La terza parte del numero di luglio di Limes si intitola Il bivio iraniano ed è forse la più interessante perché contiene contributi di persone iraniane con una narrazione completamente diversa da quella veicolata dai media occidentali. Illuminante la conversazione di Limes con Mohsen Sazegara, cofondatore dei pasdaran e attivista in esilio, che ha creduto nei pasdaran e nella rivoluzione islamica per scacciare lo Scià, considerato allora un dittatore «fantoccio dell’America», non diversamente da quanto pensavano le e gli studenti iraniani in Italia nel 1979. Significativo, al riguardo, un manifesto tratto dall’ottima rubrica di Edoardo Boria.

Sazegara ha visto il declino della Repubblica islamica, pur avendo contribuito a fondare il gruppo dei Guardiani della rivoluzione (pasdaran e Sepah), scrivendone lo Statuto, e a ricoprire nel primo decennio incarichi di governo. È stato al fianco di Khomeini, come voce di tutte le cassette che l’ayatollah divulgava dall’estero prima della rivoluzione, ma a trent’anni ha messo in discussione, anche grazie ai suoi studi di storia, dopo quelli di ingegneria meccanica e fisica, il progetto massimalista che aveva abbracciato negli anni della giovinezza. È stato più volte arrestato e condannato, anche in contumacia, per le sue idee diffuse attraverso i quotidiani e tra le persone appartenenti all’Accademia. Si è candidato alle elezioni ma la sua candidatura è stata respinta dal potere religioso. Col tempo ha capito che la religione deve costituire un fatto privato e non politico. Oggi così risponde alla richiesta di definire chi sono oggi pasdaran: «Sono un drago a sette teste, ognuna separata dall’altra. Fanno tutte parte del Sepah, ma hanno nella Guida Suprema il loro raccordo». Questa parte dell’intervista è la più istruttiva, soprattutto in merito alla settima testa, «quella mafiosa dedita al contrabbando. Morteza Rezaei, il “comandante ombra”, gestisce la produzione industriale della droga nota come Captagon, della morfina e dell’eroina, supervisiona il contrabbando di oppio e coordina — con la collaborazione di oligarchi russi — una vasta rete di narcotraffico estesa da Kabul a Caracas, mentre dentro l’Iran gestisce bische, case d’appuntamenti e spaccio».

Così conclude Sazagara, al termine di una conversazione tutta da leggere, da cui emerge che il nemico da cui la repubblica islamica deve guardarsi non è una delle diverse religioni presenti nel mondo ma il consenso del popolo iraniano verso l’ateismo e l’agnosticismo: «Cosa vogliono gli iraniani al posto della Repubblica Islamica? Vogliono una democrazia laica conforme alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Vogliono un paese compatto e libero da guerre intestine, in pace con il mondo. Credo ci si possa arrivare attraverso la resistenza civile, paralizzando la macchina governativa con gli scioperi e altre forme di pressione non violenta».

L’attacco di Netanyahu e Trump all’Iran, avvenuto dopo una serie di uccisioni di leader significativi del Paese, è stato spacciato dai due Capi di Governo come un progetto di liberazione di un popolo soffocato dalla repressione cruenta del regime, ma potrebbe avere l’effetto contrario, come spiegano Giacomo Arrigo che presenta la nuova generazione dei potenziali eredi di Khamenei, pragmatici e spietati e Mario Giro in Teheran senza amici, che così scrive:« L’attacco israelo-americano provoca un movimento di patriottismo nazionalista fortissimo che solidifica e non disgrega la rivoluzione islamica. La guerra degli anni Ottanta contro Baghdad fu l’occasione per Khomeini di rappresentare lo spirito nazionale iranico che dura da millenni. Impero assiro, impero persiano achemenide o sasanide, i parti, poi la Persia fino all’attuale Iran: salvo Alessandro Magno, nessuno è mai riuscito — nemmeno Roma — a domare l’indipendenza di quelle genti. In quel frangente nacque anche il mito dei pasdaran, che pagarono a caro prezzo la difesa del nuovo Iran di cui oggi sono i padroni». Prima della guerra a Teheran si ballava. E adesso? è il racconto inaspettato di Giacomo Longhi, che prima dell’attacco israelo-americano è stato nella capitale iraniana. Quasi un controcanto alla narrazione stereotipata veicolata dai paesi occidentali, di cui Israele fa parte, di ciò che vi accadeva prima della guerra dei dodici giorni. Perché la realtà è sempre variegata e non può essere cristallizzata in uno stereotipo.

