A interessare qua non sono le ragioni per le quali Carlo di Borbone, nel 1750, praticamente mentre fervevano i lavori per l’edificazione della Reggia di Caserta, acquistò di fronte ad essa, sulla collina di San Leucio, un palazzo cinquecentesco, facendone per sé e la sua famiglia una diversa residenza, apprezzatissima poi dal figlio Ferdinando IV.

La vista splendida sul Vesuvio, sulla stessa Reggia, valse al Palazzo l’epiteto di Belvedere. Non sono però neppure le bellezze paesaggistiche quelle che suscitano oggi la nostra attenzione. Dopo alcune vicende familiari, Ferdinando IV ampliò una manifattura originariamente di modeste dimensioni che esisteva a San Leucio fin dal 1776, e su quella collina diede vita a un modo di intendere il lavoro talmente avanzato da essere fonte di stupore per noi, soprattutto donne del secondo millennio che non abbiamo ancora conseguito certi diritti ritenuti, da quei sovrani, fonte di felicità. Ovviamente non dobbiamo dimenticare che in verità partiamo con il piede sbagliato se usiamo la parola diritti dal momento che, in pieno dispotismo illuminato, non si può che fare riferimento a concessioni da parte del sovrano. Tali concessioni sono state comunque tradotte in uno specifico Statuto, noto anche come Codice Leuciano, emanato nel 1789. I 5 capitoli e i 24 paragrafi che lo compongono prevedono delle garanzie per il lavoro, le persone straniere, la gente povera, e questi punti, a qualche settimana da un referendum che purtroppo non ha neppure raggiunto il quorum, offrono nel paragone con i suoi quesiti qualche spunto di riflessione:
1) Se il quesito n.1 del referendum di giugno riguardava la possibilità di reintegrare il/la lavoratore/trice nel suo posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo; se il quesito n.3 mirava ad abrogare alcune norme relative a contratti a tempo determinato, il Codice Leuciano stabiliva la garanzia di impiego per tutta la vita. E inoltre, nel caso in cui una persona non fosse più, o per vecchiaia o per malattia o altro, nella condizione «di potersi lucrare il pane», era prevista una cassa comune, mentre per gli individui malati una «casa degli infermi». Alla salute di chi lavorava si prestava molta attenzione, tant’è che annualmente tutta la gioventù era vaccinata contro il vaiolo.
2) Se il quesito n.5 proponeva di dimezzare da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto alle persone straniere extracomunitarie maggiorenni per poter richiedere la cittadinanza italiana, il Codice Leuciano stabiliva che i lavoratori stranieri potessero acquisire da subito gli stessi diritti dei cittadini leuciani a patto che i loro costumi fossero adeguati e si fossero assiduamente applicati al lavoro. Naturalmente erano previste pene per chi trasgrediva.
La società leuciana prevedeva la condanna morale del lusso e del fasto con la conseguente istituzione di una società basata sull’uguaglianza, ossia una società in cui non vi fosse disparità tra ricchi e poveri; ma anche le guide che accompagnano oggi visitatrici e visitatori attraverso i locali di quella che è stata l’antica seteria, e mostrano le varie fasi della lavorazione della seta, a partire dall’allevamento dei bachi sino al funzionamento degli straordinari macchinari, sono attente a chiarire come il Codice manifestasse la consapevolezza che nello stato di uguaglianza totale non può che esservi appiattimento, ed ecco dunque che nella seteria di San Leucio non solo fosse riconosciuta la dignità di chi prestava la propria opera, ma si guardasse al merito nella assoluta parità di genere. Quindi era la meritocrazia, intesa non solo come volontà di migliorare per sé stessi ma anche come ricaduta di benèfici effetti sul lavoro, a essere fonte di distinzione tra i cittadini e le cittadine.


La parità di genere era garantita pure attraverso altri interventi: l’istruzione era gratuita, sia per i maschi che per le femmine. Venne anche istituita la parità di genere nell’asse ereditario. Venne abolito l’abominevole istituto della dote, in base al quale la donna che si sposava doveva recare con sé un certo patrimonio, ora bastava «il solo necessario corredo», e parimenti venne vietata ogni interferenza delle famiglie di origine nella scelta del coniuge. Il matrimonio poteva avvenire però solo a determinate condizioni: infatti entrambi dovevano, oltre che avere compiuto 20 anni l’uomo e 16 la donna, essere in grado di mantenersi con il proprio lavoro.

