L’inclusione di chi scrive le leggi, non è la mia

È notizia di fine giugno 2025: la Commissione Cultura del Senato ha approvato il disegno di legge n.180, dedicato al riconoscimento e al sostegno degli alunni e delle alunne ad alto potenziale cognitivo. Si sentiva la mancanza, in effetti, dell’ennesimo acronimo dentro la documentazione scolastica, che già vive di sigle e abbreviazioni (Pei, Dsa, Pdp, Icf, Nai, Pfi, Pdf, Pai, Ptof, Ds, Dsga, Ic, Dop, Dgs ecc.): signore e signori, ci siamo finalmente tutte e tutti accorti che nelle nostre classi ci sono anche bambini e ragazze Apc (ad alto potenziale cognitivo), che, guarda un po’, hanno bisogni e funzionamenti molto diversi da quelli della/o studente medio! E dire che in America ci erano arrivati più di cinquant’anni fa e che in Italia da almeno quindici anni l’équipe della prof. Maria Assunta Zanetti dell’Ateneo di Pavia (ma andrebbero citate pure altre Università, come Padova e Roma) si spende con ogni mezzo per formare docenti e proporre modifiche alla pratica didattica, in una direzione che tenga conto di quel 5% della popolazione scolastica che rientra nel quadro della plusdotazione. 

Di chi stiamo parlando, quando usiamo il termine “alunna/o Apc o plusdotato o gifted”? Di tutti quei bambini e quelle bambine che, dentro le scuole, portano un funzionamento alternativo dovuto a una neurodivergenza, un QI sopra il 120 e che di solito si perdono nel mare magnum delle nostre classi, in cui si tende sempre a fare di tutta l’erba un fascio. 
La legge in questione definisce plusdotato chi mostra, in una o più aree (logica, linguistica, matematica, artistica), una capacità di apprendimento più rapida e sviluppata rispetto alle/ai coetanei dello stesso grado di scolarizzazione. Si tratta di abilità spesso precoci, che richiedono attenzioni e strategie specifiche per essere riconosciute e sostenute, precisa il testo. Posso dire, una volta per tutte, che ci siamo rotte e rotti le scatole di questa rincorsa delle leggi alle scoperte delle neuroscienze? Perché è da quando lavoro nella scuola, ormai più di vent’anni, che mi tocca assistere al balletto imbarazzante di ministri/e e governi che, appena esce una nuova definizione diagnostica, si affrettano a emanare circolari o normative affinché quella specifica caratteristica sia riconosciuta nella didattica e messa nero su bianco in appositi documenti. Spariscono le classi speciali? Sotto con la legge 104/92, i Piani educativi individualizzati, che prevedono una serie di misure personalizzabili, condivise tra scuola e famiglia. Si passa dalla diagnosi di autismo a quella di spettro autistico, che allarga immensamente le maglie della definizione? Fioccano le certificazioni dentro le scuole e giù con la documentazione e gli interventi ad personam. Si scoprono i Disturbi di apprendimento? Subito le indicazioni per i Piani didattici personalizzati, le circolari ministeriali sui Bisogni educativi speciali, le carte che si moltiplicano e si infittiscono di misure compensative e dispensative. 

