«Copernico ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore, dunque, volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre».
E ora? Che ne sarà della letteratura, dell’arte e delle sue possibilità?
Pirandello è disperso nel labirinto del senso; tra le fessure degli alberi di mandorlo sibilla il respiro del minotauro. Giunge il momento; impugna la spada e trafigge la cortina nebbiosa che offusca il pensiero. Il fu Mattia Pascal è il filo rosso che gli indica la via: se è vero che gli esseri umani credono ancora che la luna, le stelle e il sole stiano nel cielo per illuminare il loro cammino, se dimenticano di essere «atomi infinitesimali» e soffrono «per miserie incalcolabili», la nuova arte dovrà raffigurare solo ciò che è strano e diverso, situazioni paradossali; in essa, l’essere umano “atomo” potrà essere recuperato solamente se detto in maniera grottesca e se reso fantoccio.
La rappresentazione dell’assurdità della vita diventa così la cifra stilistica della poetica pirandelliana, sia essa a servizio del romanzo o della scrittura teatrale. A lei si aggiunge l’umorismo che lo ha reso celebre; quell’umorismo che Pirandello sperimenta per la prima volta nel Il fu Mattia Pascal e che poi troverà ulteriori sviluppi nel suo teatro.
Di fronte al relativismo assoluto che la rivoluzione copernicana ha inevitabilmente portato con se, l’umorismo diventa la “formula” elaborata dall’autore per giustificare l’atto di poetare: il relativismo conoscitivo secondo cui la verità è soggettiva e dipende dalla prospettiva attraverso la quale si guarda il mondo, l’identità dell’essere umano che cambia e si moltiplica a seconda degli occhi di chi lo osserva, portano inevitabilmente a una crisi delle certezze, provocando un inesorabile ed effimero dolore che può essere reso solo attraverso il riso e la compassione. La poetica che ne scaturisce diviene e si può definire come il sentimento del contrario che permette di cogliere la contraddittorietà della realtà.
Rappresentativo di questa crisi epocale è il buio che diventa metafora della condizione della modernità e che acquisisce il significato di impossibilità di visione, di scoperta della verità. Con questa simbologia il buio è perfettamente inscenato sia nel Il fu Mattia Pascal che in Così è (se vi pare): rappresentato attraverso il buio post-operatorio in cui si trova Adriano Meis nel primo caso e attraverso il pozzo nel cortile della casa del signor Ponza nel secondo, il buio è simbolico di una verità celata che rimarrà tale per volontà dei personaggi e, attraverso di loro, dello stesso autore.
Ad accomunare i fatti strani e diversi del romanzo e dell’opera teatrale, vi è la necessità dei personaggi di costruire un’identità sia per sé stessi che per gli altri: ciò vale sia per Mattia Pascal — dopo esser stato riconosciuto nel cadavere della Stia — che per il signor Ponza, costretto a legittimare l’identità sua e della sua famiglia per mettere a tacere la curiosità del popolo. La mancanza di documenti identificativi che possano essere usati a testimonianza dell’identità dell’uno e dell’altro, portano necessariamente ad avere a che fare con identità fittizie o presunte tali la cui costruzione nasce dall’appropriazione, nel caso di Mattia Pascal — poi Adriano Meis —, o attribuzione di un nome. In Così è (se vi pare), infatti, non è la signora Ponza, figlia della signora Frola e moglie del signor Ponza, a darsi un nome e ad acquisire l’identità ad esso correlata, ma sono la madre e il marito ad attribuirle rispettivamente il nome di Lina, con la corrispondente identità di figlia e di prima moglie del signor Ponza, e di Giulia con la relativa identità di seconda moglie del signor Ponza. La stessa Giulia/Lina affermerà di essere «colei che mi si crede».

La condizione della signor Ponza ci introduce a un altro tema ricorrente in tutta l’opera pirandelliana: lo sdoppiamento. Tale motivo, rappresentato non solo dalla figura Giulia/Lina ma anche da quella Mattia Pascal/Adriano Meis e dalle figure femminili del romanzo omonimo, riflette sul fatto che le identità, che ci diamo o che ci danno, sono fantasmatiche, illusioni individuali e insieme collettive.
