Malinche: la madre chicana

In Messico, a cavallo tra lo stato Puebla e quello Tlaxcala, un vulcano dormiente di 4.420 metri riposa tranquillo da più di tremila anni. Intorno a lui, gli abies (abeti) vejarii, religiosos e durangesis colorano i suoi fianchi e la vastità che lo circonda di un verde sempre vivo. Sarà per questo che viene chiamato Matlacuéyetl, termine che nella lingua originaria della popolazione atzeca, il nāhuatl, significa «signora dalla gonna delle pietre verdi».

Il riferimento al femminile che, in questo caso, può essere colto solo dalle/dai parlanti, si palesa chiaramente in un altro dei nomi con cui il vulcano è noto: La Malinche, dal nome della donna indigena che accompagnò Cortés nella conquista del Paese tra il 1519 e il 1521. A lei è intitolato anche l’omonimo Parco nazionale.
L’attribuzione, ora positiva nel caso del parco e della sua rigogliosa flora, ora negativa se guardiamo al vulcano e alla devastazione mortifera che potrebbe originare, trasmuta in derivazioni linguistiche dalla connotazione decisamente ostile. Malinchisto e malinche sono, infatti, due parole denomastiche che le/gli autoctoni usano in senso spregiativo rispettivamente per indicare una condotta eccessivamente deferente nei confronti di persone, cose o comportamenti stranieri o come sinonimo di “sgualdrina”.
L’attualità del presente sembra così restituire tutta l’ambiguità di una figura femminile enigmatica, la cui storia, a seconda dei punti di vista di chi la racconta, è simbolo di gloria o di tradimento.

Della vita di doña Marina prima che venisse donata al conquistador, diventando amante e interprete, sappiamo ben poco. Gli unici dati certi ci informano che Malintzin nacque nella città azteca di Coatzacoalcos nel 1502. Ancora bambina, il futuro agiato a cui era destinata per discendenza paterna venne interrotto bruscamente: a dieci anni, dopo la morte del padre, sua mamma la vende come schiava a nobili provenienti dalla ricca area di Xilango.
Da principessa quale era per nascita, Malinche viene improvvisamente catapultata in una vita di sofferenza e di servitù; diventa merce di scambio, un oggetto. Come tale verrà trattata anche alcuni anni dopo quando, nel 1919, i maya di Taabscoob, sconfitti dagli spagnoli durante la battaglia di Centla, la regaleranno come bottino di guerra — insieme a ori, tessuti e altre diciannove donne — al comandante Cortés. Quest’ultimo, scoperto che la ragazza sapeva parlare perfettamente il nāhuatle ilmaya, decise di portarla con sé alla conquista del Messico.

Codice fiorentino, Malinche interpreta per Cortés

Da qui in avanti, grazie ai resoconti dei primi testimoni oculari, la storia di doña Marina — nome assunto dopo il battesimo a cui la costrinse il comandante — si fa più nitida ma non meno complessa, intricata tra le molteplici letture e il poliedrico simbolismo che è stato associato alla sua figura e al ruolo da lei rivestito durante la spedizione.
Relegata ai margini nella Cartas de relaciòn di Cortés, in cui primeggia l’operazione autopromozionale del conquistador, in alcune Relaciones de meritòs y servicios, come in quella di Bernardino Vázquez de Tapia (1542-1546), seppur finemente, Malinche viene riconosciuta nel suo fondamentale ruolo di interprete.
Francisco López de Gómara, autore dell’agiografia Historia General de lasIndias (1552), benché racconti la sua partecipazione agli eventi, ne riporta esclusivamente un succinto tratteggio e una descrizione riduttiva in cui la donna «emerge come una sorta di estensione reificata della volontà di Cortés». Contro questa narrazione si erge Historia Verdadera de la Conquista de Nueva España di Bernal Díaz del Castillo, storiografo che partecipò alla spedizione del 1519-1521 e ai due precedenti tentativi di esplorazione del Messico nel 1517 e nel 1518.
Con lui, nonostante la reiterata tendenza a rappresentarla come un’interprete priva di iniziativa, la descrizione di Malinche diviene più articolata, si dà spazio al racconto della sua storia e le si attribuiscono quelle doti morali e quelle qualità dimostrative della sua eccezionalità rispetto alle altre donne dell’entourage: «Desidero parlare di doña Marina, di come durante la sua fanciullezza fosse gran signora di cittadine e vassalli. Le cose stavano così: suo padre e sua madre erano signori e caciques di un paese chiamato Painala […] morì il padre lasciandola molto piccola e la madre si sposò con un altro giovane cacique ed ebbero un figlio e, a quanto pareva, volevano bene al figlio che avevano avuto […] diedero durante la notte la bambina ad alcuni indiani di Xicalango in modo che nessuno la vedesse e misero in giro la voce che fosse morta…».
Il reverenziale «doña» con cui il narratore si riferisce a Malinche è sintomatico del rispetto che ritiene le sia opportuno.

