A Milano, dal 14 maggio al 12 ottobre 2025, il Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano) presenta presso Villa Necchi Campiglio, Ghitta Carell. Ritratti del Novecento, una mostra dedicata a Ghitta Carell, fotografa ritrattista, ormai quasi dimenticata, ma che, nel periodo tra le due guerre, fu tra le più apprezzate e richieste.
La villa, una delle dimore più rappresentative della Milano degli anni Trenta, raffinata sintesi tra tradizione e modernità, è stata donata al Fai da Gigina Necchi Campiglio e Nedda Necchi nel 2001.

Nata il 20 settembre del 1899 nella contea ungherese di Szatmàr da una famiglia ebrea, figlia di un calzolaio, Ghitta Carell — nome d’arte per Margaret Klein, dove Ghitta è diminutivo di Margit — dopo un viaggio a Firenze nel 1924, decise di fermarsi in Italia e di intraprendere la professione di fotografa, cambiando il cognome. Si dice che il suo avvicinamento a questo mestiere sia stato ispirato da personalità del mondo della fotografia che circolavano allora. Primo tra tutti Jòzsef Pécsi, un ebreo che, trasferitosi a Pest, aprì uno studio per accogliere giovani allieve che vedevano nella fotografia un mezzo per una possibile emancipazione economica. Nonostante non ci siano dati sicuri che confermino sia stato il suo maestro, è possibile riscontrare una serie di analogie tra la tecnica di Carell e quella di Pécsi, soprattutto nell’uso comune del ritocco.

Ad ogni modo, da vera donna d’affari, Ghitta riuscì a costruirsi in poco tempo una fitta rete di contatti con l’aristocrazia del Novecento, allargando, in questo modo, la platea dei suoi clienti. Tra le persone ritratte vi erano figure di spicco del fascismo, dell’alta società e della sfera intellettuale; tra queste spiccavano Margherita Sarfatti, Benito Mussolini assieme alla sua primogenita Edda Ciano, Vittorio Emanuele III, Nevile Chamberlain, la Regina Elisabetta d’Inghilterra con sua figlia Margaret, la famiglia Mondadori, quella Pirelli e persino Walt Disney.
Purtroppo con l’avvento delle leggi razziali del 1938, sebbene non fosse stata costretta ad abbandonare l’Italia, subì un gravoso arresto nella sua carriera poiché il suo ruolo e il suo nome vennero censurati e omessi. Nel dopoguerra, la sua carriera riprese, ma dovette ricostruirla da capo; ottenuta la cittadinanza italiana nel ’59, l’anno successivo, riuscì a tornare sulla scena con un’importante commissione: un servizio a Papa Giovanni XXIII. Tuttavia, nonostante questo ritorno, il ricordo del suo legame col fascismo fu un ostacolo difficile da superare e qualche anno dopo decise di trasferirsi a Haifa, da sua sorella e sua nipote. Lì morì il 18 gennaio 1972.
L’esposizione, curata da Roberto Dulio, è composta da cento opere tra fotografie vintage, lettere, cartoline, libri, documenti d’archivio. Oltre a ciò è possibile ammirare anche la strumentazione dell’artista — per la prima volta esposta in una mostra — articolata in una grande macchina con cavalletto della ditta Luigi Piseroni di Milano. Nello specifico, si tratta di un apparecchio con lastre di grande formato, che talvolta Ghitta sostituiva con più agili macchine portatili.

Per quanto riguarda l’organizzazione, le immagini sono collocate in maniera poco convenzionale per ricreare il contesto di una casa che è stata al tempo vissuta. Più precisamente, il percorso espositivo comincia nella hall del primo piano della villa, dove è collocata sul tavolo della casa una parte delle fotografie-ritratti, e altre fotografie sono sparse negli ambienti della casa, sugli arredi, con le loro cornici originali, tale espediente mira ad avvicinare il pubblico all’artista e all’ambientazione nel complesso, come se la mostra fosse organizzata da chi abita la casa. Villa Necchi, del resto, non è un museo, ma una casa, e mostre come questa sono pensate dal Fai per raccontare uno spaccato di vita, anche privata, di società e di cultura del Novecento. In questo modo le opere dell’artista dialogano con l’ambiente domestico che in quegli anni era abitato dalla famiglia Necchi.


