«Una donna nuda è una donna armata». Victor Hugo, L’Homme qui rit – L’Uomo che ride, Parigi-Milano, Sonzogno, 1967, p.237, libro II, cap. VII.
Le persone che mi sanno in bilico tra due mondi apparentemente inconciliabili — quello di modella d’arte che fa anche pose di nudo e quello di scrittrice che ha cari i temi sociali — mi hanno chiesto spesso di scrivere qualcosa su come concilio le due vite. Questo testo è per loro e per chi del primo mestiere non ha mai sentito parlare. Non c’è niente di più visibile di un corpo nudo in una stanza. Eppure, tra i lavori considerati “nobili”, non c’è ruolo più invisibile di quello della modella d’arte. Da dieci anni presto il mio corpo alla pittura, alla scultura, al disegno, al fumetto e alla fotografia come modella freelance. Questo testo nasce da tutte le sfumature di tempo sospeso in cui il corpo si radica mentre si sublima. Non si muove, ma pensa. E quel pensiero corre via a fare altro, mentre — nel silenzio denso — si disegna, si scolpisce, si scatta. C’è una domanda che mi accompagna ogni volta che salgo su un podio, mi sdraio su dei cuscini o poso per un set: posso essere femminista e dare in pasto il mio corpo allo sguardo altrui in questo modo?

Di chi è lo sguardo che mi guarda? È uno sguardo che mi desidera? E se sì, sono io che istigo quel desiderio? Sono un’ipocrita se professo l’emancipazione femminile e contemporaneamente interpreto Circe in una posa con gambe spalancate e maiali sotto a una sedia? O forse sto solo esercitando la mia libertà e sono (alcuni) altri a proiettare questi pensieri sul mio corpo impotente, fermo e muto, come su un muro bianco? Questo non è un diario, anche se è personale. Non è un saggio, anche se è politico. È una riflessione incarnata. Un fare pace tra due realtà — corpo e parola — che, soprattutto per le donne, sembrano sempre manifestarsi una alla volta. Per raccontare un mestiere poco conosciuto. Per ripensare lo sguardo d’arte a partire da chi, nel processo creativo, è sempre al centro, ma mai al centro del discorso.

