista (1971), partecipa alla Second World Conference to Combat Racism and Racial Discrimination (UN Ginevra 1983) e alla International NGO Conference for Action to Combat Racism and Racial Discrimination in the Second UN Decade, (UN Ginevra 1988). Collabora alla mostra Da Montezuma a Massimiliano. Autrice di vari saggi, edita HAKO, Antrocom J.of A.

Lascia un commento