Scusatemi lettori e lettrici se mi soffermo ancora su Venere, in questa mia ricerca di toponomastica astronomica di genere, ma mi sembra quasi una forma di risarcimento nei confronti delle donne parlare ancora dei nomi femminili sul pianeta venusiano. Questa volta però non ho nomi di donne scrittrici, artiste o scienziate da scoprire e condividere: i nomi in cui inciampo, camminando per le valli venusiane più lunghe di 400 chilometri, sono quelli con cui varie lingue indicano appunto Venere, mentre le valli inferiori sono state catalogate con i nomi di divinità fluviali femminili, appartenenti a culture diverse. Nel mio peregrinare, mi piace partire all’alba, proprio dalla Valle Ahsabkab, che porta il nome di Venere all’albeggiare in lingua maya o, se preferite, dalla Valle Laidamlulum, termine con cui le popolazioni della Sierra Nevada, nella loro lingua maidu, apostrofano il pianeta.


Poi mi incamminerò lentamente nella Valle Austrina, che porta il nome di Venere in lettone, per raggiungere la Valle Banumbirr, denominazione con cui nella Terra di Arnhem, in Australia, si designava Venere. Per il popolo Yolngu, Banumbirr o Barnumbirr è uno spirito creatore, capace di dare vita ad animali, piante e alle caratteristiche naturali della terra. Bello che sia associato proprio alla prima stella del mattino, a Venere appunto. Non posso concedermi una tappa in tutte le altre grandi vallate venusiane, sono ancora una trentina, troppe per visitarle e nominarle tutte: un pensiero veloce va alla Valle Gendenwitha, che in lingua irochese significa “porta il giorno”; questa bellissima fanciulla, racconta la leggenda indiana, fu trasformata in stella per sfuggire a un cacciatore che la voleva in sposa.
Il giorno sta per concludersi: un giorno faticoso, quello su Venere, dato che corrisponde a circa 243 giorni terrestri; ho ancora le forze per godermi lo spettacolo nelle Valli Morongo, il nome di Venere all’imbrunire in lingua makoni, la lingua indigena più parlata in Mozambico. Uno dei paesi più impoveriti al mondo, nonostante sia ricco di risorse naturali. È un Paese a cui sono particolarmente legata perché lì è iniziata, molti anni fa, la mia esperienza terzomondista. Ho scelto questa valle e non la Vesper Valle, dedicata al nome di Venere all’imbrunire in latino antico, e mi scuso con chi ama le lettere classiche.
Dopo essermi riposata, posso dedicare ancora un po’ di tempo alle valli più piccole, anch’esse una trentina. Qui i nomi richiamano lo scrosciare dell’acqua e l’impetuosità delle onde: scelta curiosa, dato che Venere è praticamente privo di acqua, anche se si ritiene che in passato il pianeta avesse oceani o una atmosfera ricca di vapore acqueo, proprio come la Terra.

Queste valli più ridotte hanno dei nomi molto belli, evocativi, appartenenti a lingue e culture che non conosciamo, o molto poco: Helmud è una divinità fluviale del popolo afgano, Nyakaio lo è per il popolo Shilluk, abitante il Sudan del Sud; Samundra invece appartiene alla mitologia indiana, a volte indicata come Samudra. Di appena 320 chilometri di lunghezza è la Nantosuelta Vallis. Nantosuelta era la divinità della fertilità nella cultura celtica, il cui nome potrebbe significare ruscello tortuoso. Essendo associata all’acqua, elemento fondamentale nella vita di ogni essere vivente, la dea è relazionata al concetto della prosperità e del ciclo della vita, dalla nascita alla morte. Spesso viene rappresentata sostenendo una casa, sottolineando il suo ruolo di protettrice dello spazio domestico.
Molte di queste piccole valli, arse e almeno apparentemente senza vita, sono associate a divinità impetuose e fresche: Fufei, ad esempio, è la dea cinese legata al fiume Luo, un fiume importante nella storia del Paese in quanto connesso alla cultura Peiligang, datata tra il 7000 e il 4000 a. C. Ganga invece è il nome della dea adorata, della purificazione e del perdono nella religione induista, personificazione del fiume Gange; il nome proprio Ganga è molto popolare in India e in Bangladesh: chissà quante delle donne che lo portano sarebbero contente di sapere che possono riconoscersi in una vallata nientedimeno che sul pianeta Venere. Nella lingua dei Yoruba, Olokun è addirittura associata all’oceano, simbolo da sempre della potenza dell’acqua generatrice: come divinità governa le ricchezze materiali, le abilità psichiche, i sogni, le meditazioni, la salute mentale. Sempre in Africa, ma questa volta in Uganda, Sezibwa è associata al fiume omonimo, che si dice scorra indisturbato anche in presenza di ostacoli: infatti, tradizionalmente, il nome Sezibwa deriva dall’espressione in lingua luganda sizibwa kkubo, che si traduce in “il mio cammino non può essere bloccato” o “qualcosa di infinito”. Una bimba che porti questo nome riceverebbe fin dalla nascita un bell’augurio, non vi pare?

L’ultima piccola valle in cui scelgo di soffermarmi è la Saga Vallis, che deve invece il suo nome a una divinità della mitologia norrena dei paesi nordici europei. Saga è una dea misteriosa e indipendente, protettrice di chi scrive e lavora nelle biblioteche, di chi ama i libri in generale: una sorta di archivista del sapere degli Dei. È anche legata all’acqua e ai pesci, la sua dimora è posta vicina a una cascata. Viene spesso rappresentata con i classici abiti vichinghi, una lunga treccia bionda e in mano una pergamena o una brocca, oppure un calice colmo di vino da condividere con chi lo riterrà opportuno. Me ne ricorderò quando rientrerò sulla Terra: prima di scrivere il prossimo articolo, o raccontare la storia della mia famiglia, comprerò un buon vino, ricercherò un’atmosfera tranquilla, magari lungo il mare, e alzando un calice chiederò ispirazione a Saga. In fondo, entrambe abbiamo i capelli biondi: le mie lunghe, lunghissime trecce non ci sono più, ma lei sicuramente, negli anfratti della sua memoria, ha il ricordo di me bambina, una bambina che giocava con i propri capelli dorati e folti come i suoi. A questa bambina, ora cresciuta ma con lo stesso spirito di allora, Saga saprà tendere una mano. Anche da Venere.
In copertina: Ondina di Adolf Hiremy Hirschl, Tempio della Grande Dea.
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Articolo di Maria Teresa Messidoro

Classe 1954, insegnante di fisica, da quarant’anni vicina alla realtà latinoamericana, in particolare a El Salvador, e con un occhio di genere, è attualmente vicepresidente dell’Associazione Lisangà culture in movimento; è scrittrice per diletto ma con impegno e spirito solidario.