A rendere simbolicamente e materialmente il soggetto del doppio troviamo lo specchio che, insieme al gesto di guardarsi, è sempre posto in rapporto a quei personaggi che potremmo definire “della ragione”. Nel Il fu Mattia Pascal e in Così è (se vi pare) l’atto di riflettersi si concretizza attraverso l’oggetto fisico ma viene reso soprattutto mediante il verbo vedere che, in tutti i suoi valori, dà vita a “effetti-specchio”, a visioni di sé che portano allo sdoppiamento:
«Alzerà una mano con l’indice appuntato contro la sua immagine che, a sua volta, appunterà l’indice contro di lui Eh, lo so: io dico: “tu”, e tu col dito indichi me. — Va’ là, che così a tu per tu, ci conosciamo bene noi due! — Il guajo è che, come ti vedo io, non ti vedono gli altri! E allora, caro mio, che diventi tu? Dico per me che, qua di fronte a te, mi vedo e mi tocco — tu, — per come ti vedono gli altri — che diventi? — Un fantasma, caro, un fantasma! — Eppure, vedi questi pazzi? Senza badare al fantasma che portano con sé, in sé stessi, vanno correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! E credono che sia una cosa diversa».
(atto secondo, scena terza, Così è (se vi pare)).
Laudisi e Mattia Pascal sono personaggi dentro e fuori l’azione, che si guardano vivere in una condizione quasi fuori dalla vita che gli permette di cogliere, di comprendere l’assurdità delle convenzioni e di rimanere estranei a quella curiosità che invece caratterizza e accomuna gli altri personaggi. Se la verità è duplice e inarrivabile, la curiosità di scoprirla è vana così come tutti i tentativi di coglierla.
È proprio la consapevolezza di questa impenetrabilità della verità e della realtà ad accomunare Mattia Pascal e Laudisi e a fare di essi personaggi cerebrali contraddistinti dal pensiero e dalla riflessione. Di eccessiva cerebralità, Pirandello era stato accusato aspramente dai critici del tempo a cui il ragionamento appariva «un difetto d’umanità in tanti miei non allegri personaggi». In sua difesa, l’autore scriverà l’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, terminale del Il fu Mattia Pascal in cui Pirandello esalta il ragionamento come parte sostanziale dell’umanità: se per i critici essa risiede nei sentimenti dell’uomo, in nessuna occasione, più che nel momento di sofferenza, l’uomo «appassionatamente ragiona (…) perché appunto delle sue sofferenze vuole veder la radice».
Mattia Pascal e Laudisi, questi due personaggi che si guardano vivere, riflettono sulla loro vera natura e sul proprio ruolo, insieme una maschera senza la quale vivere sarebbe impossibile:
«Io mi ero conciato a quel mondo per gli altri, non per me. Dovevo or star con me, così mascherato? E se tutto ciò che avevo finto e immaginato di Adriano Meis non doveva servire per gli altri, per chi doveva servire? Per me? Ma io, se mai, potevo crederci solo a patto che ci credessero gli altri» (Un po’ di nebbia, capitolo IX, rr. 309-14, Il fu Mattia Pascal).
La maschera, dunque, il ruolo che un individuo si attribuisce o che gli viene attribuito dalla società, convive con la necessità che ogni essere umano sia una determinata forma. Di essa è espressione innanzitutto l’aspetto esteriore, segno distintivo dei personaggi pirandelliani che vengono qualificati proprio a partire dal proprio abbigliamento, simbolo della loro estrazione sociale.
Quando Mattia Pascal deve costruire la sua nuova identità e prendere le sembianze di Adriano Meis, dopo la scelta del nome, si sofferma a ragionare sull’aspetto che intende assumere: «Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese. Non c’era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d’aspetto» (Adriano Meis, cap. VIII, rr. 83-88, Il fu Mattia Pascal).
