Miss America Protest

Miss America è una delle competizioni televisive più seguite negli Usa fin dall’anno della sua inaugurazione, nel 1921. Organizzata presso la Boardwalk Hall di Atlantic City, New Jersey, la gara prevedeva (e prevede tuttora) diverse fasi, in cui la candidata si sarebbe dovuta distinguere per poter accedere alla classifica delle finaliste. La prima fase della competizione consisteva in un’intervista privata che intendeva valutare l’eloquenza della giovane a partire dagli argomenti più leggeri e frivoli fino ad arrivare alla politica e all’attualità. A questa fase seguiva quella che valutava il talento, dove la candidata doveva fare mostra di una sua capacità a scelta. Si passava poi alla prova del costume da bagno, nella quale si doveva sfilare in tacchi alti e indumenti balneari. Nel gran finale, ognuna doveva sfoggiare un abito elegante e un portamento distinto; in quest’ultima sfida, le ragazze dovevano rispondere a una domanda casuale per la quale non avevano avuto la possibilità di prepararsi. La vincitrice di Miss America 1969 fu Judith Ford, che aveva vinto il titolo di “Miss Illinois” l’anno precedente; con la sua pelle bianca e i boccoli biondi, rappresentava alla perfezione il canone estetico dominante, ovvero quello anglo-centrico.

Robin Morgan, attrice, poeta e politica, è considerata una delle donne che ebbero un maggiore ruolo nella cosiddetta “Miss America protest”, che avvenne ad Atlantic City il giorno stesso della competizione, il 7 settembre 1968. La protesta fu il risultato dell’unione di diversi movimenti per i diritti civili e delle Nyrw (New York Radical Women), andando a costituire una delle proteste più importanti del femminismo di seconda ondata. Robin Morgan fu anche la scrittrice dietro al volantino delle Nyrw che riassumeva i dieci punti fondamentali della protesta: No more Miss America!, 22 agosto 1968. Il primo punto, intitolato The degrading mindless-boob-girlie Symbol, paragona la competizione a una fiera in cui gli animali sono giudicati per i denti e l’aspetto. La donna è quindi valutata in base alla sua avvenenza, i cui canoni sono stabiliti da un gruppo giudicante composto principalmente da uomini. Questo aspetto di deliberata oggettivazione sessuale che permea la propaganda estetica dell’intero Novecento è pure al centro di un intervento di Catharine MacKinnon, avvocata e attivista statunitense: «La sessualità è per il femminismo quello che il lavoro è per il marxismo: la cosa che più ci appartiene e che più ci è sottratta. […] L’oggettivazione sessuale è il primo passo sulla via della sottomissione delle donne. Essa unisce azione e parola, costruzione ed espressione, percezione e imposizione, mito e realtà. L’uomo fotte la donna: soggetto predicato complemento» (Catharine MacKinnon, “Feminism, Marxism, Method and the State: An Agenda for Theory”, in Signs, 7, 1982).

Morgan sottolinea l’intelaiatura razzista della competizione, che dall’anno della sua prima istituzione non ha mai avuto una finalista nera né una Miss America nel vero senso del termine, ossia una vincitrice nativa-americana. La scrittrice continua poi la sua critica ricordando come le vincitrici di Miss America vengano inviate al fronte vietnamita per convincere padri, figli e fratelli a uccidere ed essere uccisi con uno spirito più alto e patriottico, e oppone a questa dinamica lo slogan We refuse to be used as mascots for murder (“Ci rifiutiamo di essere usate come mascotte per l’omicidio”). Il nono punto del volantino insiste sul tema del potere affermando che, mentre agli uomini viene riservato il potere vero, quello che fa sentire la propria ingerenza nella vita delle persone, alle donne viene concesso, con malcelate venature paternalistiche, uno pseudo-potere sotto forma di una corona luccicante e di applausi compiacenti.

Continua Morgan: «Il concorso di bellezza di Miss America è sempre stato una gara candida e razzista: la vincitrice fa il giro del Vietnam, intrattenendo le truppe come una “Mascotte dell’omicidio”. L’intera trovata non è altro che un gioco prezzolato per vendere i prodotti dello sponsor. Dove altro si potrebbe trovare una così perfetta combinazione dei valori americani razzismo, militarismo, sessismo tutti impacchettati in un “simbolo ideale”, una donna?» (Beth Kreydatus, “Contesting Miss America: The Boardwalk protest of 1968”, in Pennsylvania Legacies, vol. 18 n. 2, Autunno 2018, The Historical Society of pennsylvania, University of Pennsylvania Press). La protesta, dunque, aveva un sostanziale carattere di intersezionalità che non andava a toccare soltanto il tema segregazionista in un tempo ancora pesantemente influenzato dalle leggi Jim Crow, ma anche quello delle norme sul gender, del consumismo accanito e della celebrazione della guerra.

