L’inizio in medias res del romanzo biografico dal titolo E non scappare mai, edito da Rizzoli ― «Miriam aveva attraversato a passo svelto le strade che da piazza Indipendenza portavano a via Zara» ―, dedicato alla vita della giornalista e politica italiana Miriam Mafai, può essere considerato, di per sé, una vera e propria dichiarazione d’intenti da parte dell’autrice Annalisa Cuzzocrea, editorialista e inviata del quotidiano la Repubblica.
È manifesta, infatti, pagina dopo pagina, la sua volontà di restituire a lettori e lettrici l’immagine di una donna, quale è stata appunto Mafai, dalla tempra «forte, laica, moderna», capace di attraversare il Novecento «correndo, senza mai farsi travolgere dalla nostalgia», proprio come in quel 1947, mentre percorre le strade che la portano in via Zara, a Roma, dove suo marito Ugo Lazzaro Nacson si è suicidato. Iniziare a narrare i fatti, inoltre, richiamando un evento volutamente mantenuto “appartato” dal quotidiano da parte di Mafai, consente di raccontare di lei come di una donna che, nel corso della vita, è andata incontro agli eventi «con la sbadata determinazione di chi non vuole farsi segnare da un dolore» e che ha concepito l’esistenza come un ininterrotto riparare alle scelte fatte. Il presentarla nelle prime pagine come “superstite”, sopravvissuta al biglietto che il primo marito le ha lasciato sulla scrivania prima di suicidarsi ― «Così Miriam impara» ― , non proietta Miriam nella dimensione dell’ideale ma contribuisce a irrobustire la sua straordinaria capacità di aderenza al reale, di donna che non ha paura delle cicatrici e che è abituata a pagare di persona «senza mai tirare sul prezzo», come scrive in un biglietto di risposta a Gian Carlo Pajetta, il granitico dirigente di partito che perde davanti a lei qualsiasi durezza, il quale le rimprovera una certa ritrosia nell’esibire i suoi sentimenti in pubblico e minaccia di allontanarsi da lei per tale ragione. Accanto a questa dimensione pubblica della giornalista tra le fondatrici di Repubblica, convinta che non sia necessario mettere l’amplificatore ai propri sentimenti, emerge, tuttavia, l’intimo temperamento di una donna nata «sotto il segno felice del disordine», come Mafai scrive di sé stessa all’inizio dell’autobiografia Una vita, quasi due. Si tratta della sana inquietudine di chi non si rassegna a una vita di obbedienza, cosa che ha capito fin da subito Mario Mafai a proposito della figlia. E Miriam, secondo la radicata convinzione popolare per cui le figlie femmine “patrizzano” questo fermento, questo continuo desiderio di essere altrove, che è il suo punto di forza, lo ha ereditato proprio dal padre al quale riconosce, per la sua scelta di clandestinità e antifascismo, il maggiore contributo a ciò che lei è diventata e a come ha vissuto.
Miriam «desiderava la bufera, come una poesia di Anna Achmatova», scrive Annalisa Cuzzocrea, rifacendosi, fra i tanti richiami letterari presenti nel testo (da Cvetaeva a Lee Masters), ai versi della poeta russa, citata in esergo all’inizio del testo. Attraverso una scrittura che indugia sul dettaglio biografico per poi spaziare, all’improvviso, su una materia storico-sociale più ampia, ricorrendo a una sovrapposizione di piani temporali diversi e a frequenti ellissi, l’autrice affronta temi importanti come quello della memoria e di una stagione politica durante la quale, a prescindere dalle appartenenze di partito, la cifra che ne contraddistingue per la maggior parte gli esponenti, dentro e fuori il Parlamento, sono la cultura e l’impegno. Ed è in queste pieghe della narrazione che Cuzzocrea riesce a inserirsi come narratrice in prima persona e a creare idealmente una sorta di cammino-percorso narrativo parallelo a quello della vita di Mafai, fatto di tante viuzze che si incrociano a ridosso di temi sociali quali l’aborto e la memoria per l’appunto, che le consente di parlare del nonno Giuseppe e della sua necessità, subentrata col tempo, di alimentare la memoria attraverso il racconto «di ciò che era stato».
Coloro che vivono l’immediato dopoguerra, a differenza di Giuseppe, non hanno alcuna voglia di raccontare, non hanno l’urgenza di coltivare la memoria e non si pongono neppure molte domande; hanno solo il desiderio di ricominciare, di cercare un ordine che non cancelli soltanto il disordine generato dal conflitto mondiale ma anche il ventennio fascista, metafora del “dolore storico” di tutte/i coloro che sono nate/i negli anni Venti. E il desiderio di ricominciare si concretizza nella determinazione e nello studio che contraddistinguono la quotidianità di molte e molti della generazione di Mafai, la quale si lancia a capofitto nell’approfondimento degli argomenti più vari, non solo per essere una brava dirigente comunista, ma anche una credibile giornalista e scrittrice.