L’abbigliamento gioca un ruolo rilevante anche in Così è (se vi pare). Nelle lunghe didascalie presenti nell’opera sono frequenti dettagliate indicazioni circa il comportamento e gli indumenti che i personaggi dovranno indossare. Nella quarta scena del primo atto, la descrizione della signora Frola sembra trasmettere, implicitamente, una sorta di simpatia dell’autore per questa «vecchina linda, modesta, affabilissima, con una grande tristezza negli occhi, ma attenuata da un costante dolce sorriso sulle labbra» a discapito del signor Ponza il cui aspetto «tozzo, bruno, dall’aspetto quasi truce, tutto vestito di nero, capelli neri, fitti, fronte bassa, grossi baffi neri» e il cui atteggiamento — «stringerà continuamente le pugna e parlerà con sforzo, anzi con violenza a stento contenuta. (…) Gli occhi, parlando, gli resteranno costantemente duri, fissi, tetri —contribuiranno a far cadere su di lui i principali sospetti e a far vedere in lui quella malvagità che i presenti hanno impazienza di affibbiare a uno dei due soggetti.
Nell’abbigliamento dei personaggi del Il fu Mattia Pascal e di Così è (se vi pare) il colore nero ricorre frequentemente a rappresentanza del lutto che percorre entrambe le opere. D’altronde la morte, così come il ritorno alla vita, è un elemento chiave delle due vicende: da una parte Mattia Pascal che, dopo essere fittiziamente deceduto due volte, si reincarna in se stesso e, dall’altra, il signor Ponza, la signora Ponza e la signora Frola superstiti del terremoto che tentano di ritornare alla vita, alcune/i riappropriandosi della propria presunta identità, altre/i acquisendo l’identità che gli viene affibbiata dall’intorno.
Percorre entrambe le opere anche la materia filosofica, tanto cara a Pirandello. In Così è (se vi pare) la dottrina è incarnata dal Laudisi e dalla sua impossibilità di essere riconosciuto e di riconoscersi come uno e uno soltanto; nel Il fu Mattia Pascal è il Paleari a concretizzare questo tema facendosi portavoce della lanterninosofia, emblema del progressivo formularsi del pensiero pirandelliano secondo cui il nostro sentimento interno della percezione della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna, è come un lanternino che ci permette di vedere solo una porzione della realtà, un’illusione ingannevole che ci creiamo e che ci permette di sentirci vivere in questo buio che ci circonda.
L’illusorietà della luce che proiettiamo nel mondo intorno a noi è ben resa dall’immagine in cui la signora Frola «abbagliata dalla luce che cola dall’alto» del balcone da cui la presunta figlia la riceve, neanche riesce a vederla. Non è certo un caso: come apprendiamo attraverso il significato allegorico del velo che ricopre il volto della signora Ponza (scena nona, atto terzo), essa rappresenta la verità che, celata dallo strato leggero di tessuto, non potrà mai essere scoperta.

Questa imponderabilità della verità e del valore della realtà porta con sé la vera novità dell’opera teatrale, la fatale fine: la vicenda non si conclude se non che con una conclusione filosofica, sospesa. «Alla fine, c’è una conclusione filosofica e poetica, ma una conclusione di fatto non c’è, né ci potrebbe essere (…). I tre atti finiscono tutti allo stesso modo: un silenzio e una risata».
Sebbene sul finale del Il fu Mattia Pascal l’autore non sia stato esplicito come nel caso di Così è (se vi pare), anche qui la fine è una simulazione che sgretola l’idea stessa del romanzo, che racconta dell’impossibilità del romanzo stesso.
È significativo il fatto che Pirandello affidi l’incombenza di palesare la verità, fittizia pur che sia, a un foglio, a una carta: nel Il fu Mattia Pascal Adriano Meis fa perdere le sue tracce dopo aver scritto sul suo taccuino il suo nome, la data e l’indirizzo; in Così è (se vi pare) Laudisi consiglia al commissario Centuri di scrivere su un foglio la verità o, meglio, quella che lui desidera sia tale.
Forse come Mattia Pascal/Adriano Meis e Laudisi, anche Pirandello delega alle carte, a questi fogli uniti ora in romanzo ora in testo teatrale, il compito di dire la verità; una verità che dovrà «pur essere questa»: essa non esiste o non ci è dato scoprirla.
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
