Ed è esattamente in quel momento, quando Attilio mi batte la mano sulla spalla, che capisco in profondità cosa provino i miei alunni e le mie alunne con disabilità in certe situazioni. Perché di per sé, una pacca tra scapola e clavicola, è un atto amichevole, benevolo, incoraggiante. Invece Attilio mi sta toccando in un modo, mi sta guardando con degli occhi che dicono un’altra cosa. Dicono «poverina, mi fai pena». Il sogghigno che ha sulle labbra è pieno di commiserazione e non ha nulla di incoraggiante né di gentile. Se ne va così, questo alunno di quarta, come fosse la cosa più normale del mondo sentirsi immensamente superiori a un’altra persona e darne segno, guardare qualcuno/a dall’alto in basso palesando il proprio disprezzo. Non una persona in particolare, mi correggo. Guardare così un’insegnante. Lo osservo salire le scale e il primo pensiero che mi attraversa la mente è desolante: «Accidenti, questo vota. E la sua ics vale tanto quanto la mia». Perché per me – voglio essere chiara su questo – l’ignoranza è un grosso problema per la democrazia. Badate bene, l’ignoranza, non la poca cultura, che è una cosa diversa. Non dobbiamo essere tutti e tutte intellettuali per esercitare bene e con coscienza il diritto di voto, ci mancherebbe altro. Però dobbiamo essere informati, dobbiamo conoscere i fatti che accadono nel mondo, avere un minimo di pensiero analitico in grado di codificare la complessità della contemporaneità. Il mondo interconnesso e la società liquida richiedono molti più strumenti di analisi di un tempo per essere compresi. E Attilio non sembra averli, accidenti.
La pacca sulla spalla di Attilio arriva due mesi abbondanti dopo che il governo israeliano ha iniziato a rifiutarsi di far entrare nella striscia di Gaza gli aiuti umanitari. In questi ottanta giorni i camion da mezzo mondo con medicine, carburante, cibo e acqua si sono moltiplicati al confine. Fuori interi container pieni di beni di prima necessità cuociono sotto il sole in terra di Palestina; dentro la striscia uomini, donne e bambine/i muoiono in un numero che si attesta attorno al centinaio al giorno. Di fame, di sete, di malattia. Il tutto mentre qui, nella civilissima Lombardia, continuiamo a fare scuola come se non stesse accadendo niente, come fosse tutto normale. E se è normale affamare bambini e bambine che hanno l’imperdonabile colpa di avere il sangue sbagliato che scorre loro nelle vene, lo è anche trattare come una mentecatta un’insegnante che prova a dire di “No”. Da alcuni giorni ho lanciato a scuola una campagna di sensibilizzazione, libera e aperta a tutti/e: sciopero della fame e della sete per il tempo scolastico. Non un granché, lo ammetto, ma per chi è abituato a dipendere dalle macchinette del caffè e dai distributori delle merendine per sopravvivere alle cinque ore di attività didattica ogni mattina, è già qualcosa. L’adesione dei colleghi e delle colleghe è meno che tiepida, direi ridicola. Ma non importa, sta nel gioco delle libertà individuali, ci mancherebbe. Però intanto qualcuna/o (un pugno di noi) sta dicendo agli alunni e alle alunne che fuori dalle quattro mura delle nostre aule i diritti umani sono completamente ignorati e vilipesi. Intanto si sta dicendo che la scuola ha a che fare col mondo, coi valori, con un Bene che deve riguardare il diritto universale. Intanto si sta dicendo che dentro una comunità sono possibili opinioni diverse e la loro libera espressione. Intanto…