Modelle/i d’arte sono anche detti modelle/i viventi, in contrapposizione alle cosiddette “nature morte” (i classici cesti di frutta che vedevamo raffigurati sui sussidiari di scuola). Artiste/i figurative/i studiano anatomia raffigurando prima modellini di scheletri, poi con muscoli, nervi e tendini, poi statue dal vero per misurarsi col mutare della luce naturale, e arrivano — infine — a lavorare con noi. Ciò che rende interessanti i corpi di modelle/i viventi, per artiste/i è proprio questo: respirano e provano sensazioni fisiche che inevitabilmente faranno loro produrre delle micro variazioni delle pose, sollecitando chi disegna dal vero (ossia di persona, non tramite fotografie tecniche di “riferimento”, dette appunto reference) a dover affinare la propria capacità di inseguire quella variazione, con calcoli di proporzioni, volumi, geometrie, contrasti, negative spaces (ossia gli spazi vuoti, come per esempio quello che si ottiene tra il costato e la linea interna del braccio posando con una mano su un fianco). E tutto questo deve avvenire in un tempo sopportabile per la persona che posa, generalmente compreso tra i trenta secondi con i quali si parte per scaldarsi in una sketch class (sessioni di disegno dal vero per esercizio, dove di solito non si producono opere “finite”), fino ai 25 minuti alla volta delle accademie, pubbliche e private. Per chi non conosce questo mondo, sarà sempre facile romanticizzare l’idea della “Musa”, ridurre tutto a un fatto estetico, pensare che basti spogliarsi per farlo o che posare sia facile.
La verità è che questo mestiere è fatto prima di tutto da tre aspetti principali: ingegno, cultura e resistenza. 1. Farsi imprenditrici/tori di sé stesse/i, trovare i lavori, crearsi un’identità artistica chiara, promuovere la propria immagine, capire come relazionarsi con le esigenze dei/delle singoli/e artiste/i essendo disponibili professionalmente senza dare l’idea di esserlo in modo “personale”. 2. Frequentare mostre e musei, studiare, allenarsi gli occhi all’estetica delle varie epoche e dei vari stili, suddividendo queste competenze secondo gli ambiti (istituzionale o sperimentale, classe o artista singolo affermato, pittura, disegno, scultura, e poi i vari generi fotografici, con destinazioni diverse a seconda di uso privato, editoriale, commerciale), ascoltare le lezioni per le quali si posa, leggere di arte. 3. Allenare il corpo, non solo con un’alimentazione adeguata e la ginnastica, ma proprio a resistere all’immobilità senza abbandonarla. Crampi, distorsioni, tendiniti, ginocchia che cedono, piedi che si addormentano, tu che hai cali di sonno per la stanchezza fisica, o il bacino che si disequilibra da un lato per una “posa lunga” (cioè da rifare identica per settimane, a blocchi di due o tre ore alla volta). E poi, magari, passi da uno studio all’altro e di ore ne fai anche dieci o dodici in una stessa giornata, e il corpo urla, se càpita dopo qualche giorno che ne avevi fatte zero. Sopportare umidità, freddo, caldo, prurito, fastidio di una mosca che verrà sicuramente da te, trattenere starnuti e sbadigli, prestare attenzione particolare all’igiene, rincorrere i tempi della depilazione, mettere l’assorbente interno e andare avanti anche col ciclo. Darai tutto, ma proprio tutto il tuo corpo, come un Cristo alla mensa. E — nonostante ciò — starai svolgendo un mestiere invisibile. Anche se sarai brava/o e riuscirai a emergere per te stessa/o dall’invisibilità, ci dovrai lottare tutti i giorni e non farai testo per la categoria.
Ma poi, in una corsa tale per emergere, spiccare e sopravvivere, esiste vera solidarietà con altre e altri? Io credo di no. Non a lungo termine. Posare è un lavoro solitario: una fatica concreta che si misura in ore, attese che si compiano le rotazioni (sono state chiamate/i tutte/i? Si riparte da inizio lista), contratti aleatori o del tutto inesistenti, compensi spesso di modesta entità rispetto all’investimento pratico ed energetico di chi posa. Percezione alterata del contatto fisico. Bisogno spasmodico di una sfera esclusiva di intimità fisica e sentimentale. Qualcuno che a fine giornata, per te si faccia “casa”: persone con le quali non devi stare sempre al tuo meglio. È come se esistessero un “corpo pubblico” e un “corpo privato” nettamente divisi, pur convivendo nello stesso. Penso alle ore di viaggio da una parte all’altra della città (o spesso anche da una città all’altra), quasi sempre a proprie spese. Ai compensi variabili. Alle ritenute d’acconto. A chi si dimentica di non aver messo il timer e una posa dura dieci minuti oltre la tua sopportazione di dolore e fatica. Penso agli alloggi di fortuna dei lavori fuori porta, agli spazi angusti e semi-improvvisati per cambiarsi, alle case-studio private nelle quali ci rechiamo da sole per restare nude mandando la posizione alle amiche su whatsapp se è la prima volta che incontriamo quell’artista. Penso al fatto che molti non ci nominano né ci taggano nei lavori finiti. Penso a quante volte siamo in posa e ci fanno foto coi telefoni senza permesso. Penso a quando lavoriamo in streaming e dobbiamo calcolare i fusi orari, preparare i set, fare le prove di luci, pose e inquadrature, verificare connessione e batterie cariche per ringlight e pc, vendere un’idea tematica sui social, creare i materiali promozionali con le app di grafica, concordare percentuali e mance con eventuale host organizzatore, assicurarci se sia possibile o meno fare degli screenshot dello schermo e/o se vogliamo farli noi per venderli come reference, augurarci sempre che nelle migliaia di persone serie e professionali non si celi qualcuno pronto a diffondere le immagini sensibili in rete senza consenso. Le tutele legali, infatti, sono inesistenti o quasi: la parola data, contatti comuni, un accordo via chat, a volte un contratto che non menziona ipotesi di infortunio o salvaguardia della propria immagine (per esempio vietando esplicitamente di carpire foto da telefoni privati ed eventualmente postarle sui social). Nessuna assicurazione, nessuna garanzia vera di protezione, nessuna rete. Invisibili, nonostante la nostra centralità.