I capitoli, dagli incipit molto “novecenteschi” (frasi brevi, icastiche, per lo più costituite da verbi) e dai finali di paragrafo in cui, spesso, la narrazione in prosa si fa poesia attraverso la riduzione di materiale linguistico delle ultime proposizioni che vanno da sole a occupare un intero rigo (es: «Su un terrazzo assolato di Roma/ Guardando nella stessa direzione»), raccontano, parlando della vita della protagonista, quella delle donne in generale e delle loro relazioni sociali: figlie, madri, mogli, sorelle, suocere, compagne di partito, femministe militanti. L’autrice intercetta questa pista compositiva ricorrendo all’inserzione di pagine di diario, appunti su taccuini, poesie, testi autografi scritti da e per Mafai da una serie di interlocutrici, prime fra tutte la figlia, che moltiplicano il numero di narratori nel romanzo trasformandolo in una polifonia di voci femminili. La grande eredità morale lasciatale da Mario Mafai è sintetizzata efficacemente attraverso un luogo narrativo metaforico che rende esclusivo il rapporto padre –figlia e che Cuzzocrea mutua dall’autobiografia di Mafai, trasformando l’evento di un solo giorno a pratica abitudinaria: «Un giorno mi venne proposto di accompagnare mio padre che andava a dipingere al Gianicolo» di Una vita, quasi due diventa «le mattine in cui accompagnava il padre al Gianicolo» in E non scappare mai.
Mafai considera la maternità un aspetto imprescindibile della vita delle donne, che le distingue dagli uomini esenti dall’obbligo di dedicarsi a figlie e figli; nell’educazione di questi, tuttavia, lei è stata una madre «faticosa»: li ha provocati da un punto di vista intellettuale, lasciando che essi si facessero da soli; ha fatto in modo di essere presente pur non intervenendo mai e allontanandosi fisicamente da loro ogni volta che ha potuto; sebbene legatissima alla figlia Sara, che «le mancava sempre», ha imposto, nel loro rapporto, la sua convinzione per cui anche tra una madre e una figlia ci sono cose che non è necessario dirsi e che una figlia non deve conoscere per evitare di riproporle. Essere “madre” e “moglie”, come scrive in una lettera alla sorella Simona, con la quale stringe un «patto di mutua assistenza», rappresenta la piena conquista di sé stesse come donne e come comuniste, in barba al partito al quale appartiene, rispetto al quale non fa mai «alcuna obiezione di coscienza […], ma litiga di continuo» e contro il quale si inventa un’inchiesta sul maschio di sinistra, «marito-padrone e, per di più, un amante mediocre».
A uno scambio di battute con la nuora Elena viene affidato uno dei messaggi più intensi del romanzo. Quando la giovane donna racconta alla suocera che a 18 anni ha avuto un aborto, Miriam commenta con una battuta: «Elenù, abbiamo abortito tutte. […] le donne hanno sempre abortito, perché non avevano scelta», che va molto oltre il significato letterale delle parole e che riassume tutte le rinunce e le privazioni cui sono state sottoposte le donne nel tempo. La mortificazione sociale di queste, il mancato riconoscimento delle loro potenzialità e del loro valore, mostrato soprattutto negli anni dello sforzo bellico e poi nuovamente messo da parte, sono resi complessivamente attraverso un altro momento molto efficace della narrazione: nel 1948 Miriam si reca in uno dei tanti paesini della Basilicata per tenere un comizio in vista delle imminenti elezioni politiche e nota che in piazza non vi è nessuna donna ad ascoltarla. Tuttavia, un compagno le dice: «Tu fai come se fossero lì […], ti ascoltano dietro agli infissi chiusi». Alcuni aneddoti raccontati via via nel romanzo restituiscono quel legame di “sorellanza” che Mafai stabilisce, nel corso della vita, con le donne dentro e fuori il partito e che rimandano a un femminismo militante lontano da ogni dogmatismo e dalle specificazioni lessicali, fatto di azioni concrete volte solo a evitare che “gli uomini arrivino prima”: quando la giovane Patrizia Carrano, per esempio, viene additata dalle colleghe perché si è presentata alla redazione di Noi donne con un paio di pantaloni, Miriam, che è la direttrice del giornale, non esita a indossarne un paio anche lei; quando si ritrova in Egitto, nel 1970, con Luciana Castellina, radiata l’anno prima dal Pci e isolata in quanto dissidente, condivide con lei la stanza d’albergo, manifestando «libertà di pensiero da tutte le Chiese»; decide di prendersi cura della piccola figlia di Giovanna Melandri purché questa accetti l’incarico come Ministra della cultura nel governo D’Alema.
Come chiunque sia abituato a coltivare il dubbio come pratica quotidiana, Miriam Mafai, «animale troppo politico» per rassicurare interlocutori e interlocutrici, chiosa quasi Cuzzocrea, in prima fila per l’approvazione delle leggi sul divorzio e l’aborto, resta una persona che ha goduto del rispetto anche di quelle donne che «non le davano retta».

Annalisa Cuzzocrea
E non scappare mai
Rizzoli, 2025
pp. 272
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Articolo di Sara Carbone

Laureata in Storia, è docente di Discipline letterarie. Traduttrice e mediatrice linguistica, è Consigliera dell’Associazione di Storia Contemporanea di Senigallia e componente del Centro studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo di Napoli. Collabora a diverse riviste, quali Il materiale contemporaneo; è autrice di saggi sul fenomeno migratorio.