Procedendo, l’esposizione continua nel guardaroba — dedicato alla tecnica fotografica di Carell — e nel sottotetto, dove è presente un tavolo che contiene tutta la documentazione necessaria per testimoniare i rapporti che aveva con la classe aristocratica e intellettuale dell’epoca.
Il tutto è accompagnato da due volumi, entrambi curati da Roberto Dulio: Un ritratto mondano. Fotografie di Ghitta Carell e Ghitta Carell’s portrait. We all think of ourselves as a single person but it’s not true, i quali hanno liberato lo sguardo critico sull’artista da letture superficiali e ideologiche. Entrambi mirano a sottolineare la capacità della ritrattista di modellare volta per volta i suoi soggetti con diverse pose, atteggiamenti e molteplici sfumature.
All’interno della collezione di ritratti, oltre a quelli già citati, ci sono i ritratti dell’architetto Piero Portaluppi, autore del progetto della villa, delle sorelle Nedda e Gigina Necchi, ex proprietarie della casa, della fondatrice del Fai, Giulia Maria Crespi.
Sono ritratti realizzati con estremo scrupolo, e grande cura dei dettagli in una fusione tra formalismo solenne e immaginario hollywoodiano. La cifra di Ghitta consisteva proprio nella sua capacità di unire avanguardia e tradizione, in una dialettica che segnò per anni il dibattito artistico del periodo fascista. Usando le parole del curatore possiamo definire il suo stile come una combinazione tra «memoria del passato ed eloquenza espressiva del presente». I suoi ritratti, dunque, celebrano le personalità del passato innalzandone, anche, lo spirito e, allo stesso tempo, costituendo «una galleria affascinante che attraverso volti, sguardi, pose, abiti e accessori, firme e dediche, ripercorre la storia e la cultura del Novecento».

Altri tratti distintivi propri di Ghitta Carell sono i tagli, le inquadrature, i particolari e l’uso delle luci; per non parlare del ritocco, realizzato da lei stessa su un apposito leggio e con una serie di strumenti: matite, colori, pennelli, raschietti che avvicinano il suo atelier a quello di un pittore.
Oltre alle sue evidenti doti artistiche, Ghitta Carell vantava, inoltre, capacità imprenditoriali, tanto da poter essere vista come un modello femminile, una business women in grado di fare affari, costruendosi le giuste reti relazionali in un mondo in cui le differenze di genere erano purtroppo, e continuano a essere, estremamente marcate.
Ma perché, come luogo espositivo è stata scelta un’abitazione piuttosto che un museo? Oltre a valorizzare le potenzialità dell’artista, ciò che la rassegna vuole fare — come già scritto — è la riproduzione dello spaccato di vita, della società e della cultura novecentesca. È così che quotidianità e passato si intersecano perfettamente, in un contesto originale e mai banale che valorizza la sintesi espressiva e i rapporti interpersonali.

Tengo a sottolineare, infine, per chi fosse interessato, che il Fai ha lanciato una Call for portraits, una ricerca attraverso social e canali digitali, per rintracciare i lavori di Ghitta Carell appartenenti alle odierne famiglie milanesi. Per segnalare l’opera basta scrivere — entro e non oltre il 3 ottobre — all’indirizzo mail mostraghittacarell@fondoambiente.it, in modo tale da sottoporre le fotografie all’attenzione di chi cura la mostra.
***
Articolo di Ludovica Pinna

Classe 1994. Laureata in Lettere Moderne e in Informazione, editoria, giornalismo presso L’Università Roma Tre. Nutre e coltiva un forte interesse verso varie tematiche sociali, soprattutto quelle relative agli studi di genere. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura e l’arte in ogni sua forma. Ama anche viaggiare, in quanto fonte di crescita e apertura mentale.
