Maschi veri, adattamento italiano della serie spagnola Machos Alfa, è il racconto in chiave umoristica della crisi identitaria vissuta dall’uomo contemporaneo. Alle prese con tradimenti, proposte inattese, licenziamenti e divorzi, i quattro protagonisti — Mattia (Maurizio Lastrico), Luigi (Pietro Sermonti), Riccardo (Francesco Montanari) e Massimo (Matteo Martati) — tenteranno di comprendere in cosa consiste essere maschi nell’epoca del politically correct e dell’emancipazione femminile.

Si tratterà di riscoprire quelle configurazioni pratiche, comportamentali ed emotive che, secondo Raewyn Connell, vengono impiegate nell’agire sociale della vita quotidiana col fine ultimo di riconoscersi e di essere riconosciuti come appartenenti a un determinato genere.
Il riferimento alla sociologa australiana non è casuale. D’altronde, nel “maschi veri” del titolo e nel significato che questa espressione assume per alcuni dei protagonisti della serie, è possibile ravvisare un chiaro rimando a quella mascolinità egemonica teorizzata da Connell nell’opera Masculinities (1993).
Si tratta di «una prassi di genere che rappresenta il modo privilegiato di mettere in atto la maschilità e che domina sulle altre tipologie. Tale maschilità viene definita egemone perché non è imposta con la forza, ma viene riprodotta attraverso rappresentazioni, discorsi e istituzioni che contribuiscono a creare un consenso indiscusso, ossia una egemonia, che la fa accettare da tutti come la più giusta» (Farci, M., Scarcelli, C. M., 2022, Genere, sessualità e società. In: Farci, M., Scarcelli, C. M. (a cura di): Media digitali, genere e sessualità. Città di Castello, Mondadori Università, 25-48).
Basandoci sui numeri, e dunque confrontando il numero di partecipanti al corso contro la maschilità tossica con quello proposto da Massimo che, invece, punta a una sua restaurazione, notiamo come la vera mascolinità, nel sentire della maggior parte degli uomini, sia ancora profondamente legata al ruolo di breadwinner (letteralmente “colui che porta il pane a casa”), a uno spiccato fallocentrismo — tanto da dichiarare il pene «il miglior amico dell’uomo» — e alla repressione emotiva.

Vero è che sarà proprio il recupero di questa forma più arcaica di maschilità a determinare la “sconfitta” relazionale di Massimo e Riccardo. Eppure, anche se in minima parte, ci avevano fatto ben sperare.
Nel corso della vicenda, infatti, avevamo assistito a un leggero dirottamento verso quella che è stata definita maschilità ibrida. Coniato nel 2014 dalla sociologa americana Cheri Jo Pascoe e dal suo collega Tristan Bridges, l’espressione viene impiegata per indicare la capacità, da parte della mascolinità egemone, di acquisire alcune caratteristiche che tradizionalmente non le si ritengono connaturate e/o femminili senza tuttavia andare a intaccare l’ordine di genere prestabilito e i privilegi che lo stesso assicura agli uomini.
Lo scarso coinvolgimento che i due quarantenni dimostrano in questo viaggio alla ricerca di una maschilità non stereotipata, frutto più di un’imposizione che di un’intenzione volontaria, è l’indizio manifesto della prevedibile conclusione.
L’intento pedagogico — ipotizzando che ve ne sia uno — o lo stimolo alla riflessione — sperando che la visione della serie la ispiri — è affidato agli altri due protagonisti dello sceneggiato: Mattia e Luigi. Questi ultimi, apparentemente i più fragili e passivi del quartetto, sono in realtà quelli più forti, nel senso che posseggono quella sicurezza tale da non aver paura di mettere in discussione la propria maschilità e di ridefinirne i termini. Essi incarnano quella maschilità definita accudente, riprendendo le parole della sociologa Karla Elliott, o inclusiva, se invece facciamo riferimento alla teorizzazione del sociologo e sessuologo americano Eric Anderson.
Nel primo caso si tratta di una forma di maschilità che, «riconoscendo l’importanza della vita affettiva e relazionale», dà spazio alla propria sensibilità ed emotività. Il fatto che Mattia e Luigi facciano propri aspetti tradizionalmente attribuiti al genere femminile, a lungo socialmente riconosciuto come l’unico legittimato a esprimere sentimenti che hanno a che fare con la cura, l’affettività e la fragilità, li rende idonei rappresentati della cosiddetta maschilità inclusiva. L’espressione poggia sull’idea che nella società attuale l’omoisteria, ossia la paura da parte degli uomini eterosessuali di esser percepiti come gay o effeminati, si stia lentamente erodendo.
Ciò che differenzia queste due forme di maschilità da quella ibrida, anch’essa caratterizzata dall’appropriazione da parte degli uomini di caratteristiche diverse rispetto a quelle che si ritengono proprie della maschilità egemone, è l’inversione di tendenza che esse prevedono rispetto ai rapporti di potere che reggono il sistema di genere: mentre le prime si impegnano per la rimozione della gerarchia tra i generi, la maschilità ibrida ne postula il mantenimento.

Da questa distinzione, che nella serie oppone la coppia Massimo-Riccardo a quella Luigi-Mattia, derivano due diversi posizionamenti rispetto a quella che è stata definita maschilità subordinata. Rientrano in questa definizione tutte quelle «espressioni di maschilità che contengono caratteristiche ripudiate da quella egemone e che occupano una posizione inferiore nella gerarchia di potere, come le maschilità gay e quelle “effeminate”» (Cannito, M., Mercuri, E., 2022, Media digitali e maschilità. In: Farci, M., Scarcelli, C. M. (a cura di): Media digitali, genere e sessualità. Città di Castello, Mondadori Università, 187-202).
Così, mentre Luigi rimane indifferente di fronte alla giocosa messa in discussione della sua eterosessualità, Riccardo, che della maschilità tossica è un degno rappresentante, si assicura che Eugenio, l’amico omosessuale che gli ha dato un passaggio, non dica a nessuno dei minuti passati da soli in macchina. Con lui, l’omoisteria si palesa in tutta la sua forza normativa: per preservare l’immagine di maschio alfa e mantenere l’approvazione dell’in-group, Riccardo non dovrà solo esagerare le proprie performance di genere ma dovrà anche prendere le distanze da ciò che il gruppo egemone considera subordinato.

Naturalmente le forme della maschilità non si esauriscono qui. Tra le tante teorizzate, possiamo annoverare anche la maschilità marginalizzata, riferita a tutte quelle espressioni di maschilità che si ritrovano in una posizione subordinata rispetto a quella egemone in virtù della loro etnia o classe sociale, e la maschilità complice, con la quale definiamo il vantaggio che gli uomini traggono da quella egemone nonostante la maggior parte di loro non vi aderisca. Senza pensare poi a tutte quelle forme di maschilità agevolate dall’uso delle tecnologie come la geek masculinity e la maschilità nerd… solo per citarne alcune. Molte altre, probabilmente, si costruiranno poi con il tempo. Mi rendo conto che quelle elencate potrebbero apparire come categorie stabili, fisse. Tuttavia, vorrei sottolineare la voluta omissione del termine nel corpo del testo: l’invito è di non aderire alle logiche limitative che inducono a ragionare per compartimenti stagni ma di partire da questi riferimenti per sviluppare forme di maschilità aperte, nuove e personali che dialoghino con il proprio sé e con il femminile.
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
