Carissime lettrici e carissimi lettori,
lo sport è lo sport. La pace è la Pace. Il premio Nobel è sicuramente una cosa seria. Chiaramente tanto quanto il tennis, uno sport che ci sta dando importanti soddisfazioni e sta ritornando come uno sport “popolare” avendo avuto il potere di tenerci incollati/e, in grandissimo numero, al televisore durante un pomeriggio domenicale (come gli appuntamenti calcistici!!) di questo luglio ritornato rovente dopo la pioggia. Siamo stati e state lì davanti per oltre tre ore finite con l’applauso alla vittoria di Jannik Sinner, un trionfo tutto tricolore. Né ci è mancato di gustare insieme la forza di Carlos Alcaraz, il suo eccellente sfidante spagnolo, anche lui un vero campione sulla terra del prestigioso premio Wimbledon.
Voglio dire: le palline rimbalzate da una parte all’altra del campo erano distribuite tra due forze praticamente identiche, come dire, “alla pari” cariche della stessa altezza morale e di una identica forza di intervento, poi l’abilità ha fatto il suo corso e ha vinto il migliore.
Fuor di metafora, mi si conceda di dire che due candidature al Nobel per la Pace per l’anno in corso non riesco a “pareggiarle”, come capacità di azione, nonché per la modalità di come sono state proposte, per il loro impegno morale a favore della pace. Mi appare stridente affiancare due personaggi e due candidature così diverse. Da una parte Francesca Albanese, italiana, relatrice speciale per Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati (in questo numero le dedichiamo un articolo) portata alla candidatura del Nobel da un nutritissimo e autorevolissimo numero di firme, da quelle di importanti intellettuali e artisti e da tantissime persone comuni, fortemente critica delle azioni compiute dal governo israeliano su Gaza (“regime di apartheid”, lo ha definito in uno dei suoi discorsi). Dall’altra parte del “campo” c’è un’altra candidatura: quella presentata da Benjamin Netanyahu, capo del governo israeliano, già accusato di corruzione e altro ancora prima dell’attentato di Hamas del 7 ottobre 2023, poi condannato dalla Corte penale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità, impassibile a qualsiasi pericolo d’arresto, fermo lì al governo, contestato, ora, dalla sua stessa maggioranza e da moltissimi e moltissime israeliane. Benjamin Netanyahu che con i continui, crudeli, incessanti bombardamenti su Gaza, con l’uccisione di bambini, e anche neonati, con la giustificazione, tra le altre, che sarebbero diventati futuri terroristi/e ha portato, volando in Usa, a Donald Trump, suo omologo negli States, la candidatura al Premio Nobel per la Pace! Non c’è stridore tra queste due candidature? Soprattutto anche sul piano delle proposte? Non mi sembra, come dicono, un fatto ideologico.
Il Nobel per la Pace viene così definito: «Un riconoscimento assegnato a individui o organizzazioni che si sono distinti per il loro impegno a favore della pace mondiale». Si riceve dal 1901, qualche anno dopo l’istituzione del Nobel che data 1895 e rientrava già nelle volontà scritte nel testamento dal suo fondatore, lo svedese Alfred Nobel (1833-1888) che da inventore della dinamite e commerciante d’armi divenne filantropo. Praticamente il Nobel è un premio che copre quasi tutte le materie dello scibile da quelle umanistiche a quelle scientifiche (manca, per esempio, la Matematica) e comprende anche quello per la Pace. Quest’ultimo è l’unico tra i premi intitolati all’inventore della dinamite (!) a essere consegnato a Oslo, in Norvegia, anziché nella capitale svedese, a Stoccolma.
