Pubblicato per la prima volta in Francia nel 1899, La torre d’amore è un romanzo scritto da Rachilde, pseudonimo dietro il quale si nasconde la scrittrice Marguerite Eymery, nata nel 1860 a Périgord, in Dordogna, da un militare e da una musicista appartenente a una nobile famiglia locale.
Tradotto in italiano nella pregevole versione proposta da Sara Concato e pubblicato da Edizioni croce di Roma nel 2024, narra la storia del giovane, non ancora trentenne, Jean Maleux che viene assegnato, come secondo capitano, al faro di Ar-Men, «un’impresa ingegneristica prodigiosa, una sfida tecnologica dell’uomo alla natura e una gloria nazionale della Francia» di fine Ottocento, come scrive nell’introduzione all’edizione italiana Marina Geat, ordinaria di Lingua e Letteratura francese presso l’Università Roma3. Maleux si imbatte in Mathurin Barnabas, primo guardiano del faro e suo unico interlocutore, che, sebbene non sia neppure cinquantenne, per il suo stato incarna l’abbrutimento a cui sono esposti tutti coloro i quali vengono assegnati alla vigilanza dell’“inferno degli inferni”, come viene soprannominato il faro di Ar-Men, eretto, sull’estremità della Chaussée de Sein, in Bretagna, e scosso dalle fondamenta ogni qualvolta si registra una tempesta in mare. Barnabas non si lava; non cambia abito; quando va a letto, non si libera neppure degli stivali che calza; ha quasi dimenticato come si parla poiché non ha altro interlocutore che il secondo guardiano e, spesso, sta in silenzio a fumare la pipa sotto la pioggia, senza condividere i suoi pensieri perché non ne ha di nuovi; di conseguenza, ha disimparato a scrivere e Jean lo incontra in quella fase della vita in cui sta consultando significativamente, tra tutti i libri presenti alla Torre, un semplice abbecedario.
La voce narrante, Maleux, ricorre ai tempi verbali del passato, quando parla dell’esperienza vissuta; del presente, quando ripensa a quei giorni trascorsi ad Ar-Men e all’irresponsabilità con la quale, come tutti i giovani, ha accettato la sfida di abitare per un tempo «quel faro tra le cosce verdi del mare». Se lo spazio su cui si erge la Torre è angusto — un piccolo scoglio nella rada di Brest — e se La torre d’amore è la narrazione di «relazioni allucinate e allucinanti in uno spazio claustrofobico» — ancora dalle parole di Marina Geat — il dettato si dipana all’interno di una dimensione altrettanto asfittica, su una superficie spazio-temporale soffocante e angosciante. L’area del dicibile può essere dilatata solo ricorrendo alla dimensione onirica che agisce come piano narrativo ulteriore: riportando un sogno, Maleux racconta di una ragazza araba che incontra a Malta e può, in tal modo, valersi di un setting altro rispetto a quello della Torre e di un tempo altro rispetto a quello reale: una visione. Frequenti procedimenti ellittici, soprattutto a inizio capitolo, danno voce ad atmosfere lugubri, presenze inquietanti, tempeste che lasciano, al mare e ai due guardiani, tracce di naufraghi: un berretto, un dito…
Il lessico riflette una terminologia altamente specifica — cabotare, mare fermo… — e si contraddistingue per tutta la sua forza metaforica: la mer, in francese, è “femmina” così come lo sono le onde del mare manifestamente personificate che somigliano alle «cosce» di una donna; i due guardiani sono “maschi” ma Mathurin, di notte, «nel delirio del vento […], male assai noto tra i guardiani di faro», indossa spesso un berretto con delle ciocche di capelli biondi e canta «da dentro» con una voce da donna che, a un certo punto, comincia ad assomigliare a quella «di una fanciulla […] strangolata sulle dune in una notte di equinozio». Mathurin, tuttavia, resta uomo raziocinante di giorno, infatti «nel lavoro restava uomo, e non perdeva la testa durante le ore di servizio». La rappresentazione/denuncia della condizione degradata della donna è affidata a soluzioni narrative altrettanto metaforiche che avvicinano il femminino al mondo animale e primitivo con una connotazione negativa: il giovane protagonista, per sfuggire alla routine allucinante della vita al faro, avrebbe preso con sé «una scimmia, un cane o… una donna»; una fanciulla posa sulla spalla di Maleux «la sua zampetta bruna».