mentre posavo per un workshop di nudo accademico
alla Florence Academy of Arts di Firenze
Però penso anche alla pace dei corridoi semi deserti delle accademie, al grattìo rassicurante delle matite, al ticchettìo degli orologi che scandiscono i tempi (25 minuti di posa, poi 5 di pausa e così via fino a metà sessione, per una pausa più lunga), a come mi sembra di rinascere in ogni quadro, senza età e senza dolore. Penso all’odore di solvente e oli, ai brividi quando l’insegnante indica un mio omero con la bacchetta senza toccarmi. Penso ai lavandini arcobaleno dove vengono lavati i pennelli e dove vado a riempire la borraccia apposta per sentire quegli odori. E penso a come, un attimo dopo, resto lì scissa su due strati di gommapiuma — la posizione dei piedi e, magari, di un bastone, segnata col nastro carta o col gesso. Il corpo immobile e la mente che vacilla tra presenza di muscoli e magia sentimentale del distacco. “La bolla”, quello spazio dove sono al massimo della mia vulnerabilità, ma a nessuno è consentito toccarmi o avvicinarsi senza comunicarmelo: e io, quindi, “lascio il corpo lì e me ne vado”.

Foto in basso di Marco Appugliese
Sessione di disegno dal vero a tema impressionista per la quale ho posato alla Biblioteca Casa delle Letterature di Roma, per presentare il mio ultimo libro. Dietro di me il patrimonio librario ‘Enzo Siciliano’. Non tutte le pose sono di nudo, alcune prevedono costumi particolari o riproduzioni di abiti storici. Le atmosfere dell’arte sono mutevoli come gli ambienti: edifici storici, grandi aule scolastiche, chiese, siti archeologici, ville e parchi en plein air, studi attrezzati, modeste case private. Alcune stanze sono neutre e silenziose come templi. Altre pulsano di aspettative per chi corre a fare la storia dell’arte di domani. È in queste sfumature che io trovo il mio gancio per farlo ancora. Tutto il fascino e la grazia del mestiere. Quando il corpo resiste immobile, misura il tempo non solo con l’orologio, ma anche con un metronomo interno: il respiro, il battito del cuore, ogni spostamento d’aria, articolazioni funambole che mantengono l’assetto su un filo invisibile. All’improvviso il timer suona, si spezza l’incanto, il pensiero viene richiamato nel corpo. Ci si sgranchisce, si fa stretching, si riparte. Nella stanchezza, si scioglie un nodo importante: permetti che qualcosa di te entri nell’opera? E a quel punto, chi decide cosa succede? L’artista/insegnante? La modella o il modello? Spesso ti trovi a dover entrare in una posa imposta — studiata, codificata — che disconosce il limite tra strumento e persona. Qual è lì il rapporto tra pose e potere? Ma la posa non è neutra: è un linguaggio che a volte diventa un discorso a due, piuttosto che un monologo autoritario. Posso dire “questo no”. Posso proporre. Posso partecipare veramente alla creazione. Ogni opera che ci emoziona ha in sé questa battaglia: imposizione o condivisione? Lì sta la differenza tra un corpo sottomesso e un corpo libero. Nudo o vestito.
In copertina: l’autrice in posa dal vero allo Studio Pisani di Roma.
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Articolo di Roberta Russo Vizzino

Attrice, modella d’arte e scrittrice di origine calabro-campana. Dopo un’esperienza di vita in Lettonia, attualmente abita tra Roma e Firenze. Terminata la formazione attoriale ha intrapreso un percorso universitario in Discipline, arti e scienze dello spettacolo presso l’Università “La Sapienza” di Roma e pubblicato il suo primo libro Io sono onda di mare nel 2023.