Il primo, anzi, i primi vincitori furono due: Henry Durant, fondatore della Croce Rossa, e Frédéric Passy, economista e pacifista francese. Ma tanti grandi nomi sono nell’elenco dei e delle premiate che, tra il 1901 e il 2018 sono stati 105 di cui solo 16 donne (il numero maggiore rispetto a tutte le donne premiate in altri settori). A questi si aggiungono le 24 organizzazioni diverse, come la Croce Rossa. Tornando alle singole persone si trova nell’elenco un Presidente americano, e dell’altezza di Theodore Roosevelt (1906). Un anno prima il Nobel era andato a Bertha von Suttner, austriaca, presidente onoraria dell’Ufficio per la pace. Lei, prima delle donne, lo ricevette nel 1905. Il primo e unico italiano è stato Ernesto Teodoro Moneta, presidente dell’unione Lombarda per la pace e la giustizia internazionale (1907). Gli anni della guerra portarono alla non assegnazione, dal 1914 al 1916 così come dal 1939 al 1943. Altri nomi celebri quello del tedesco Willy Brandt (1971), Henry Kissinger (1973) quando il Nobel per la Pace fu rifiutato dal vietnamita Tho Le Duc. Michajl Sergeevič Gorbačëv e Madre Teresa di Calcutta lo ebbero rispettivamente nel 1990 e nel 1979. Il Dalai Lama nel 1989 e soprattutto lo ebbero, in tripletta, nel 1994 per la pace (mai risolta) in Medioriente, Yasser Arafat (palestinese) insieme a Simon Peres e Yitzhak Rabin (israeliani). Importanti per l’apartheid Nelson Mandela e Fredrik W. De Clerk (sudafricani). Barack Obama, Martin Luther King, Kofi Annan, Jimmy Carter e poi Abiy Ahmed Ali, primo ministro dell’Etiopia e Juan Manuel Santos, presidente della Colombia. Tra le donne spicca la giovanissima Malala Yousafzai, la ragazzina pakistana che si era opposta al potere e alla mentalità talebana, soprattutto a favore delle ragazze e le donne. Sarà poi vittima di un attentato che quasi la porterà alla morte. In questo nostro secolo importante è quello conferito, nel 2023, all’attivista iraniana Narges Mohammadi conferitole «per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti».
Con l’istituzione del Premio, Alfred Nobel, scioccato dal necrologio erroneamente dedicato a lui da un giornalista, volle farsi ricordare per cose diverse da quelle che aveva letto sul giornale (crudeltà e sterminio) e che erano state le sue azioni principali. «Nel 1888 morì a Parigi Ludwig Nobel, un fratello di Alfred. Un giornalista confuse i nomi e scrisse un necrologio del chimico svedese dal titolo “Morto il venditore di morte”. Nell’articolo si sosteneva — in gran parte a ragione — che Nobel si era arricchito a dismisura con invenzioni che avevano reso le guerre, già terribili, ancora più sanguinose».
Nobel fu molto colpito dal tono di condanna di questo necrologio prematuro, e pensò di lasciare di sé una memoria migliore di quella di uno spietato industriale, dedito soltanto ad accumulare ricchezze. La filantropia era una buona via d’uscita, così Nobel lasciò nel suo testamento una somma enorme che, ben amministrata, sarebbe servita negli anni a venire per premiare le grandi scoperte scientifiche in chimica, fisica e medicina.
Tornando a casa nostra troviamo, purtroppo, notizie “allegre” (poco serie) che riguardano dei ministri di questo governo. La volta scorsa abbiamo trascurato il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida secondo il quale bisognerebbe stare attenti (d’estate con questo caldo?) a bere troppa acqua che potrebbe diventare addirittura mortale! Ora il “cognato d’Italia” in una “sacra” alleanza con il Presidente Usa, inventa la strategia della bresaola: visto che l’Italia compra dall’estero (ora dal Brasile) la carne per creare la bresaola valtellinese, basta, secondo il ministro, acquistare carne dagli Stati Uniti e si risolverebbe il problema dei dazi troppo alti imposti da Trump. Ma è un do ut des molto strano per non dire poco… trasparente.
Con il ministro della Cultura Alessandro Giuli le polemiche continuano a mezzo stampa. Il Corriere della sera è stato accusato da Giuli di aver “censurato” una sua intervista in risposta a un’editoriale del professor Ernesto Galli Della Loggia che criticava l’operato del ministero presieduto da Giuli. Ad amor del vero l’intervista al ministro era stata chiesta dal giornale prima dell’editoriale contestato. La non pubblicazione è dovuta, secondo il quotidiano, perché conteneva forti inesattezze come la poltrona “di lusso” data da Sangiuliano (predecessore di Giuli al ministero) a Galli Della Loggia che invece era lì “a titolo gratuito”, e altre parole scorrette e forti rivolte allo storico dal ministro.
