Carissime lettrici e carissimi lettori,
immaginate. Immaginate una città. Pensate a tante città avvolte nel silenzio della notte. Quando dovrebbe essere il buio a far da primo attore. Immaginate che pian piano le strade si sveglino e si riempiano di mani che portano luci. Mani di uomini, di donne, di bambine e bambini. Luci che aiutano a “vedere”, che parlano al cuore dell’indifferenza.
Partiamo dalla Bibbia, il libro sacro. Fondamentale per tutte e tre le religioni monoteiste, per gli uomini e le donne del Libro, tutti e tutte figli e figlie di Abramo. Nell’Apocalisse (3:15-19) è scritto: «Io conosco le tue opere, che tu non sei né freddo né caldo. Oh, fossi tu freddo o caldo! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca». Ecco la luce, qualsiasi luce, portata nella notte diventa metafora di calore e visione del vero. Che illumini e faccia distinguere chiaramente l’orrore. Questa volta dei corpi massacrati e delle case incendiate di Gaza. Gaza brucia non vista dall’indifferenza del mondo. Ascoltiamo, allora, la proposta di Tomaso Montanari, rettore dell’università per stranieri di Siena e critico d’arte, che ci dice di uscire e illuminare la notte dei luoghi d’Italia, cancellando così l’indifferenza, dell’ipocrisia del non visto. Un richiamo, quello di Montanari, fatto sottovoce, ma forte come è successo per i “sudari” esposti per “accecare” con la tragedia del loro candore ciò che decisamente dobbiamo vedere.
La notte è quella di domani, tra domenica e lunedì, nello spegnersi del primo giorno di giugno e la nascita di quello in cui, noi italiane e italiani, ricordiamo e celebriamo la nostra personale Festa della Repubblica che ci ricorda il passaggio alla democrazia, la fine della guerra, ma soprattutto la Costituzione nata dagli eletti e elette dell’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946. Il referendum, con la scelta tra la monarchia e la repubblica, fu plebiscitario con una presenza, per la prima volta, delle donne che parteciparono in massa (raggiunsero quasi il 90 per cento). La scelta popolare (votarono oltre 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini con una percentuale del 98%) andò alla Repubblica che fu votata da 12 milioni 717 mila 923 persone. Da quel referendum nacque l’Assemblea costituente formata da quei 556 eletti ed elette (le donne furono solo 21!) che crearono la nostra Costituzione in vigore dal 1° gennaio del 1948.
Non sottovaluterei un’osservazione in proposito, mettendola, come si dice, solo tra parentesi. L’articolo 11 della nostra Costituzione, principale attrice dei festeggiamenti di lunedì prossimo, detta: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Eppure, a Roma, nella capitale del Paese e sede delle Istituzioni governative, il 2 giugno si celebra proprio la guerra con una dimostrazione “muscolare” dello stato delle Forze armate (appunto!) che proprio per celebrare la festa repubblicana, sfilano, tra le bellezze dei Fori romani, mostrando divise, passi militari, armi, carri armati e flotte aeree. Non vi appare contraddittorio? E soprattutto chiediamoci: quanto ci costa? La cronaca ci informa che siamo al risparmio, ma secondo il Sole 24Ore se ne andranno anche questa volta circa 3 milioni di euro nonostante si siano dimezzati i numeri: «Dimezzati militari, mezzi e cavalli che sfileranno sotto le tribune il cui allestimento costerà 593 mila euro contro gli 877 mila del 2011… Quest’anno le truppe caleranno da 4.919 a 2.584 (- 47,5 per cento) mentre i mezzi militari scendono da 196 a 93 (- 52,5 per cento). I quadrupedi sono stati ridotti da 120 a 98 con un calo del 18,3 per cento rispetto al 2011 e del 46,1 per cento rispetto ai 182 cavalli dell’edizione 2010. Tagli percentualmente simili a quelli del personale civile appartenente ad altre amministrazioni e corpi dello Stato e all’associazionismo: sfileranno in 738 contro i 1.586 dell’anno scorso (- 53,32 per cento) e i 1.156 del 2010. Tagliate anche due delle 12 bande musicali militari che avevano partecipato alle due precedenti edizioni (-16,67 per cento). Secondo le fonti per la parata di quest’anno si prevedono risparmi per quasi un milione di euro rispetto al 2010 e di oltre 1,5 milioni rispetto all’anno scorso». Sono dati che comunque non consolano e peggiore è la giustificazione dell’opposizione che addirittura confronta le spese per la Parata con i soldi del Concertone del Primo Maggio!
