Il dipinto di dimensioni inusuali per un acquerello (cm 101×152) Tofane di Riccarda de Eccher ha molto colpito Maria Pia Ercolini, la nostra presidente di Toponomastica femminile, a marzo ospite a casa mia a Tricesimo in Friuli.

La “Gigante delle Dolomiti” occupa un’intera parete del mio soggiorno, si intromette con decisione tra due finestre, che offrono la vista sul paesaggio friulano di colline, boschi e vigneti. D’inverno la grande montagna si intrufola nei colori infuocati dei tramonti che la stanza, esposta a ovest, spesso mi regala.
Maria Pia, come me, si è fatta conquistare dalle cime, dalla neve, dal chiaroscuro del cielo, ma credo anche dalle sensazioni di silenzio e aria pura che le pennellate ad acquerello trasportano con sé. È nata così, dalla visione diretta del quadro Tofane, la proposta di Maria Pia di intervistare Riccarda e di intervallare le nostre parole con foto delle sue opere.
Da principio mi è sembrata un’idea molto bella quella dell’intervista; poi nella mia mente le cose si sono complicate e ho cominciato a prendere troppo sul serio questo “gioco domanda/risposta”. Perché? Semplicemente perché Riccarda è, per me, prima di tutto amica, anche se relativamente recente; la definirei una nuova amica di adesso, dell’età adulta.
In una città piccola come Udine, ci conoscevamo solo per nome, anzi per i nostri cognomi che rivelano la nostra comune origine: Riccarda si è trasferita ancora ragazzina dal Trentino a Udine, io sono mezza friulana, però figlia di padre trentino. Poi a primavera 2021 ci siamo conosciute di persona, quando ho deciso di andarla a trovare con l’intenzione di scegliere un suo acquerello. A dire la verità, dentro di me avevo subordinato l’acquisto anche al mio “gradimento” dell’artista.
Vicine per età, Riccarda del 1954, io del 1956, già nel primo incontro ci siamo trovate in sana sintonia, in comunanza di visioni e valori, forse facilitate dall’essere persone, più appropriatamente donne, con una storia alle spalle.
È proprio questa circostanza di primo contatto artista–potenziale cliente, che mi porta a formulare oggi la prima domanda a Riccarda.
Quando vendi un’opera, quali sono le tue sensazioni o le tue aspettative? Mi pare tu lo faccia sempre in prima persona, senza filtro di galleristi.
Per tanti anni sono stata commerciante nel campo dell’antiquariato e così sono allenata a cedere le cose, anche quelle che amo molto. Ma c’è una grande differenza tra il vendere cose acquistate e vendere la propria pittura, che io sento estremamente intima.
Credo che il grande desiderio di ogni artista sia sapere come chi acquista viva il quadro nella quotidianità: come pittrice mi privo di qualcosa che per me è vivo, non è morto. Per questo penso che la vera prova sia quella del tempo: intendo dire che per me è importante che i miei acquerelli continuino a suscitare sempre qualcosa, perché questo significa che tra opera e proprietaria/o si è instaurato un dialogo continuo, che è la forma ideale di relazione per/con le opere d’arte. Ad esempio, tu mi hai detto una cosa bellissima e cioè che le Tofane cambiano continuamente, a seconda della luce del giorno. Questo mi consegna un messaggio prezioso: ti ho dato una cosa che ha in sé il tempo e che non è statica, perché tu sei in continuo dialogo con quelle montagne. Da una diversa prospettiva, potrei anche dire che ci sarà sempre una mia presenza in casa tua.
Quello che stai raccontando mi porta a pensare che tu senta forte il piacere, ma anche la responsabilità della tua pittura. Le tue opere aprono al dialogo, ma anche al giudizio di chi le acquista o le guarda nelle tue mostre.
Hai colto nel segno: la pittura mi rende vulnerabile, mi espone in una dimensione intima. In altre parole mi rende “scoperta”. E questo, per me che ho cominciato a dipingere tardi, verso i cinquant’anni, rivela un aspetto della mia personalità che non conoscevo. È senz’altro una fragilità che forse dovrei affrontare. Prendiamo a esempio proprio le “tue Tofane”: nella tua casa, che non è grande, sono una presenza prepotente, che mi fa sentire in qualche modo responsabile di questa — chiamiamola così — invasione di campo. Mi trovo, direi umanamente, a pensare: «Speriamo bene!!».
Nella vita ho fatto tante cose rivolte al pubblico, ma il giudizio degli altri non mi ha mai particolarmente coinvolta o condizionata. Invece non è così per quanto riguarda la mia vita artistica: quando faccio una mostra mi sento veramente messa a nudo e un commento negativo, anche minimo, mi ferisce o potrebbe ferirmi.