Una mattina sono in atrio a controllare che un alunno con disabilità non abbia problemi con l’accesso ai bagni e mi si avvicina Attilio. Non è uno studente delle mie classi, lo conosco di vista, giusto per averlo sorpreso più volte bighellonare in zona macchinette. Mi chiede se sono io la prof. Baldini, quella dello sciopero della fame. Gli dico di sì, allungo la mano per presentarmi, ma lui batte le sue, mi fa l’applauso e, in perfetto dialetto delle nostre parti, mi spiega che non ha mai visto una minchiata più grande di questa. A voce alta, buttando fuori il petto da attore navigato, in modo che lo sentano bene anche le bidelle. Usa proprio il termine “minchiata”, Attilio, prendendolo a prestito dalla parlata popolare siciliana, benché più volte io l’abbia sentito fare affermazioni decisamente poco carine nei confronti dei meridionali. Quando fa il suo effetto, però, va bene anche il dialetto del Sud, che tra le altre cose, in questo caso, deriva dal latino, ma figuriamoci se lui lo sa. Gli rispondo che io sono convinta proprio del contrario e che spero che lui possa avere la pazienza e la voglia di ascoltare le mie ragioni, come io ascolterò le sue. Continua, sempre in dialetto, spiegandomi che io potrei benissimo strafogarmi di cibo al mattino e poi stare cinque ore senza toccarne altro, non avendone alcun danno. Dice cose un po’ sconnesse, tipo che a scuola non si fa politica, che per lui è una buffonata esprimere un’opinione su qualcosa che non ci riguarda e che, in ogni caso, il fatto che io non mangi e non beva per alcune ore al giorno non frega un cazzo a nessuno. Il tutto, sempre, in perfetto dialetto, parolacce escluse, per le quali l’italiano è più che adeguato. Ed è allora che lo fa. Di battermi la mano sulla spalla e guardarmi con misera commiserazione, misto disprezzo, dico.
Gli rispondo brevissimamente, perché se ne sta già andando, non è interessato a ciò che ho da dire io. Quasi gli grido sulle scale che ci sono alcuni valori universali che vanno sempre e comunque difesi, perché riguardano tutti e tutte noi, ovunque siano violati e che questo non è fare politica, ma fare POLITICA, ovvero etica del vivere collettivo. E poi aggiungo che, quando siamo indignate/i per qualcosa, tra il fare una minchiata e non fare niente per opporci, forse è meglio la prima.
Su quest’ultima affermazione si inchioda a metà di uno scalino, si volta e mi dice «Ah, quest mi sa che l’è giust!». Eureka. Ho usato il suo linguaggio e mi ha capito. Almeno capito, perché poi condividere le idee è un altro paio di maniche. Gli sorrido, ma lui è già sparito. Che abisso di linguaggi e di pensieri tra due attori dello stesso ambiente di vita, penso. Possiamo trovare punti di contatto e di comunicazione vera con questi ragazzi e ragazze? Cosa sa Attilio di Gaza? La collega di inglese ha provato a chiederglielo un paio di giorni dopo. Lui, che ha tanti difetti, ma che è una persona franca e diretta, ha risposto che non ne sa nulla. E, naturalmente, che non gli interessa nemmeno saperne qualcosa.
Sono passati altri dieci giorni da allora. Il numero degli aderenti all’iniziativa non è cresciuto, anche se un paio di ragazze sono venute a palesarmi il loro apprezzamento e un’intera classe non mia, quando sono entrata per delle comunicazioni, mi ha fatto un applauso. Non come quello di Attilio, un applauso vero, dico. Per par condicio, è successo anche che alcuni ragazzi abbiano strappato i volantini in cui spiegavo la proposta per ben tre volte. Alla fine li ho distribuiti nelle classi, quei foglietti, in modo che tutti/e potessero essere a conoscenza dell’iniziativa. Questo deve fare una scuola, ancora prima di formare: informare. E non vuol dire fare politica in senso bieco, usando il proprio carisma o il proprio ruolo per manipolare le giovani menti, ma mostrare e dimostrare che quando si crede in qualcosa di più grande della continua gara al più forte tra i popoli del pianeta, si può e si deve avere il coraggio di metterci la faccia. Vuol dire essere testimoni di un pensiero universalistico e pacifista, da semplici persone, da cittadini e cittadine con una mente pensante e un corpo per agire. Vuol dire, in definitiva, dare il segno alle nuove generazioni che c’è ancora un mondo adulto che crede che qualcosa di migliore e di più alto sia possibile raggiungere per questa umanità. T’e capii, Attilio?
In copertina: la distruzione a Gaza.
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