Il 2 giugno, Festa della Repubblica, si lega anche a un’altra conquista democratica, ma soprattutto paritaria. L’importanza della scelta simbolica di questa data è il rapporto con la prima messa in atto del suffragio universale, dell’invito alle donne, a tutte le donne italiane con diritto di voto, ad andare alle urne per contribuire alle scelte politiche del Paese. Sono infatti 65 anni che la sentenza della Corte costituzionale numero 33 del 1960 è in vigore e che le donne possono accedere ai concorsi della Pubblica Amministrazione, comprese le carriere prefettizie e quelle della magistratura. Una sentenza che ha contrastato e dichiarato costituzionalmente illegittima una legge del 1919, la 1176, alcuni dei cui articolo sono poi stati abrogati da una legge del 6 marzo 1963. Grazie a una neolaureata in Scienze Politiche che sente il peso dell’ingiustizia di genere nel non poter partecipare al concorso per consigliera di prefettura. Rosanna Oliva ricorre al Consiglio di Stato si costituisce in giudizio rappresentata e difesa dal suo professore, Costantino Mortati. «La norma impugnata dispone in primo luogo l’esclusione delle donne da tutti i pubblici uffici che comportano l’esercizio di diritti e potestà politiche, riservando alla legge di determinare i casi eccezionali di ammissione delle donne a taluno di essi, e, viceversa, al regolamento di specificare quali siano quelli ricompresi nella categoria generale: una riserva che inerisce strettamente al precetto principale posto dalla norma e che ha senso appunto in ragione di questo legame». Allora festeggiamo anche questa ulteriore conquista. A Roma la ricorrenza della storica sentenza si celebrerà al Museo nazionale degli strumenti musicali (piazza Santa Croce in Gerusalemme 9/a) con un pomeriggio (dalle ore 16,00) pieno di musica, e visita guidata tra i preziosi oggetti esposti.
La cultura. È definita sul vocabolario come «l’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo». In più si specifica che la cultura è: «Quella che si acquisisce attraverso gli studi universitari, e le persone stesse (laureati o docenti) che ne sono gli esponenti». In effetti non deve essere un buon momento per la Cultura. Tra ministri permalosi con risposte piccate e, da oltreoceano, un Presidente dello Stato più importante dello scacchiere internazionale che sembra impegnato, ma non ne sappiamo il fine, in questo antico gioco orientale o, e anche qui non ne sappiamo lo scopo, fa prove di forza a casaccio.
Così la più antica università degli States (fondata nel 1636) rischia l’impoverimento accademico e persino quello sportivo (tanti atleti e atlete dell’università sono stranieri e straniere) e tanti ragazzi e ragazze, studenti, dottorandi/e e cattedratici di tutte le età rischiano di ritornare a casa perché il Presidente Donald Trump ha deciso (a latere della minaccia di imporre ai governi mondiali dazi da capogiro sulle merci) di respingere ed espellere dalla famosissima università di Harvard i/le non americane/i, cosa molto discutibile, pensandoci bene e con un consistente filo di ironia, in un Paese, nel bene e nel male, fondato sull’immigrazione. Con il grande rimorso dei e delle “Pellirosse”. Altro che America agli americani…
Ma al di là dell’ironia, gli e le studenti che sono nati e nate al di là dei confini Usa, e hanno scelto, accettati/e (non è facile e è costosissimo), di studiare o insegnare nell’ateneo del Massachussetts dove hanno studiato tanti Presidenti e non solo statunitensi, scienziati/e, letterati/e ora hanno paura e non sanno gestire il loro futuro prossimo. Dio, patria e famiglia è un principio sconfinato.
Ad oggi sono 6.800 gli studenti e studentesse di Harvard che provengono da tutti i Paesi del mondo, compresi tanti italiani e italiane. Tutti e tutte hanno paura di essere espulsi e chi non è ancora negli States ha il visto praticamente “congelato”. Per il Presidente Trump l’università tra le più prestigiose del mondo, Harvard «è un covo di marxisti e di antisemitismo». Si è tristemente ritornati al passato! Quando imperava McCarthy e si spingeva alla denuncia reciproca collettiva, che si poteva tranquillamente chiamare delazione. Non è, comunque, questo suo accanimento contro Harvard il primo attacco di Trump alle università, alle scuole, alla cultura e all’istruzione. È il passo tipico delle autocrazie, o se si vuole addolcire, delle democrature… Anche qui non tira buon vento.
Non tira buon vento, anzi è cattivissimo e violento il femminicidio di una ragazzina di 14 anni uccisa dal “fidanzato” di 19 anni che pretendeva, esigeva, che non fosse lasciato per “ordine” patriarcale. E l’ha punita, lui maschio, con la morte interrompendo il suo diritto di vita, di sogni.
Dedichiamo e leggiamo insieme le poesie, tutte palestinesi, dedicandole ai morti bambine e bambini di Gaza, a quelli di tutte le guerre, a lei, morta violentemente ragazzina, mentre esercitava il suo diritto di scelta e di libertà.