Scrive Longhi: «A livello di produzione letteraria, bisogna sottolineare il ruolo centrale delle donne. Scrivono tantissimi libri e le autrici vendono decisamente più dei loro colleghi uomini. Potrei citare molti titoli, ma mi limito a tre best-seller che hanno segnato la letteratura degli ultimi cinquant’anni: Suvashun di Simin Daneshvar (1969), Spengo io le luci di Zoya Pirzad (2001) e L’autunno è l’ultima stagione dell’anno di Nasim Marashi (2014), tutti tradotti in italiano. C’è ancora una forte distinzione tra letteratura alta e letteratura di consumo, ma sta iniziando a venire meno. Ci sono molti romanzi che affrontano tematiche sociali, e molto interessanti sono anche i libri che cercano di fare i conti con la guerra tra Iran e Iraq […] Su Telegram girano battute ironiche del tipo: «C’è voluto Israele per trasformare Donna, Vita, Libertà in un movimento vicino alla Repubblica Islamica». Insomma, l’attacco dello Stato ebraico ha unito la popolazione iraniana, che sta mettendo da parte le differenze. Discutere di cambio di regime, a mio avviso, è fuori luogo. Se ne parla più in Italia che a Teheran, dove una larga parte della popolazione considera le forze militari dei difensori della patria».
In questo numero, dopo l’editoriale del direttore, sempre denso di richiami storici, scientifici, geopolitici e questa volta persino poetici, c’è un articolo dedicato alla percezione e all’atteggiamento delle e degli italiani sulla guerra: Gli italiani vogliono che la guerra li lasci in pace, scritto dal Direttore del Censis. Per le donne e gli uomini del nostro Paese la guerra non è imminente e se si dovessero allargare i conflitti in corso solo il 16% si dichiara pronto a combattere, mentre la grande maggioranza protesterebbe con slogan pacifisti (in questa, che è l’unica tabella con dati suddivisi per genere, il 48% di donne è contrario alla guerra “senza se e senza ma”), opporrebbe un secco rifiuto alla mobilitazione e addirittura la popolazione maschile diserterebbe, caldeggiando il ricorso a forze mercenarie straniere. Stranamente, però, una notevole percentuale degli e delle intervistate correrebbe a combattere in aiuto della Groenlandia. Potenza del principio di non contraddizione! Sul potenziamento della nostra sicurezza solo un 20% è contrario al riarmo, un 25% vede con favore l’aumento della spesa per le armi mentre la restante parte delle e degli intervistati ha posizioni sfumate. Una persona su 10 è favorevole a dotarsi dell’arma nucleare. La via maestra da seguire nelle guerre in corso è quella della neutralità. A chi leggerà l’articolo il piacere di scoprire gli altri orientamenti della popolazione italiana e l’invito del Direttore a usare i nostri talenti tattici per «sedare scontri, ricucire strappi, intrecciare oblique relazioni per ristabilizzare il nostro intorno geostrategico. E così portare la nostra piccola pietra alla causa della pace, o almeno non-guerra».


In appendice all’editoriale dal titolo Quando non ci sei non capisco dove mi trovo (a chi leggerà il piacere di scoprire a che cosa si riferisce) troviamo una bellissima poesia di un poeta satirico e attivista iraniano, più volte arrestato e incarcerato dal regime. «Per tragica ironia della cronaca, il bombardamento israeliano del 30 giugno su Teheran ha colpito l’«università di Evin» — carcere dove sono ospitati molti oppositori del regime — uccidendo 71 persone, tra cui diversi “docenti e studenti” e loro parenti in visita.
Riportiamo qui la bella poesia.
L’Università di Evin
Nel febbraio del Settantanove,
ricordo come fosse ieri,
sul muro del carcere di Evin
qualcuno aveva scritto:
«Sappiate gente che ben presto,
caduto il regime dello Scià,
grazie agli sforzi del clero,
il carcere diverrà università».
Per anni e anni, continuai a chiedermi:
«Dove sono finite quelle belle promesse?
Quando accadrà tutto questo?»
Infine, trovandomi in prigione io stesso
vidi in ogni angolo docenti e studenti.
Fu così che le prigioni divennero università.
Mohammad Reza Ali Payam, Halloo
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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.