Miss America Protest

Come la storica Georgia Paige Welch evidenzia, se negli anni Trenta la competizione aveva apertamente vietato l’accesso alle donne nere, verso gli anni Sessanta le afroamericane potevano effettivamente candidarsi, ma solo con esplicito supporto dei movimenti per i diritti civili (Georgia Paige Welch, “Up against the wall Miss America: Women’s Liberation and Miss Black America in Atlantic City, 1968”, in Feminist Formations, vol. 27 no. 2, Estate 2015, The Johns Hopkins University Press). Le donne nere, per poter gareggiare, dovevano necessariamente aderire al canone estetico specifico della “black respectability”, la rispettabilità nera, per la quale erano tenute a mostrare un portamento dignitoso, capelli acconciati al modo delle bianche, trucco per schiarire il tono della pelle e vestiti eleganti tipici del ceto medio. In tutto e per tutto erano tenute a uniformarsi al canone estetico delle donne bianche, costituito nei suoi caratteri dall’opprimente sguardo maschile. Secondo Luce Irigaray, filosofa e psicanalista di riferimento nella riflessione femminista, l’economia binaria è ciò che sta alla base della subalternità femminile. Attraverso una mimesi della procreazione materna, l’Uomo (o il Padre) di fatto partorisce un sistema di significazione del reale che impone un ruolo specifico e ben definito alla donna, un ruolo che risponde ai suoi desideri più vari. A partire dal modello della madre oblativa fino a quello della seduttrice impenitente, la donna è chiamata ad adeguarsi a quello sguardo maschile come fosse un atto naturale e necessario per il mantenimento dell’ordine (Adriana Cavarero, “Il pensiero femminista. Un approccio teoretico”, in Le filosofie femministe, Adriana Cavarero e Franco Restaino, Paravia, Torino 1999). Svilita nella carne come nello spirito, la donna viene costretta a ricoprire il suo ruolo per accomodare il sistema creato dall’uomo stesso. Come Sophie per l’Emilio di Rousseau, la sua intera esistenza è dedicata a rendere gradevole quella del compagno.

Solamente verso il 1970 ci sarà un vero e proprio sovvertimento di questa tendenza: alla rispettabilità nera subentra la “black womanhood”, la femminilità nera, una vera e propria rivendicazione dei tratti naturali delle donne di colore e per questo fonte di orgoglio. Il soggetto del binarismo si sposta: non è più l’occhio bianco a determinare il canone estetico, ma è l’oggetto guardato, il secondo termine,a ricoprire tale ruolo. Questo spirito è alla base dell’insorgere di un altro tipo di protesta, di natura qualitativamente diversa rispetto a quella sopracitata, ma di una valenza storica innegabile. Parallelamente alla protesta delle Nyrw, nello stesso giorno e a pochi isolati di distanza, venne tenuta la competizione Miss Black America, che costituì al tempo stesso una protesta allo sfondo razzista della gara bianca e anche una celebrazione dei tratti somatici e della bellezza neri. Mentre Judith Ford veniva incoronata Miss America, un’altra Miss di nome Saundra Williams veniva acclamata come la rappresentante dell’estetica e dell’orgoglio neri.

Miss Black America

La contro-competizione venne organizzata da J. Morris Anderson, un imprenditore di Philadelphia, e da Phillip H. Savage, un membro della Naacp (National Association for the Advancement of Colored People, organizzazione che però non prese parte attivamente alla protesta). L’obiettivo dei due organizzatori era quello di creare una competizione completamente nera che si opponesse a quella bianca, incorporando alcuni aspetti di quest’ultima e legandoli indissolubilmente all’ideale del black pride e della black womanhood. Le concorrenti sfoggiavano la loro bellezza mostrando i loro capelli naturali e cimentandosi nei talenti più vari; la vincitrice, Saundra Williams, si esibì in un ballo tradizionale africano e recitò un monologo teatrale intitolato I am Black.

Secondo Georgia Paige Welch, la convergenza delle due proteste è stata il risultato di alcune specifiche occorrenze storiche, e fra i due movimenti identifica tre punti di contatto. Il primo riguarda il clima di critica che si stava polarizzando attorno alla competizione stessa, definita come ormai sorpassata, banale e uniformante nei confronti delle candidate; il secondo concerne il clima di collettivo fermento politico dell’epoca, e infine il terzo vede più da vicino i contatti diretti che ci sono stati tra le Nyrw e gli organizzatori di Miss Black America. Tuttavia, la contro-competizione nera presentava al suo interno diversi punti critici. Innanzitutto, era opinione di molte/i attiviste/i che attuare una politica separatista per affrontare il problema del razzismo non fosse la via più adatta. In secondo luogo, di fatto la competizione nera riprendeva appieno le vincolanti politiche del gender di quella bianca, e le candidate erano giudicate in base all’aspetto fisico allo stesso modo. L’occhio giudicante, questa volta nero, era pur sempre maschile. A ogni modo, le due proteste costituirono un momento cruciale nella storia del femminismo americano di seconda ondata e lo studio di entrambe permette di mettere a fuoco le contraddizioni interne e l’ideologia pregnante di uno dei fenomeni mediatici più seguiti ancora oggi.

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Articolo di Beatrice Ceccacci

Studente magistrale in Filologia Moderna, si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università La Sapienza di Roma. Fin dai primi anni di studio, ha coltivato un forte interesse per i women and gender studies, un interesse che ha trovato espressione nella sua tesi triennale dedicata alle trobairitz, le prime poete provenzali.

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