C’è da scommetterci che la legge sugli alti potenziali sarà corredata di indicazioni e prescrizioni, cui noi povere/i docenti senza colpe dovremo adeguarci. Basta, per pietà, facciamola finita con questa ridicola manfrina del «noi accogliamo anche voi, bambini e bambine diverse, perché riconosciamo i vostri bisogni specifici e adeguiamo la proposta alle vostre esigenze particolari». Esiste qualcosa di più ovvio, per una agenzia educativa quale la scuola dovrebbe essere, che dare a ogni alunno e alunna ciò di cui ha bisogno? La vogliamo piantare una volta per tutte con queste classificazioni a cui far corrispondere strumenti operativi, comunque standardizzati? Va benissimo essere informate/i del fatto che un ragazzino sia dislessico, intendiamoci, come è sacrosanto sapere se una alunna ha un QI di 134, sono punti di partenza imprescindibili nella conoscenza dello/a studente, ma l’adeguamento della proposta formativa al funzionamento di chi è lì per imparare deve essere un diritto di tutti e tutte, non solo di chi ha la sua bella etichetta appiccicata addosso. 
Ai fini del mio lavoro, io devo essere in grado, a partire dall’osservazione di chi mi sta di fronte, di personalizzare la mia lezione, il mio laboratorio, la mia didattica, affinché a ognuno e ognuna sia dato ciò di cui ha bisogno. La crescita completa e felice della persona umana non ha uno scopo, è lo scopo del fare educativo. Lo sviluppo dei talenti personali di ogni studente non emerge casualmente dal fare scolastico, è il fine di questo fare. E allora, mi chiedo, ci servono davvero tutte queste leggi, indicazioni, normative, linee guida, circolari che, a ogni nuova scoperta scientifica, ricordano a docenti di ogni ordine e grado che devono saper personalizzare la propria didattica in base ai bisogni dei singoli alunni e delle singole alunne? 
Io dico di no. Mi sento un po’ trattata da scema, a dire il vero. Scema e incompetente. Quello che servirebbe davvero, a mio avviso, è l’obbligo di formazione permanente nella direzione di una conoscenza dei funzionamenti di studenti maschi e femmine e di una conseguente didattica innovativa, multisfaccettata, che abbracci tutte le intelligenze, che sia abbastanza duttile e malleabile da adattarsi a diverse modalità di apprendimento, che sappia divertire ma allo stesso tempo chiedere impegno e sforzo, che sappia modellarsi sulle richieste dei ragazzi, sui bisogni delle bambine, che accenda in loro il desiderio di spendersi, di giocare tutte le carte e i talenti che la natura ha dato loro.

La vera inclusione non è capire le differenze, segnalarle, e provare a tenerle dentro una didattica standard, ma fare delle differenze individuali la più grande risorsa per una didattica che sia unica e irripetibile per quella classe, quel gruppo e quella singola persona. 
Ciò che ci rende diversi è anche ciò che rende ciascuno/a di noi sé stessa. Come possiamo non valorizzare questa coabitazione di unicità nel tempo scuola? Siamo idiote/i? Siamo macchine senza intelligenza emotiva e creativa? Allora che ci vada ChatGPT a fare lezione al posto nostro: ci risparmieremmo un sacco di errori, una marea di discussioni con le famiglie e soprattutto il bilancio statale ringrazierebbe. Invece in aula continuiamo a esserci noi, perché solo nell’incontro di persone, nella relazione autentica i talenti di ognuna/o possono risuonare ed emergere. Ma dobbiamo dargliene l’occasione, creare lo spazio adeguato. Che abbiamo un QI di 75 o di 140, tutte e tutti noi abbiamo un modo personalissimo e irripetibile di stare al mondo, di porci domande e cercare risposte. Un modo che, unito a quello degli individui che camminano con noi, può dar vita a un percorso di conoscenza e scoperta entusiasmante, gioioso, vitale, ricco. Questa è la postura che, a mio avviso, ogni insegnante decente dovrebbe avere. Che esca o meno quella o quell’altra legge. Che si scopra o meno quello o quell’altro disturbo del neurosviluppo. 

Passerà a breve il disegno di Legge 180 del 2025 sulla plusdotazione a scuola? Bene, colmiamo un po’ del vuoto cosmico in cui, su questo argomento, il nostro Paese ha navigato per anni. Dagli studi sul legame tra investimento sul potenziale nelle scuole e Pil degli Stati, pare anche che il primo abbia sul secondo un effetto positivo pari a circa il 2%. Forse da domani, quindi, saremo un Paese un poco più ricco. Ma se serve davvero una legge ad hoc per far fare al corpo insegnante una proposta decente per studenti ad alto potenziale (o a basso o a medio), io dico che siamo messi/e davvero male.

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Articolo di Chiara Baldini

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Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

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