All’interno dell’opera, l’autore accosta la storia di sventura della donna alla vicenda biblica di Giuseppe, figlio favorito di Giacobbe (Genesi, 37-50). Le accomuna, infatti, non solo la svolta tragica che prende il destino dei suoi protagonisti, da prediletti a schiavi, ma anche il loro ruolo di collaboratori essenziali e la trasformazione retorica che li investe. Quest’ultimo passaggio è ben evidenziato dal professore Sergio Botta in Malinche, doña Marina, Malintzin. Mediazione e comunicazione nella Nuova Spagna e in Messico (2022): «La sventura di Malinche si trasforma retoricamente nella sua fortuna, mentre il destino avverso dei suoi familiari prefigura metonimicamente quello delle popolazioni indigine. Il riscatto di Malinche, accolta da Cortés e salvata dal battesimo, si estende dunque all’intera Nuova Spagna». Non diversamente, Giuseppe passerà a essere da sconfitto a vincitore e salverà la sua famiglia che, in questo caso, riuscirà a sfuggire dalla carestia grazie al suo intervento.
Instaurato il nuovo ordine coloniale, la figura di Malinche verrà sottoposta a ulteriori letture e trasformazioni.
In Obras Historicas Fernando de Alva Ixtlilvochitl tenta una sorta di pacificazione tra le istanze europee e quelle indigene. In riferimento alla donna, ciò si sostanzia nell’attenzione rivolta alle sue origini e all’uso del suo nome nativo, Malintzin, all’interno di una narrazione che abbraccia l’interpretazione spagnola della vicenda storica.
Sarà poi il gesuita Francisco Javier Clavijero a consacrarla come «emblema della cristianità trionfante e madre spirituale».

La Malinche, Diego Rivera

In questa storia di ricorrenti opposizioni binarie (bene/male, nobiltà/schiavitù, eroina/traditrice, spagnoli/indigeni), la figura di Malinche non riuscirà a sfuggire alla più antica delle dicotomie: quella che oppone la donna Madonna (la madre spirituale di Clavijero) alla donna “puttana”.
Gli intellettuali animati da un profondo sentimento antispagnolo faranno di Malinche la tentatrice e traditrice per antonomasia, l’Eva messicana contrapposta alla Vergine di Gudadalupe, protettrice del Messico. La sessualizzazione a cui verrà sottoposta la convertirà nella chingada, la violentata che, passivamente, ha lasciato entrare lo straniero e tradito i suoi connazionali.

La figura di Malinche verrà riscattata solo con l’avvento del femminismo chicano. Con esso, viene riconosciuta come antenata del proprio popolo e diviene sineddoche della situazione in cui vivono tutte le donne chicane: come lei, anche loro sono ritenute colpevoli di aver disconosciuto le proprie origini.
La riabilitazione a cui viene sottoposta le restituisce la sua agentività e, allo stesso tempo, ne evidenzia un elemento centrale della sua storia, spesso trascurato: Malinche si trovò ad agire all’interno di un contesto di schiavitù e subordinazione.
Ricostruendo la propria genealogia, le figlie della mestiza, di cui rivendicano orgogliosamente la discendenza, giungono alle radici della loro subalternità prescritta e riscrivono la propria storia cambiando i termini del discorso. Un discorso in cui, finalmente, echeggia il suono di voci di donne.

In copertina: La Malinche haciendo de intérprete entre Hernán Cortés y los Méxicas, murale di Desiderio Hernández Xochitiotzin.

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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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