«La poesia come atto di resistenza. La forza delle parole come tentativo di salvezza». È questo il senso più profondo delle trentadue poesie di autori palestinesi, in gran parte scritte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023 e raccolte nel volume Il grido è la mia voce (142 pp, 12 euro) appena uscito per Fazi Editore. Questa raccolta propone una selezione di poesie di dieci autori palestinesi: Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Ali Abukhattab, Dareen Tatour, Marwan Makhoul, Yahya Ashour, Heba Abu Nada (uccisa nell’ottobre 2023), Haidar al-Ghazali e Refaat Alareer (ucciso nel dicembre 2023). Come evidenzia lo storico israeliano Ilan Pappé nella prefazione, «la consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata». Il volume è arricchito dalla prefazione di Pappé e da due interventi firmati dalla scrittrice Susan Abulhawa, autrice del romanzo bestseller Ogni mattina a Jenin, e dal giornalista premio Pulitzer Chris Hedges, ex corrispondente di The New York Times da Gaza —tradotti da Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni. Il lavoro è anche una iniziativa concreta di solidarietà verso la popolazione palestinese. Per ogni copia venduta Fazi Editore donerà 5 euro a Emergency per le sue attività di assistenza sanitaria nella Striscia di Gaza.
Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?
Significa chiedere scusa,
chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati,
agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate,
alle lunghe crepe sul fianco delle strade,
ai bambini pallidi, prima e dopo la morte
e al volto di ogni madre triste,
o uccisa!
Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?
Significa vergognarsi,
del tuo sorriso,
del tuo calore,
dei tuoi vestiti puliti,
delle tue ore di noia,
del tuo sbadiglio,
della tua tazza di caffè,
del tuo sonno tranquillo,
dei tuoi cari ancora vivi,
della tua sazietà,
dell’acqua disponibile,
dell’acqua pulita,
della possibilità di fare una doccia,
e del caso che ti ha lasciato ancora in vita!
Mio Dio,
non voglio essere poeta in tempo di guerra.
–
Hend Joudah 1983
Una madre a Gaza non dorme…
Ascolta il buio, ne controlla i margini, filtra i suoni uno ad uno per scegliere una storia che le si addica, per cullare i suoi bambini.
E dopo che tutti si sono addormentati, si erge come uno scudo di fronte alla morte.
Una madre a Gaza non piange.
Raccoglie la paura, la rabbia e le preghiere nei suoi polmoni,
e attende che finisca il rombo degli aerei,
per liberare il respiro.
Una madre a Gaza non è come tutte le madri
Fa il pane con il sale fresco dei suoi occhi…
e nutre la patria con i suoi figli.”
–
Ni’ma Hassan
Buona lettura a tutte e a tutti
Il nuovo numero di Vitamine vaganti si apre con le due protagoniste di Calendaria della settimana: Inger Hanmann, pittrice di grande talento e sperimentatrice; e Sophie Taeuber, artista a tutto tondo ricordata soprattutto per le sue bellissime marionette.
Del referendum dell’8 e del 9 giugno si parla in Che genere di referendum, dove si analizzano uno a uno tutti i quesiti e si cerca di contrastare la disinformazione e la mistificazione dilaganti.
Con Sulle strade di Shanghai si vola in una delle più grandi città cinesi, dalla complessa toponomastica, mentre per la rubrica Scatti urbani si torna in Italia, nella bellissima Siena; si rimane in Toscana con Vent’anni dopo. Ricordo di Barbara Nativi, donna di teatro, per celebrare la vita di una grande attrice venuta a mancare troppo presto. Si va poi nello spazio in Passeggiando tra le valli di Venere, alla scoperta di una toponomastica particolare dove si incontrano molteplici lingue e culture.
Due convegni di grande interesse sono riassunti dalle autrici di Cnr. I risultati dell’indagine sul benessere lavorativo, che restituisce una panoramica sconfortante sul rapporto tra vita privata e lavorativa quando visto nell’ottica di genere; e di Donne e sport tra inclusività e accessibilità, che «nasce dalla necessità di riflettere ed evidenziare quali siano attualmente le discriminazioni subite dalle donne in ambito sportivo e cosa fare per cercare di superarle.»
La recensione della settimana è dedicata al libro Il cuore affamato delle ragazze di Maria Rosa Cutrufelli, ambientato nella New York di inizio Novecento nel momento in cui le lavoratrici, specie quelle tessili, ricercano maggiori tutele e migliori condizioni lavorative. Un posto sicuro nel mondo è invece il racconto di un episodio di molestia che fin troppe donne hanno conosciuto nella loro vita. Fili di memoria e voci di pace riassume i percorsi per la parità di genere attuati dall’Istituto Comprensivo “Bruno da Osimo – Trillini” che gli hanno consentito di vincere il concorso Sulle vie della parità.
Il report delle attività dell’associazione può essere letto in Aprile e maggio di Toponomastica femminile.
Infine, il numero si conclude con la consueta gustosa ricetta per I funghi shiitake. A tutte e a tutti auguriamo buon appetito!
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