Questo tuo racconto generoso sulla complessità di aprirti al giudizio sul tuo lavoro artistico, mi porta a chiederti quando o in che circostanze hai deciso di cominciare a esporre.
In realtà non è scattato in me un vero e proprio desiderio di “propormi al pubblico”. La mia prima mostra nel 2006 a Cortina, alla storica libreria Sovilla, non è stata una decisione propriamente mia, ma è la conseguenza di un progetto condiviso con un amico, Enrico Maria Pizzarotti: scrittore dilettante lui, pittrice dilettante io, volevamo pubblicare insieme un libro, in cui la sua narrazione fosse intercalata dai miei dipinti. Il libraio Sovilla, da sempre riferimento per la vita culturale della conca ampezzana, con cui avevamo condiviso il nostro progetto editoriale, mi ha proposto di fare una mostra nei suoi locali. Ho accettato subito, paradossalmente ancora prima di avere i quadri da esporre. Devo ammettere che è stato un successo molto incoraggiante e da allora le occasioni si sono succedute, in Italia, Slovenia, Inghilterra, Francia e Germania, ma anche negli Stati Uniti dove vivo e in tanti luoghi di montagna. Quest’anno, ad esempio, ho già esposto a Huntington-New York, a Selva di Val Gardena e Amburgo.
Nella mia personale scaletta di domande, è il momento di chiederti dell’iniziativa che abbiamo realizzato assieme per Toponomastica femminile: il Salotto virtuale del Friuli Venezia Giulia “Donne e montagna” il 13 aprile 2023.

Ricordo bene quando mi hai proposto il ruolo di coordinatrice per questo evento in quanto “esperta di montagna”, etichetta un po’ vaga e altisonante. La realtà è che ho frequentato la montagna da tutta la vita. Da giovane ero un’appassionata scalatrice, in un’epoca in cui eravamo veramente in poche ad andare su difficoltà sostenute. E quindi lungo il corso degli anni la passione e l’alpinismo hanno generato rapporti e amicizie.
Abbiamo invitato una critica d’arte e scrittrice, una fotografa, una giornalista, una avvocata/attivista e una regista, tutte persone che mi piace considerare “pensatrici in proprio”.
L’evento ha permesso di mettere assieme donne del nostro territorio che hanno una loro visione della montagna, che, intrecciata a quella delle altre ospiti, rende un quadro veritiero e interessante. Direi anche che è il risultato di quello che ho “collezionato” nella vita in termini di relazioni, conoscenze, rapporti. Sono tutti legami solidi e diretti, che vanno oltre il piano della mera superficialità e a cui posso sempre serenamente attingere, pur nella ciclicità dei periodi e dei momenti della vita.
A distanza di tempo, trovo il Salotto ancora molto interessante: ne consiglio l’ascolto a chi vuole conoscere o approfondire la conoscenza del Friuli Venezia Giulia, perché restituisce una visione armonica e ricca di sfaccettature della nostra terra. Devo riconoscerti il merito di aver preparato l’evento con cura e di avermi fatto apprezzare la tua capacità di tessere e mantenere reti di relazioni.
In effetti credo di aver voluto consegnare, a chi ci ha ascoltato o ci ascolterà, il racconto di una montagna vera, cruda, rustica, autentica e di persone autentiche. Per fortuna la montagna friulana non è ancora contaminata dal turismo e quindi dalla superficialità ed esteriorità che ne conseguono. Non è, e speriamo non lo diventi mai, una montagna di moda, da soldo facile.
Per rendere più chiaro quello che voglio dire, provo a spiegarmi “attraverso la pittura”: l’acquerello di piccole dimensioni Palcoda, 2023, racconta la mia percezione di un paesaggio che banalmente si potrebbe definire incontaminato; preferirei parlare di una montagna intima e lontana dal clamore, che amo, mi rispecchia e in cui tendo a identificarmi ora.

