Aveva 71 anni Cecilia De Astis, la turista travolta lunedì mattina da una Citroën bianca in via Saponaro, quartiere Gratosoglio, periferia sud di Milano. A due passi da lì, in via Chiesa Rossa, lungo la sponda sinistra del Naviglio Pavese, sorge dal 2002 il «Villaggio delle rose», il più grande campo nomadi milanese, che raccoglie 70 famiglie, per un totale di 260 persone (tra italiani, sinti lombardi, rom harvati, provenienti da Istria e Croazia). In via Selvanesco, a poche centinaia di metri da Chiesa Rossa, sorge un secondo piccolissimo agglomerato di roulottes (una decina in tutto), su un terreno privato di proprietà di un bosniaco.
Domenica scorsa, quattro ragazzini di via Selvanesco, tre maschi e una femmina, avevano visto l’auto, con targa francese, parcheggiata davanti a un b&b e carica di bagagli. Dopo averla svaligiata e aver scovato, in una delle borse rubate, le chiavi di scorta della vettura, i quattro non hanno resistito alla tentazione di fare un giro in città. Così hanno messo in moto. Il più grande (13 anni) si è sistemato al posto guida ed è arrivato al curvone di via Saponaro. La Ds4, sbandando, ha oltrepassato con un sobbalzo il cordolo a destra della carreggiata e ha travolto la turista. Il ragazzino, dopo l’impatto, ha proseguito, abbattendo un palo della segnaletica, ed è ritornato in strada, dove finalmente l’auto si è fermata. I quattro passeggeri sono scesi di corsa e sono fuggiti abbandonando l’auto.
Si tratta di due ragazzini rom di 11 anni (un maschio e una femmina), uno di 12 e l’autista, che arriva a malapena a 13 anni. Sono tutti nati in Italia, da famiglie nomadi di origini bosniache. La polizia locale di Milano li ha individuati grazie alle immagini di videosorveglianza, che li hanno ripresi nitidamente con indosso quattro inconfondibili magliette dei Pokémon. Sono bambini, come altro dovrebbero vestire, del resto? Il pubblico ministero di Milano, Enrico Pavone, ha aperto un fascicolo per omicidio stradale, aggravato dall’omissione di soccorso, ma nessuno dei quattro ragazzini è imputabile, perché non hanno compiuto 14 anni.
Ora, è del tutto evidente che siamo di fronte a un fatto gravissimo, che riguarda minori nati e cresciuti nel nostro Paese e che ci obbliga a interrogarci su diverse macro-questioni: la sicurezza nelle strade; il degrado delle periferie metropolitane e l’immagine europea che ne deriva; le politiche inclusive; l’educazione dei e delle giovani; i diritti; i criteri di intervento dei Servizi Sociali; la genitorialità; la giustizia sociale e la legalità; finanche il diritto di cittadinanza. Quando ci si trova di fronte a problemi tanto complessi, la cosa peggiore che possiamo fare è affrontare la questione “di pancia”, affidandoci unicamente alle emozioni e alla solita manfrina dei luoghi comuni, a cui la politica più bieca degli ultimi trent’ anni ci ha purtroppo ormai abituati/e. Sui giornali, in questi giorni, si è letto di tutto, per non parlare dei social (solo alcune battute, per farvi capire, si va da «Bruciamo le baracche, con dentro tutti loro» a «Ecco il risultato di anni di sgomberi inefficaci: bisogna ammazzarli prima che ammazzino noi»). Ma come si vive dove bambine/i e adolescenti crescono tra caravan, roulotte e baracche fatiscenti? Anzitutto va segnalato che almeno la metà di chi abita negli accampamenti di Chiesa Rossa e via Selvanesco è costituita da minori in età scolare. La totalità di loro frequenta l’Istituto Comprensivo Arcadia dove, dopo la soppressione risalente a due anni fa dello scuolabus che li portava davanti al cancello d’ingresso, ragazzi e ragazze si devono recare percorrendo a piedi i due chilometri e più che separano i campi dall’istituto. La soluzione, per chi considera le nostre Istituzioni poco significative, è molto semplice: a scuola non si va, o, se si va, lo si fa senza continuità, come fosse un passatempo, giusto per evitare la segnalazione ai Carabinieri.
