Corsa alla bomba. Il numero di luglio 2025 di Limes. Parte Prima

Il numero 6 di Limes si occupa dei riflessi della guerra dei dodici giorni tra Israele e Iran, che ha rappresentato un cambio di paradigma. La popolazione mondiale si era abituata a considerare la bomba atomica come un’arma di deterrenza, mentre dopo quanto è accaduto sta tornando a considerarla un’arma effettiva, di pieno impiego, come quella usata solo dagli Usa a Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Fino al 1989 l’equilibrio bipolare Usa-Urss era fondato su una certa simmetria tra gli arsenali nucleari delle due superpotenze e questo, paradossalmente, ha garantito un periodo di relativa pace, soprattutto in Europa. Oggi il mondo attraversa una fase caotica in cui l’unica arma capace di rassicurare un Paese è proprio la bomba atomica, non solo dal punto di vista della deterrenza ma anche dalla possibilità di colpire gli avversari. Per questo molti Stati vorrebbero averla. Proprio il timore, da parte di Israele (“Paese nucleare latente”, che l’atomica ce l’ha, pur non dichiarandola), che l’Iran, suo nemico storico e principale sostenitore dell’asse della resistenza di Hamas e Hizbullah, stesse costruendosi la bomba, è stato il pretesto per uccidere gli scienziati impegnati a farlo e bombardare alcuni siti sospetti destinati allo scopo, con il coinvolgimento degli Usa. La reazione iraniana è stata forte ma prudente e ha anche rivelato alcune debolezze nella difesa israeliana, soprattutto nel contrastare i missili. L’altra motivazione dell’attacco all’Iran da parte del governo israeliano è stato il regime change, cioè aiutare con questa guerra il popolo iraniano a liberarsi della teocrazia islamista. Senza fare i conti, però, con lo spirito patriottico di un popolo che discende da una antica civiltà per molto tempo potenza imperiale e senza considerare le divisioni interne al potere e la polarizzazione del campo politico. Sono 9 gli Stati che possiedono la bomba, con l’Iran sulla soglia e otto potenze nucleari latenti.

Arsenali atomici nel mondo

Il numero di luglio della rivista si compone di tre parti: la prima, Bomba o non bomba, contiene il maggior numero di interventi. Questa sezione può sembrare ormai superata dalla cronaca, che ha visto una fine temporanea del conflitto, grazie ai “buoni uffici” di Trump, autocandidatosi al Premio Nobel per la pace per questo risultato. Non importa che questa “pace” sia stata raggiunta dopo che il tycoon ha dato l’ordine di bombardare l’Iran al fianco di Israele.
I saggi contenuti in questa parte sono come sempre molto interessanti, perché affrontano la fine della deterrenza da diversi punti di vista.
Agnese Rossi, in un approfondimento come sempre stimolante, anche perché fa riferimento al paradosso del gatto di Schrödinger, che spero alimenti la curiosità di chi legge come ha stuzzicato la mia, ricostruisce le ragioni per cui Israele ha attaccato l’Iran: la paura di Israele, non si sa quanto fondata, che, dopo il 7 ottobre l’Iran volesse dotarsi della bomba atomica e la volontà di “tagliare la testa del Serpente”, cioè dello Stato che alimenta l’asse della Resistenza del popolo palestinese. Sul coinvolgimento di Trump, da sempre ossessionato dal problema dell’arma nucleare, e sulle sue conseguenze si rinvia al testo dell’articolo.

L’Iran nucleare

Molti articoli di questo numero riflettono le diverse posizioni di iraniani e israeliani in questa guerra, dando come sempre una pluralità di punti di vista, contribuendo a farci in parte abbandonare lo sguardo occidentale deformante. Da segnalare l’analisi di Petroni, L’America contro il folle volo di Netanyahu, che ha il pregio di mettere in evidenza gli opposti interessi del premier israeliano e di Trump nella guerra dei dodici giorni e di raccontare il percorso che ha portato l’amministrazione Usa alla “partecipazione straordinaria” a fianco di Israele. Un’amministrazione divisa tra interventisti e restrainers, (tra cui c’è inaspettatamente anche Vance) e in cui Trump emerge per il suo insospettabile pragmatismo, in contrasto con la posizione dell’ex consigliere alla sicurezza nazionale del tycoon, John Bolton: «Avrei bombardato l’Iran già vent’anni fa». I neocon americani, che oggi appoggiano, sia pur surrettiziamente, Trump sognano la completa distruzione dell’Iran, come emerge da questa mappa di Laura Canali.

