Hijra

Derivato dalla radice arabo-semitica hjr, con cui si indica colui che ha abbandonato la propria comunità, il termine hijra, con il significato traslato di chi non è né maschio né femmina, viene utilizzato per definire la comunità transgender dell’Asia meridionale. 
Diffusa in particolar modo in India, Pakistan e Bangladesh, la comunità è composta da uomini che si identificano nel genere femminile, da persone che non si riconoscono in nessuno dei due generi e da individui intersessuati o ermafroditi, motivo per il quale, in relazione alle hijra, si parla spesso di un terzo genere o sesso neutro

Note fin dai tempi del Kama Sutra, dove si parla per l’appunto di uomini dalle sembianze femminili che si uniscono sessualmente con altri uomini, le hijra (l’utilizzo del femminile verrà giustificato di seguito) vivono all’interno di comunità socio-spirituali chiamate gharana o dera. In esse, le discepole (chelas) vengono guidate dalla nayak (guida) e dalla guruma, la madre spirituale. L’ingresso in comunità avviene in seguito a un rito di iniziazione, denominato nirvaan, che prevede la castrazione e la rimozione del pene, dei testicoli e dello scroto. L’operazione è propedeutica al riconoscimento dell’autenticità dell’essere hijra e viene accompagnata dall’assunzione di un nuovo nome femminile e dal voto di castità. 
Molto spesso, all’interno di ciascuna gharana, viene utilizzato un codice linguistico comprensibile esclusivamente dai membri che ne fanno parte: il farsi, lingua composta per lo più da espressioni oscene e da vocaboli afferenti alle pratiche sessuali.  
Sebbene le chelas si rivolgano tra di loro utilizzando sia il termine grammaticale maschile (hijra) che quello femminile (hijrin), quest’ultimo viene tradizionalmente impiegato per distinguere chi è completamente radicato nella comunità da coloro che, invece, vi hanno appena fatto il loro ingresso. L’utilizzo del genere femminile come marcatore di uno stato fisico-identitario definito e, dunque, come sinonimo di un riconoscimento maggiore dell’autenticità di essere hijra, dettato in primo luogo dall’anzianità, principio fondante dell’organizzazione comunitaria interna, è avvalorato anche dal fatto che i membri della comunità ritengono un segno di rispetto quando gli/le esterne si rivolgono a loro con appellativi al femminile.  
Talvolta, in luogo di hijra, i chelas preferiscono definirsi utilizzando il termine kothi, con cui si indicano coloro che pur non essendosi sottoposti alla castrazione si identificano nel genere femminile, o di kinnara, con cui si rimanda a degli esseri semidivini.

Dal punto di vista religioso-spirituale, nonostante la maggior parte di loro sia di fede indu, vengono contemplate anche forme di religiosità sincretiche che prevedono una commistione tra la religione induista, con la devozione delle sue divinità, e quella islamica, con il rispetto del digiuno durante il mese di Ramadan e altre pratiche proprie di questo credo. La fusione con usi e costumi sociali e religiosi islamici si deve, in particolar modo, all’importante riconoscimento di cui le hijra godettero durante la dominazione Mughal. Tra il 1526 e il 1707, infatti, riuscirono a entrare a far parte della corte imperiale come intrattenitrici o come servitrici delle donne dell’Harem.  
Particolarmente sacro è poi il santuario della dea Bahuchara Mata, la fanciulla che, secondo la leggenda, si tagliò i seni e li offrì ai banditi che l’avevano assalita in una foresta per far sì che i predoni non ne violassero la verginità. 

Dea Bahuchara Mata

All’interno della società più ampia, sebbene la maggior parte di loro si sostenga principalmente attraverso la prostituzione e l’accattonaggio, tutte le hijra occupano uno spazio riconosciuto e istituzionalizzato. Come riportato dal Professore Igor Spanò in “Vivere come donne in India: l’insolito genere delle comunità hijra”, in Donne violate. Forme della violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia, a cura di Leila Karami e Romina Rossi (Firenze: Società Editrice Fiorentina, 2021), durante le ritualità indu, come in occasione dei matrimoni, le hijra allietano la cerimonia con balli e canti, rivolgendo insulti e provocazioni agli ospiti e allo sposo per conferire fertilità alla coppia. Inoltre, in occasione della nascita di un maschio, spetta a loro il compito di «“far ballare” i bambini, appoggiati sui fianchi, ma anche di ispezionare i genitali dei neonati». Se quest’ultimi verranno ritenuti impotenti, malformati o intersessuati, allora se ne rivendicherà l’appartenenza alla comunità. 

Nel 2014 la Corte Suprema indiana ha legittimato e riconosciuto l’esistenza di un terzo genere; nel 2019, con la Transgender Persons Act, il Parlamento nazionale ha proibito qualsiasi forma di discriminazione nei confronti delle persone transgender, includendo fra di esse anche gli individui intersessuati. Non è un caso. Nonostante si sia riconosciuto il loro diritto all’identità di genere auto-percepita, in realtà, tale riconoscimento, e la conseguente modifica dei documenti ufficiali, è rimesso all’operazione per la riassegnazione chirurgica del sesso. Ne consegue che solo i transessuali, ovvero coloro che a differenza dei transgender desiderano modificare permanentemente il proprio corpo, potranno beneficiare dei diritti sanciti per legge. Ciò presupposto, di fatto, la norma impone coercitivamente il ricorso alla chirurgia.  
Le leggi disposte nel corso degli anni, inoltre, non sono riuscite a smantellare quella cultura di stigmatizzazione che continua a gravare sulle persone hijra. Ne è una diretta testimonianza il trattamento diseguale che ancora viene riservato a questi individui e i numerosi episodi di violenza nei loro confronti; episodi questi che, durante la pandemia di Coronavirus, sono aumentati a dismisura: le hijra, infatti, sono state accusate di diffondere il virus e, come accade spesso, si sono viste negare le cure e i trattamenti sanitari.  
Indubbiamente, la condizione attuale delle hijra, e di tutte le persone che non rientrano nelle canoniche classificazioni di genere, sesso e orientamento sessuale, è un riverbero del colonialismo inglese. 
Durante il periodo coloniale, coloro che non aderivano alla norma eterosessuale vennero accusati di devianza sessuale e per questo criminalizzati. Il paragrafo 377 del Codice penale dell’India britannica (1860) prevedeva l’incarcerazione da un minimo di dieci anni fino al carcere a vita per tutti i rapporti carnali tra uomini. Undici anni più tardi, nel 1871, con l’emanazione del Criminal Tribes Act, il governo coloniale avviava la sua opera di cancellazione e persecuzione delle comunità locali. Quelle hijra, definite come “presenza oscena”, per il loro stile di vita dedito ad attività come la danza, tradizionalmente associata alla prostituzione, e per le loro abitudini sessuali, furono ritenute una minaccia all’ordine pubblico e politico, giudicate come psicologicamente anormali e sottoposte a un processo di eliminazione culturale.  

Molti dei pregiudizi di origine coloniale permangono nella società attuale. Ancora oggi le hijra subiscono discriminazioni, alienazione sociale e stigmatizzazione. E il colonizzato, inebriato dalla sua nuova indipendenza, non riesce a rendersi conto che il colonizzatore ha disoccupato i suoi territori ma non la sua testa. 

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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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