«Piango per mio figlio e la donna morta, ma sono bambini, non capiscono come i grandi» ha commentato la madre di uno dei ragazzini colpevoli di omicidio stradale. Il leader della Lega, come da prassi, non gliele ha mandate a dire: ha chiesto lo sgombero immediato dell’accampamento (finalmente possiamo tornare a invocare le intramontabili ruspe!), l’arresto di questi “pseudo genitori” e l’annullamento della patria potestà. «Basta con la tolleranza e il buonismo nei confronti dei rom e di gente che è davvero difficile definire genitore» affermano diversi post su Fb. A parte il fatto che né nei contesti giuridici, né tantomeno in quelli pedagogici si parla più dal secolo scorso di patria potestà, ma ormai si è passati alla definizione ben più ampia ed eticamente pregnante di responsabilità genitoriale, non credo proprio che sia impedendo a queste madri e padri assenti e incapaci di fare i genitori che risolveremo il problema. È piuttosto formando gli adulti a formare i figli e le figlie, che a loro volta sapranno formare i propri, che potremo garantire una soluzione a lungo termine per le generazioni future. So che questo significa investire sui percorsi socio-educativi, sulle figure professionali, sul Terzo Settore, che forse è considerato troppo di Sinistra per chi vede nelle ruspe la soluzione più rapida ed efficace, ma almeno per onestà intellettuale credo che una analisi seria della questione debba partire da due questioni. La prima è che, mentre la media di figli per donna in Italia cala costantemente dal 2010, quella delle madri rom sale; la seconda è che nel nostro Paese, la disponibilità di comunità e famiglie affidatarie per minori non è uniforme su tutto il territorio nazionale e in ogni caso non è sufficiente a soddisfare le esigenze di di tutte e tutti i bambini che necessitano di accoglienza e protezione. Basta parlare con un/a qualsiasi Assistente sociale di una città medio/grande di qualsiasi regione per sentire storie agghiaccianti di collocamenti posticci e d’emergenza, in mancanza di altre risorse. Te le raccontano con imbarazzo, queste soluzioni dell’ultim’ora, ben sapendo di star mettendo una toppa che, al primo colpo di vento, salterà via.
La vogliamo capire o no che se non investiamo sulle comunità di cittadini e cittadine, sul sistema del Welfare, sulle famiglie e sulla scuola per affrontare problemi simili a quello dell’infanzia rom, finiremo solo per crearne altri ancora più grossi? Lo sanno le nostre e i nostri politici che in Italia, in questo preciso momento, abbiamo nelle carceri quasi 62.500 detenuti e detenute, con una capienza degli edifici che non arriva a 51.000? Ma quale buonismo! È ovvio che questi ragazzini hanno commesso un reato gravissimo e che qualcuno dovrà risponderne. Senza sconti, sia chiaro. Ma lo è altrettanto che i bambini e le bambine non nascono sapendo già cosa sia il bene e cosa il male, quello glielo insegnano la cultura e l’educazione ed è proprio su queste che dobbiamo investire. Certo, sono processi lunghi e faticosi, ma sono la sola strada che consenta al problema di non incancrenirsi e non riprodursi a macchia d’olio senza fine.
Parte della comunità rom rifiuta di integrarsi con la cultura del Paese che la ospita. Non lo nasconde nessuno, è un dato di fatto. Ma noi cosa facciamo? Lasciamo che i rom si costruiscano delle “riserve personali” dentro le nostre città, che educhino o dis-educhino i figli come vogliono e poi, quando succede qualcosa di grave, invochiamo le ruspe o — altro grande classico — incolpiamo la scuola. La stessa cosa avviene in quartieri italianissimi, abbandonati dalle Istituzioni e dalla politica, in cui il degrado e l’inadeguatezza degli adulti espongono i bambini e le bambine a ogni tipo di pericolo o al silenzio delle coscienze. Possibile che non si possano avviare progetti sperimentali, villaggi misti, per esempio, in cui accanto a famiglie senza strumenti culturali, educativi e materiali convivano educatori e operatori socio sanitari in grado di far da guida e da sostegno alla genitorialità di madri e padri come quelli dei quattro ragazzini di Milano? Possibile che si lasci la scuola, come quella di Gratosoglio, annegare nei suoi problemi di abbandono scolastico e classi piene di alunni e alunne totalmente prive di motivazione scolastica?
Di fronte a situazioni di così evidente deprivazione (questi ragazzini sono stati privati di una minima educazione alla legalità, al senso del limite, al rispetto delle regole, alle norme del vivere collettivo, alla tutela della cosa altrui), invece dei bulldozer dovremmo scatenare orde di pedagogiste/i e sociologhe/i, dovremmo investire sulle capacità di coinvolgimento delle comunità locali, sulla partecipazione alla cittadinanza attiva, sulla scuola come parte imprescindibile e preziosissima del territorio in cui è collocata. Qui non si tratta di smembrare le famiglie disfunzionali (che continuano comunque a moltiplicarsi), ma di prenderle in mano per intero, dai più vecchi ai più giovani, per farne parte di una comunità che, tutta, sia capace di camminare insieme, aggiustare le falle, progettare un futuro possibile, correggendo le deviazioni di chi sceglie a qualsiasi età di guidare un’auto non sua, alle proprie regole. Costerà tempo, tanto. E denaro. Bisognerà cominciare a pensare alle educatrici e agli educatori in maniera molto più rispettosa e a riconoscer loro una professionalità indispensabile al futuro del nostro Paese, anziché considerarli alla stregua di pseudo badanti e animatori, come facciamo ora. Così, forse, solo allora saremo capaci di non gridare «Al lupo! Al lupo» ogni volta che la nostra incompetenza politica e umana, non “buonista”, ci metterà di fronte a fatti come quello di Milano.
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