Nella residenza della regina, all’epoca davvero illuminata, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, c’è una finestra che dà su quelle che possono essere definite le prime case a schiera della storia, o, forse meglio, case popolari. Già, perché il Codice stabiliva per le coppie, al momento del matrimonio, anche l’uso di abitazioni appropriate, a patto però che i rispettivi direttori di mestiere avessero loro concesso l’attestato di merito. Caratteristiche della famiglia dovevano essere l’amore, la benevolenza, la premura: «Il Padre è nell’obbligo di sovvenire, di assistere, di sostenere insieme colla madre i propri figli. Entrambi son tenuti di educarli e di procurar loro uno stato di felicità in questo Mondo». Da quelle case, le donne con figlie/i piccoli o piccolissimi, uscivano tranquillamente per andare al lavoro, poiché lì trovavano chi li accudiva; e se necessitavano di allattare, si assentavano dalla loro mansione senza problemi per il tempo necessario.
Digitata su Google la richiesta «disoccupazione femminile e asili nido dati 2025» la prima risposta che appare è curata dall’IA e recita: «In Italia, nel 2025, la disoccupazione femminile e la disponibilità di asili nido sono temi strettamente correlati. Il tasso di disoccupazione femminile è in calo, attestandosi all’8,2% a gennaio 2025, ma la disparità di genere nell’occupazione rimane significativa, con un divario di 17,3 punti percentuali rispetto agli uomini. La disponibilità di asili nido, insufficiente in molte aree del paese, influisce sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro, con molte donne che ricorrono al part-time o abbandonano il lavoro dopo la maternità». Dopo un elenco di conseguenze, conclude con considerazioni tanto ovvie quanto ancora lontane dall’essere attuate, perlomeno in Italia, specialmente nelle regioni del Sud: «In sintesi, per affrontare efficacemente la disoccupazione femminile in Italia nel 2025, è necessario agire su più fronti, migliorando l’offerta di asili nido e promuovendo politiche di sostegno alla genitorialità che permettano alle donne di conciliare lavoro e famiglia, riducendo così le disparità di genere nel mercato del lavoro». San Leucio è riconosciuto come il primo luogo al mondo in cui la parità di genere fu sancita per legge.
È dunque chiaro, se non lo fosse già, che quello di modernità è un concetto strano: non si è più moderni perché più avanti nel tempo. Molte filosofe e filosofi di modernità hanno dibattuto e in tanti oggi riconoscono un qualche fondamento di verità ad alcuni di essi, Weber ad esempio. Ma è invece al pensiero di Leopardi che qui mi riferisco, attualizzando alcuni degli splendidi e intramontabili versi della sua lirica La Ginestra o il fiore del deserto:
Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco, […] e volti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il chiami.
Il nostro secolo, superbo e sciocco, dovrebbe guardare qui. Il qui non è più solo il danno che la natura può arrecare, con la spontanea eruzione di un vulcano; il qui è il danno che l’umanità, superba e sciocca, ha procurato alla natura, snaturandone la condizione; il qui sono i luoghi innumerevoli dove si consumano le stragi che individui superbi e sciocchi chiamano guerre (le guerre di un tempo, almeno, si combattevano tra eserciti, al fronte. Anzi, beate le città di Roma e Alba Longa che dovendo scendere in guerra, come narra Tito Livio, avendo ognuna dalla sua tre gemelli di pari valore, decisero di risparmiare la morte di tanti soldati e di fare combattere solamente i sei, gli Orazi e i Curiazi, che oggi possiamo ammirare ritratti da Jacques-Louis David).
Considera tutto questo, secolo superbo e sciocco, con l’essere umano che d’eternità s’arroga il vanto. Invece no, non hai ancora capito che i mortali devono stringersi in social catena e vai nella direzione opposta, verso le superbe fole, verso la sede dell’error, e tutto ciò è regresso, mentre tu lo definisci progresso, poiché servo […] vuoi di novo il pensiero.
Siamo insomma, nonostante siano trascorsi duecento e più anni, in certi punti più vecchi/e e più culturalmente arretrati/e della società instaurata a San Leucio, dove perlomeno la garanzia della parità di genere non ha mai generato il delitto di una donna da parte di un uomo. Però, e anche questo dovrebbe essere fonte di riflessione, seppure il Codice mirasse alla felicità degli abitanti del luogo, tanto da terminare con l’espressione: «Questa è la legge, ch’Io vi do per la buona condotta di vostra vita. Osservatela, e sarete felici», tale scopo non fu raggiunto proprio a causa di una guerra, quella causata da Napoleone con la sua discesa in Italia. L’esperimento leuciano non fu mai riattivato in seguito, né dalla Repubblica partenopea, né dal periodo della Restaurazione e nemmeno dopo il 1861, con il Regno d’Italia.
Per approfondire. Un bel saggio di Paolo Franzese, Le leggi per il buon governo della popolazione di San Leucio fra utopia, storia e mito, è utile per entrare nel merito della questione leuciana, cosa che qui non era mia capacità né mia intenzione di fare.
Per chi volesse dilettarsi con la lettura, qui il testo del Codice.
In copertina: il palazzo del Belvedere.
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Articolo di Norma Stramucci

Laureata in Lettere con Perfezionamento in Scienze e Storia della Letteratura e Dottorato in Filologia, è stata docente di Letteratura e Storia fino al settembre 2019, occupandosi anche di formazione docenti. Ha al suo attivo, oltre a un sito personale, numerosi articoli, recensioni e pubblicazioni, tra cui Lettera da una professoressa, Se mi lasci ti uccido, Soli 3 + (quell’altro).