Seguendo il filo conduttore delle nostre collaborazioni, arriviamo ora alla più recente che è stata, credo per entrambe, un’esperienza ricca e importante. La riassumo brevemente: a marzo abbiamo organizzato un incontro con persone con disabilità provenienti dai C.s.r.e. Centri socio riabilitativi educativi dei dintorni, che da molto tempo seguono un programma di montagna-terapia.
Il tuo studio in via Mercatovecchio a Udine, invaso da 25 persone — operatori sanitari inclusi, si è trasformato per una mattinata in un ambiente ideale per un’esperienza terapeutica e riabilitativa di montagna-terapia, efficacissima anche se svolta “al chiuso”.
Vuoi raccontare come è andata? Come hai vissuto questa esperienza?
All’inizio ero spaventata. Per la prima volta mi è capitato di affrontare quel tipo di pubblico, composto da persone adulte con disabilità molto diverse. Mi ero preparata a parlare, a spiegare, poi davanti a quella piccola invasione, più numerosa del previsto, ho deciso di “cambiare rotta”. Ho intuito che sarebbe stato meglio raccontare, anziché con le parole, con la pittura, far parlare direttamente il pennello e i colori.
La soluzione è stata quella di dipingere davanti ai loro occhi. Da subito ho capito che la scelta è stata giusta: quello che ha catturato chi mi guardava è stata la manualità, il far vivere in concreto un’esperienza, il veder fare e far crescere una cosa, anche qui una cosa dinamica e non statica. Appunto, come dicevamo, una cosa viva.
Prendi un foglio bianco, stendi dei colori che all’inizio sembrano delle macchie e poi procedi per strati, per velature come si fa con l’acquerello e alla fine viene fuori un’immagine compiuta: la montagna, in questo caso per noi alcune creste del gruppo Sella.

Credo che il tuo pubblico abbia amato molto vedere come un’opera viene pensata, concepita e poi realizzata. È prezioso e certo non frequente poter vedere un o una artista al lavoro. Quel giorno, la mia sensazione è che tu fossi a tuo agio.
Credo sia stato importante riuscire a entrare in connessione con tutte e tutti loro, accompagnati e accompagnatori. È stata per me un’esperienza molto impegnativa, di quelle che ti drenano le risorse. La sensazione che ho avuto è che sentissero il flusso di energia e che stavo dando loro tutto l’amore di cui ero capace. Alcune/i sono anche riusciti a comunicare e manifestare il loro interesse e il loro entusiasmo. Mi fa piacere ricordare che nelle due ore e più passate assieme, sono state tutte e tutti attenti e silenziosi, catturati dal racconto artistico.
Grazie Riccarda! È proprio vero che le montagne si scalano, si guardano, si raccontano, si scrivono, si dipingono, ma possono anche curare. Ci danno la possibilità di usare e allenare tutti i nostri sensi.
Al termine del nostro piccolo viaggio in tua compagnia spero sia chiaro il perché del titolo che ho scelto per la nostra “conversazione illustrata”: La montagna: che sorpresa!
In copertina: Dipinto Pelmo.
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Articolo di Bruna Proclemer

Referente per il Friuli Venezia Giulia dell’associazione Toponomastica femminile e componente della Comm. Toponomastica del Comune di Udine. Laureata in Giurisprudenza, dirigente amministrativa prima per la Sanità Alto Friuli, poi per il Comune di Udine. Ha seguito attività, eventi e progetti della Comm. Pari opportunità di Udine, della Casa delle Donne e del suo Centro di documentazione.