Un problema internazionale di grande rilievo è quello che riguarda Alberto Trentini, il cooperante nostrano in carcere ormai da troppi giorni a Caracas in Venezuela. Spiega l’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale: «Trentini era stato fermato lo scorso 15 novembre mentre si recava dalla capitale Caracas a Guasdualito, nel sudovest del Venezuela, per portare aiuti, in qualità di capomissione della sua organizzazione, ad alcune comunità per disabili sparse in alcuni villaggi della zona. Insieme a lui era stato fermato anche l’autista della Ong che lo accompagnava. Il suo caso era stato giudicato come molto complesso dalla Farnesina, che aveva attivato fin da subito i canali diplomatici, attraverso i suoi rappresentanti nel paese, per avere informazioni e ottenerne il rilascio. A metà gennaio, due mesi dopo l’arresto, il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva convocato l’incaricato d’affari del Venezuela in Italia per protestare con forza per la mancanza di informazioni sulla sua detenzione, oltre a contestare l’espulsione di tre diplomatici italiani da Caracas. Ad aprile la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, aveva chiamato la madre di Trentini assicurandole che il governo stava lavorando per riportarlo a casa. Finora, però, come avvenuto in altri casi simili, il Venezuela non ha concesso che il console italiano né alcun rappresentante del governo di Roma potessero fargli visita. Ad alimentare le speranze per il rilascio di Trentini è stata di recente la scarcerazione di Alfredo Schiavo imprenditore italo-venezuelano di 67 anni in carcere a Caracas da oltre 5 anni, liberato per motivi umanitari grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio. La cooperazione internazionale — conclude il rapporto dell’Ispi — resta uno strumento fondamentale per affrontare sfide globali complesse, dalla pace allo sviluppo sostenibile. Il lavoro dei cooperanti, il loro impegno a costruire ponti tra culture e a sostenere le comunità vulnerabili, è spesso rischioso, come dimostra il caso di Alberto Trentini, tuttora detenuto in Venezuela. Sostenere il loro lavoro, ricordarne l’impegno e l’altruismo, è dovere di tutti coloro che credono che il dialogo, la cooperazione allo sviluppo e il rispetto dei diritti umani debbano continuare ad essere elementi fondanti della comunità internazionale».
Alla martoriata Gaza, ai suoi abitanti vittime innocenti di uno scontro tra “mostri” che bramano di sopraffarla e segnarne la fine, vogliamo dedicare il momento della poesia di questa settimana. Le poesie di seguito sono tratte sempre dal libro Il loro grido era la mia voce. Poesie da Gaza, una bellissima e interessante raccolta di poesie di abitanti di Gaza. Fazi, la casa editrice, l’ha voluto vendere (e io vi invito caldamente ad acquistarlo) donando, per ogni copia, ben 5 euro a Emergency sempre per Gaza.
Insieme tristemente leggiamo l’ultima poesia di Refaat Alareer (1979-2023), intellettuale e poeta palestinese, professore di inglese e fondatore del progetto «We are not Numbers». Alrareer è stato ucciso da un bombardamento mirato israeliano il 6 dicembre 2023 nella Striscia di Gaza. «Era un poeta, scrittore e professore universitario di letteratura comparata presso la Islamic University di Gaza. Attivista, cofondatore del progetto We Are Not Numbers, nato per raccontare storie di quotidianità con la collaborazione di autori affermati e giovani scrittori di Gaza». La poesia che qui pubblichiamo è stata scritta in inglese il 1° novembre 2023. L’intellettuale gazawi, appassionato di Shakespeare, è stato ucciso nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2023, insieme ad altri 7 membri della sua famiglia, durante un raid israeliano che ha colpito la sua casa.
«Le poesie qui tradotte portano con sé il suono delle strade di Gaza, il fruscio delle foglie che resistono al vento, il pianto dei bambini e il canto degli ulivi. Sono una testimonianza di vita, un atto di amore verso una terra che non smette di sognare la libertà. In un mondo che spesso preferisce voltare lo sguardo, queste poesie si ergono come fari, illuminando ciò che rimane nascosto. Perché la scrittura, come ricordava Edward Said, è “l’ultima resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità”».
Un altro poeta è Haidar al-Gazali il cui nome ci riporta alla mente il sublime filosofo dell’Islam medievale. Lui è giovanissimo (classe 2004), appena ventuno anni e la guerra negli occhi.