Un «lamento vuoto» e l’«erba salata» sono solo due esempi delle tante felici soluzioni sinestetiche a cui ricorre la traduttrice Sara Concato, in un procedimento narrativo che affida il suo ritmo alternato di snervante tumulto — il mare in tempesta — e di immobilismo e pesantezza — Cadic è un canarino con la gotta — a immagini potenti. Un insistito cromatismo, che si impone fin dalle prime pagine, nelle quali si parla di una stanza tinta di giallo piena di mosconi blu, di un berretto azzurro e di un soprabito scuro, offre al senso della vista la capacità immaginativa suscitata in chi legge dalle parole, sebbene, scorrendo il testo, odori penetranti, dichiarati o lasciati immaginare, si insinuino a completare la visione. Predominano i toni scuri del colore: sono cupi, densi, plumbei, limacciosi; hanno una consistenza simile a quella del petrolio. Il colore narra gli avvenimenti collocandoli in un’atmosfera notturna, eternamente livida — “livido” compare come aggettivo diverse volte nel romanzo e diventa esso stesso colore, nuance di tinte cangianti tutte fredde. C’è tanto rosa, in gradazioni diverse; il rosso, quando presente, è rosso «scuro» o «rame» o «rossastro», una tinta dalla pigmentazione sempre concentrata, quindi, torbida, pastosa; il giallo, nelle pagine iniziali, sbiadirà in quello quasi biancastro «della cera in chiesa» (p. 55). Interessante è l’uso del bianco: quando compare, molto raramente, non richiama la luce, il chiarore, ma è un «bianco da sudario» che rimanda a una componente dolorosa oppure si riferisce agli abiti funebri dell’equipaggio e, dunque, a una dimensione luttuosa. Il bianco, presenza di tutti i colori, è assente come esplicitamente annotato dalla scrittrice francese. La torre d’amore è il romanzo del verde, un colore «meticcio» — «meticcio verde» è proprio un’espressione usata a p. 46 —; è il colore delle “cosce” del mare, tra le quali si trova il faro di Ar-Men. Verde è il colore dell’isolotto, dell’erba, delle tamerici; verdi si fanno, a poco a poco, i corpi dei morti in mare. E verdi sono gli occhi della scrittrice Rachilde, una diciannovenne che, dalla periferia, giunge a Parigi perché vuole diventare scrittrice e che — come si legge nell’introduzione — per evitare l’umiliazione di una donna che ambisce a un posto tra poeti e artisti di fine secolo, si taglia i capelli, si veste come un uomo e sui suoi biglietti da visita fa scrivere: «Rachilde. Homme de lettres». Verdi sono gli occhi di una scrittrice che ha scelto come pseudonimo il nome di un fantasma; verdi sono gli occhi di Marguerite Eymery che debutta nel 1884 con un romanzo, Monsieur Vénus, in cui si narra di un bizzarro caso di inversione sessuale; sono «occhi brillanti di verde […] stanchi di aver sognato tutto», come si legge nei versi che il poeta Albert Samain le dedica, quelli di una donna che, pur difendendo «la forza intrinseca dell’essenza femminile», aborre quella lotta per la parità dei diritti che si traduce e sbiadisce nell’uguaglianza.

Rachilde
La torre d’amore
Croce Libreria, 2024
pp. 214
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Articolo di Sara Carbone

Laureata in Storia, è docente di Discipline letterarie. Traduttrice e mediatrice linguistica, è Consigliera dell’Associazione di Storia Contemporanea di Senigallia e componente del Centro studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo di Napoli. Collabora a diverse riviste, quali Il materiale contemporaneo; è autrice di saggi sul fenomeno migratorio.