Il Medio Oriente dei neocon

La prospettiva saudita e i suoi timori dopo l’operazione israeliana “Risveglio del Leone” verso l’Iran sono presentati da Emily Tasinato in Per Riyad un Iran nucleare è sempre meglio di un Iran fallito: «La decisione iraniana di colpire la base aerea di al-‘Udayd, in Qatar, come risposta calibrata all’Operazione Martello di mezzanotte — scrive l’analista — ha rafforzato la convinzione saudita che normalizzare i rapporti con Teheran nel 2023 sia stata la scelta migliore». Una diversa analisi è quella di Eleonora Ardemagni in Clima da guerra fredda tra Arabia Saudita e Israele. La posizione di Erdogan è analizzata da Daniele Santoro con La Turchia si prepara alla guerra, che si apre così: « La Turchia vincerà la guerra di Israele. Malgrado nell’immediato le dinamiche del conflitto tra lo Stato ebraico e la Repubblica Islamica per interposta America amplifichino le minacce al progetto imperiale di Erdoğan. Dalla prospettiva di Ankara l’Iran è il nemico di lungo periodo, l’avversario eterno, il rivale con il quale da sempre i turchi insediatisi nell’Oriente greco-romano competono per il controllo del Levante e della Mesopotamia. Il cuore del mondo arabo, ruotante intorno all’asse Gerusalemme-Damasco-Baghdad. Israele è invece la variabile impazzita, l’incognita di breve periodo. In termini strategici lo Stato ebraico non può competere con la Turchia — né con l’Iran — per il primato imperiale in Asia sud-occidentale, ma può stravolgere il contesto geopolitico nel quale avviene la competizione tra vere grandi potenze. Israele non è un fattore di lungo periodo, le conseguenze delle sue azioni regionali invece lo sono». Che cosa la Cina ha imparato dalla guerra dei dodici giorni lo spiega molto bene Giorgio Cuscito.

Inizio della guerra iraniana (2024)

L’azzardo israeliano e la tragedia palestinese è il titolo della seconda parte del volume, che si compone di otto saggi, con interviste anche a israeliani e il racconto della popolazione spaventata dalla risposta iraniana in Quattro finestre su Gerusalemme di Francesca Gorgoni. La guerra senza nome di Bibi il Trozkista di Giuseppe De Ruvo ragiona sul nome che Netanyahu non è riuscito a dare alla guerra contro Hamas, che tutti ricorderanno come Guerra di Gaza, nonostante i nomi da lui proposti e puntualmente respinti. Come scrive Caracciolo nell’editoriale «… Israele è in vena apocalittica. Mentre il potere clericale declinain Iran a vantaggio di pasdaran e altre mafie, nello Stato ebraico batte l’ora dei teocrati bellicisti. A Gerusalemme si fa geopolitica con la Bibbia in mano. Tutti i nomi delle operazioni militari sono tratti dal Libro. Quasi nel gabinetto di guerra operasse una cellula di inventivi biblisti…».

La Palestina è uno Stato

Quello che sta succedendo a Gaza è terribile. Ne scrivono Tommaso Fontanesi in La Nakba continua e Antonella Caruso in Divide et impera: il piano di Israele per Gaza e Cisgiordania. Come sempre Caracciolo sintetizza l’orrore che Israele sta perpetrando in Palestina in modo perfetto: «La svolta genocidaria impressa da Israele alla battaglia di Gaza, giunta al ventiduesimo mese, suscita orrore nel mondo. In diversa misura, spesso privata, persino nella diaspora ebraica e fra alcuni israeliani, militari compresi. Dopo che soldati di Tzahal hanno rivelato a Haaretz di aver ricevuto ordine di sparare su gazawi alla disperata ricerca di cibo, le barriere della censura hanno cominciato a cedere. Un cessate-il-fuoco — vero, non solo promesso — parrebbe possibile. Ma resta fermo lo scopo dell’Operazione “Carri di Gedeone”: sgombrare, occupare e gestire ciò che resterà della Striscia, con parziale subappalto a clan locali e futuri benefattori del Golfo. Il massacro di civili palestinesi sta risvegliando nel mondo la bestia antisemita. Quanto alla reputazione di Israele, è compromessa. Netanyahu non se ne impressiona. Il suo percorso è obbligato, a senso unico. Se si fermasse lo attenderebbe forse la galera, non solo per le vecchie accuse di corruzione. La strage finirà quando il premier di Gerusalemme, riportati a casa gli ostaggi superstiti, inventerà un pretesto per dichiarare vittoria. Ma se anche Ḥamās fosse obliterato — ipotesi dell’irrealtà — il sangue di donne e bambini effuso nella Striscia peserà per molto tempo su ogni ebreo, non solo israeliano, anche se perfettamente innocente. A Gaza lo Stato ebraico si è inflitto una sconfitta strategica, affatto indipendente dall’esito militare. Nato per difendere gli ebrei, in patria o in diaspora, li sta mettendo tutti in pericolo. Pare aver sviluppato una malattia autoimmune che ne sfibra il tessuto connettivo. Dolorosa sarà in Israele l’elaborazione del lutto per la “vittoria”, se riuscirà a inventarsela».
(continua)

***

Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

Lascia un commento