Vorrei farvi una promessa. Finché non finirà questa carneficina ogni settimana piangeremo con Gaza e copierò per noi una delle poesie del libro.
Buona lettura a tutte e a tutti
I profumi di Gaza
Un tempo Gaza profumava di limoni, di fragole, di arance e pomodori…
ora questa terra è un cumulo di macerie,
senza frutti e senza radici.
Un tempo vi era bellezza nel tramonto di Gaza,
e alimentava la speranza che arrivasse finalmente
l’alba della fine della guerra.
«Almeno abbiamo il mare» — dicevano gli abitanti e mentre lo sguardo si perdeva all’orizzonte, si allungavano sulla spiaggia,
immaginando un altro mondo aperto e accogliente.
(Questa l’ultima poesia di Refaat Alareer)
Se dovessi morire,
tu devi vivere
per raccontare
la mia storia
per vendere le mie cose
per comprare un po’ di carta
e qualche filo,
per farne un aquilone
(fallo bianco con una lunga coda)
cosicché un bambino,
da qualche parte a Gaza,
guardando il cielo
negli occhi
in attesa di suo padre che
se ne andò in una fiamma
senza dare l’addio a nessuno
nemmeno alla sua stessa carne
nemmeno a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che tu hai fatto,
volare là sopra
e pensi per un momento
che un angelo sia lì
a riportare amore.
Se dovessi morire,
fa che porti speranza
fa che sia un racconto!
Refaat Alareer
La bambina il cui padre è stato ucciso
mentre portava un sacco di farina
sulla schiena
continuerà a gustare
il sangue di suo padre
in ogni pane.
29/02/2024
Ti hanno uccisa come si uccidono le farfalle,
e l’alba ha pregato per te,
poiché da una fossetta sulla tua guancia sorge il giorno.
Ti hanno uccisa, affinché l’aurora non torni mai più,
affinché restiamo al buio, senza vedere.
Hanno detto che minacciavi il paese
con una cintura esplosiva in vita.
Solo io,
sapevo
quanto amavi
le cinture di rose.
(Haidar Al Ghazali 26/08/2024)
Questo numero di Vitamine vaganti inizia con la donna di Calendaria, Cicely Mary Barker, l’artista delle fate floreali, che sapeva trasportare lettori e lettrici, grandi e piccoli, in un mondo di magia e meraviglia. Si passa dall’Inghilterra agli Stati Uniti per celebrare un anniversario con Lo sguardo sul mondo dagli occhi di Berenice Abbott, la grande fotografa di cui celebriamo la capacità di osservare con attenzione, con rispetto, con intelligenza. L’intervista di questa settimana è con Ignazia Bartholini, «forse la prima studiosa ad affermare con forza, negli anni Novanta, che la violenza che vede come vittima una donna […] proviene dalla persona prossima che è legata o che le è stata legata intimamente». Potremo conoscerla in Temi sociali importanti per la ricerca e la politica. Francesca Albanese, una di noi è una riflessione sul rapporto della coraggiosa Relatrice speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani per la Palestina nei territori occupati.
Passami il sale è un’altra puntata della vita della scrittrice Clara Sereni legata a uno dei suoi libri più interessanti scritti quando si era trasferita a Perugia da Roma. Ma si può andare anche Sotto Roma: la città stratificata con la descrizione della storia geologica della capitale. Ci spostiamo in Campania con Riflessioni sull’oggi rispetto a uno Statuto dei lavoratori del 1789. Le seterie di San Leucio, che presenta il Codice Leuciano in un interessante confronto con i recenti referendum sul lavoro.
Io sono ancora qui è la recensione del film omonimo intenso e coinvolgente che riflette sulla brutalità e l’oppressione delle dittature. Dal cinema si passa alla musica con Corpi che parlano, voci che sfidano, il racconto delle performance di alcune artiste che nel mese di giugno si sono esibite all’insegna della libertà femminile. Artemisia sbarca a Parigi presenta la Mostra “Artemisia – Héroïne de l’art” al Musée Jacquemart-André di Parigi, che si potrà vedere fino al 3 di agosto.
La ricetta vegana che vi proponiamo è Melanzane alla palestinese, con un pensiero per tutte le persone, uomini e donne, che stanno subendo una sofferenza ingiusta e inimmaginabile.
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
